Ho
iniziato ad avere fantasie erotiche che avevo circa 12
anni, quindi beh, sì, credo in media con tutto il resto del mondo.
Tuttavia
credo che le mie fossero, e probabilmente sono,
particolari, diverse da quelle dei miei coetanei del tempo. Non lo dico per
presunzione, non dico nemmeno che le mie fossero
migliori, ma diverse sicuramente sì, più ricercate, elaborate, complicate!
Per
esempio, quando fuori l’oratorio tra amici ci si raccontava su cosa ci si fosse masturbati l’ultima volta, rimanevo
sconcertato della pochezza dei racconti degli altri… praticamente poveri di
qualunque trama, come nemmeno un film porno girato dai Vanzina
coi fondi statali! Subito erano il protagonanista e
la sua sparring partner sul letto, già nudi, se non
già con lui infilato dentro e vai col tango!
Io no cazzo, io la prendevo molto più alla larga. Se dovevo
sognarmi che mi trombavo una compagna di classe alla
fine delle lezioni, la mia fantasia partiva minimo minimo dalla colazione, poi andavo ad immaginrmi tutte e 6 le ore di lezione (una buona occasione
per ripassare comunque) nelle quali sovente ero interrogato e umiliato (ma
ricevevo lo sguardo rassicurante della mia sparring)
fino a che per i motivi più assurdi non finivo a rimanere solo con lei, e
allora, col massimo del tatto e della gentilezza, cercavo il più filmico degli
approcci, che tra l’altro neanche andava sempre a buon fine.
Inutile dire che, per immaginare tutte ‘ste
cose, rimanevo in bagno per due ore o più.
Mia madre, dopo avermi mandato dal dottore che aveva scongiurato
qualsiasi tipo di virus intestinale, credo avesse capito cosa combinavo. Potevo leggerlo soprattutto
negli sguardi insoddisfatti che lanciava a mio padre, e che sapevano tanto di “è in bagno da due ore filate, di certo non avrà ripreso da
te.”.
Poco su ho parlato di motivi o situazioni assurdi che per un verso o
per l’altro mi facevano rimanere solo con la mia damigella. Ecco, con il tempo
mi accorsi di aver sviluppato una certa non so quale
perversione per i disastri naturali.
Il mio
ego infatti volava talmente basso, che anche nelle mie
fantasie una donna me l’avrebbe data solo in caso di catastrofi di dimensioni
tali per le quali io fossi rimasto l’unico uomo sulla Terra con il quale
copulare.
Mi immaginavo
su uno yacht che affondava e grazie alle mie abilità natatorie riuscivo a
portare in salvo la tipa che mi piaceva (gli altri 15 passeggeri potevano anche
crepare fulminati dalle anguille elettriche) su un’isola che, guarda caso, era
deserta; oppure su un aereo in fiamme, che grazie all’abilità del pilota
riusciva a fare un atterraggio di emergenza su un’isola altrettanto deserta,
che poi alla fine era sempre la stessa, ma purtroppo, a parte me e quella che
mi volevo scopare, morivano tutti. Alle volte in realtà il pilota, tanta era la
sua abilità, sopravviveva. Ricordando quanto detto poco sopra riguardo al mio
ego, per paura che la tipa me la fottesse
lui, non sapendo né leggere né scrivere finivo per ucciderlo io stesso, coi
mezzi più d’occasione. Il più usato se non sbaglio era la noce di cocco, anche
perché poi grazie all’impatto riuscivo anche ad aprirla per dare il via ad un
delizioso antipasto con la mia bella.
Alcune
volte invece, ché magari dovevo andare agli
allenamenti di basket, o a catechismo, non potevo aspettare che l’aereo andasse
in fiamme, sennò tardavo e l’allenatore, che era un tipo molto incazzoso, mi uccideva, così tentavo la copula direttamente
al check-in.
A
pensarci adesso questa eventualità sarebbe davvero
impossibile, non tanto per la gente che c’è al check-in, la polizia o quant’altro… quanto piuttosto per il fatto che io ho paura
dell’aereo e un’ora prima di prenderlo non mi si alzerebbe nemmeno a gravità 0.
Di questa
mia perversione per gli eventi catastrofici iniziai a farne una ragione di
vita. Presi a guardare con grande attenzione i
telegiornali a tutte le ore, per vedere se nel raggio di
Niente di
niente comunque, non succedeva nulla se non
lontanissimo. Una volta ricordo che il mezzobusto del TG1, tutto disperato,
annunciò una specie di maremoto in qualche Paese esotico lontano, al che
esclamai “ma che palle, sempre lì, tutte le fortune c’hanno
‘sti musi gialli”.
Mia madre
era molto compiaciuta di questo mio incredibile interesse per l’informazione,
naturalmente ignara dei motivi che mi spingevano a farlo, costringendomi tra
l’altro a sognarmi Chicco Mentana di notte, così mi chiese, nel
mentre di un TG2 spazio economia se non volessi fare il giornalista da
grande.
Pensai
che quello sarebbe potuto essere il mestiere ideale
per me, avrei potuto sapere in anteprima cosa accadeva nel mondo, e prima di
tutti gli altri avrei potuto fondarmi a consolare le vittime, a modo mio. Così
risposi di sì, e fino alla fine delle superiori andai
avanti con la convinzione che avrei fatto il giornalista, cosa che mi avrebbe
portato a iscrivermi alla facoltà di scienze della comunicazione.
Ora, a
scienze della comunicazione, mi pareva quasi aver realizzato il mio sogno. Non
tanto perché sentivo che sarei diventato un giornalista grazie ai miei studi,
quanto perché scienze della comunicazione è un figaio
assurdo, ci stanno 10 femmine per ogni studente maschio, roba che neanche i
tedeschi con gli italiani.
Infatti
per quanto riguarda il sogno di fare il giornalista, quello l’ho abbandonato da
un pezzo, anzi, è un mestiere che non mi piace più, mentre per l’altro, beh,
ancora mi barcameno.
In fondo
dovete anche capirmi, io alle superiori ho fatto il
tecnico industriale, in classe eravamo 24 maschi ed una sola femmina… e che
femmina! Annamaria, si chiamava. Credo che i genitori le avessero
messo due nomi femminili in uno per ribadire il concetto, qualora
qualcuno al cospetto di cotanta bruttezza si fosse trovato un po’ confuso. Era
(e a quanto i beninformati mi dicono, è) talmente
brutta che anche se passa a 200 all’ora sulla Colombo,
gli autovelox la foto non gliela scattano. Davvero oh, non sto esagerando, era
così brutta che la usavamo per farci passare il singhiozzo.
Oltre alla poca avvenenza era anche piuttosto antipatica. Questo aveva il suo vantaggio
però, infatti veniva invitata a tutte le feste di
compleanno dei compagni di classe, dato che una penitenza originale da far fare
al gioco “obbligo o verità” può essere sempre utile.
Una volta
il professore di italiano le disse se non fosse il
caso di andare al “Brutto anatroccolo”, una trasmissione tv abbastanza in voga
ai tempi. Era un format piuttosto semplice, prendevano
una persona a caso, la conciavano come il cesso di un ristorante messicano dopo
la serata “Free Chili” e facevano vedere che quello
era il “prima”. