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Autore: Shinta    08/12/2007    6 recensioni
Come diceva Hitchcock riguardo al cinema "è una fetta di torta, non una fetta di vita!", così anche questo breve racconto, in cui ripercorro in chiave ironica alcuni periodi della mia vita.
Genere: Commedia, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho iniziato ad avere fantasie erotiche che avevo circa 12 anni, quindi beh, sì, credo in media con tutto il resto del mondo

Ho iniziato ad avere fantasie erotiche che avevo circa 12 anni, quindi beh, sì, credo in media con tutto il resto del mondo.

Tuttavia credo che le mie fossero, e probabilmente sono, particolari, diverse da quelle dei miei coetanei del tempo. Non lo dico per presunzione, non dico nemmeno che le mie fossero migliori, ma diverse sicuramente sì, più ricercate, elaborate, complicate!

Per esempio, quando fuori l’oratorio tra amici ci si raccontava su cosa ci si fosse masturbati l’ultima volta, rimanevo sconcertato della pochezza dei racconti degli altri… praticamente poveri di qualunque trama, come nemmeno un film porno girato dai Vanzina coi fondi statali! Subito erano il protagonanista e la sua sparring partner sul letto, già nudi, se non già con lui infilato dentro e vai col tango!

Io no cazzo, io la prendevo molto più alla larga. Se dovevo sognarmi che mi trombavo una compagna di classe alla fine delle lezioni, la mia fantasia partiva minimo minimo dalla colazione, poi andavo ad immaginrmi tutte e 6 le ore di lezione (una buona occasione per ripassare comunque) nelle quali sovente ero interrogato e umiliato (ma ricevevo lo sguardo rassicurante della mia sparring) fino a che per i motivi più assurdi non finivo a rimanere solo con lei, e allora, col massimo del tatto e della gentilezza, cercavo il più filmico degli approcci, che tra l’altro neanche andava sempre a buon fine.

Inutile dire che, per immaginare tutte ‘ste cose, rimanevo in bagno per due ore o più.

Mia madre, dopo avermi mandato dal dottore che aveva scongiurato qualsiasi tipo di virus intestinale, credo avesse capito cosa combinavo. Potevo leggerlo soprattutto negli sguardi insoddisfatti che lanciava a mio padre, e che sapevano tanto di “è in bagno da due ore filate, di certo non avrà ripreso da te.”.

Poco su ho parlato di motivi o situazioni assurdi che per un verso o per l’altro mi facevano rimanere solo con la mia damigella. Ecco, con il tempo mi accorsi di aver sviluppato una certa non so quale perversione per i disastri naturali.

Il mio ego infatti volava talmente basso, che anche nelle mie fantasie una donna me l’avrebbe data solo in caso di catastrofi di dimensioni tali per le quali io fossi rimasto l’unico uomo sulla Terra con il quale copulare.

Mi immaginavo su uno yacht che affondava e grazie alle mie abilità natatorie riuscivo a portare in salvo la tipa che mi piaceva (gli altri 15 passeggeri potevano anche crepare fulminati dalle anguille elettriche) su un’isola che, guarda caso, era deserta; oppure su un aereo in fiamme, che grazie all’abilità del pilota riusciva a fare un atterraggio di emergenza su un’isola altrettanto deserta, che poi alla fine era sempre la stessa, ma purtroppo, a parte me e quella che mi volevo scopare, morivano tutti. Alle volte in realtà il pilota, tanta era la sua abilità, sopravviveva. Ricordando quanto detto poco sopra riguardo al mio ego, per paura che la tipa me la fottesse lui, non sapendo né leggere né scrivere finivo per ucciderlo io stesso, coi mezzi più d’occasione. Il più usato se non sbaglio era la noce di cocco, anche perché poi grazie all’impatto riuscivo anche ad aprirla per dare il via ad un delizioso antipasto con la mia bella.

Alcune volte invece, ché magari dovevo andare agli allenamenti di basket, o a catechismo, non potevo aspettare che l’aereo andasse in fiamme, sennò tardavo e l’allenatore, che era un tipo molto incazzoso, mi uccideva, così tentavo la copula direttamente al check-in.

A pensarci adesso questa eventualità sarebbe davvero impossibile, non tanto per la gente che c’è al check-in, la polizia o quant’altro… quanto piuttosto per il fatto che io ho paura dell’aereo e un’ora prima di prenderlo non mi si alzerebbe nemmeno a gravità 0.

Di questa mia perversione per gli eventi catastrofici iniziai a farne una ragione di vita. Presi a guardare con grande attenzione i telegiornali a tutte le ore, per vedere se nel raggio di 20 km (tanto riuscivo a fare ai tempi con la mia bicicletta) ci fossero i presagi di un incendio, un terremotino, un acquazzone che si abbatteva sui partecipanti della sagra del peperone grigliato, qualcosa del genere insomma, per fiondarmici immediatamente e avere così il mio primo rapporto. Primo rapporto, sì, nonostante la bici fosse con le marce.

Niente di niente comunque, non succedeva nulla se non lontanissimo. Una volta ricordo che il mezzobusto del TG1, tutto disperato, annunciò una specie di maremoto in qualche Paese esotico lontano, al che esclamai “ma che palle, sempre lì, tutte le fortune c’hanno ‘sti musi gialli”.

Mia madre era molto compiaciuta di questo mio incredibile interesse per l’informazione, naturalmente ignara dei motivi che mi spingevano a farlo, costringendomi tra l’altro a sognarmi Chicco Mentana di notte, così mi chiese, nel mentre di un TG2 spazio economia se non volessi fare il giornalista da grande.

Pensai che quello sarebbe potuto essere il mestiere ideale per me, avrei potuto sapere in anteprima cosa accadeva nel mondo, e prima di tutti gli altri avrei potuto fondarmi a consolare le vittime, a modo mio. Così risposi di sì, e fino alla fine delle superiori andai avanti con la convinzione che avrei fatto il giornalista, cosa che mi avrebbe portato a iscrivermi alla facoltà di scienze della comunicazione.

Ora, a scienze della comunicazione, mi pareva quasi aver realizzato il mio sogno. Non tanto perché sentivo che sarei diventato un giornalista grazie ai miei studi, quanto perché scienze della comunicazione è un figaio assurdo, ci stanno 10 femmine per ogni studente maschio, roba che neanche i tedeschi con gli italiani.

Infatti per quanto riguarda il sogno di fare il giornalista, quello l’ho abbandonato da un pezzo, anzi, è un mestiere che non mi piace più, mentre per l’altro, beh, ancora mi barcameno.

In fondo dovete anche capirmi, io alle superiori ho fatto il tecnico industriale, in classe eravamo 24 maschi ed una sola femmina… e che femmina! Annamaria, si chiamava. Credo che i genitori le avessero messo due nomi femminili in uno per ribadire il concetto, qualora qualcuno al cospetto di cotanta bruttezza si fosse trovato un po’ confuso. Era (e a quanto i beninformati mi dicono, è) talmente brutta che anche se passa a 200 all’ora sulla Colombo, gli autovelox la foto non gliela scattano. Davvero oh, non sto esagerando, era così brutta che la usavamo per farci passare il singhiozzo.

Oltre alla poca avvenenza era anche piuttosto antipatica. Questo aveva il suo vantaggio però, infatti veniva invitata a tutte le feste di compleanno dei compagni di classe, dato che una penitenza originale da far fare al gioco “obbligo o verità” può essere sempre utile.

Una volta il professore di italiano le disse se non fosse il caso di andare al “Brutto anatroccolo”, una trasmissione tv abbastanza in voga ai tempi. Era un format piuttosto semplice, prendevano una persona a caso, la conciavano come il cesso di un ristorante messicano dopo la serata “Free Chili” e facevano vedere che quello era il “prima”. Poi, facendola pittare dai truccatori di Platinette, pettinandola, lavandola e stirandola, la presentavano notevolmente più decente di quanto visto a inizio trasmissione. Un buon investimento tutto sommato, considerando che con Annamaria dovevano anche risparmiarsi la parte del conciarla male. Mio Dio, indossava degli abiti improponibili. Ricordo che una volta, dopo l’ennesimo gilet marroncino su camicia nera le dissi “Brava Anna, carino questo gilet, fai bene a metterlo, ché magari di colpo torna di moda e tu, tac!, ti fai trovare pronta!”, ma lei non capì. Io, che sono curioso di natura, inizia anche a interrogarmi sulla casualità o meno dell’assonanza gilet-bidet.

Da par suo lei tuttavia non seguì neanche il consiglio del professore naturalmente, nonostante questi, a parte quest’uscita poco galante, fosse in realtà una grande persona, ed io, modestamente, ero il suo allievo preferito. L’unico ad avere in italiano e storia, tra tutte le classi che lui aveva avuto, 8 e 8.

Una cosa sola mi rimproverava spesso però: di non saper scrivere buone conclusioni. E questo fu un tarlo che mi rimase dentro per sempre, tanto ché, sempre convinto che avrei fatto il giornalista, pensai che se un giorno mi fosse capitato di dover scrivere qualcosa, avrei cercato di inventare un nuovo stile, uno stile per il quale non servano le conclusioni alla narrazione, che deve interrompersi così, di colpo, lasciando il lettore con la continua frustrazione di un desiderio inappagato. Un po’ come accadeva con le mie fantasie sessuali.

  
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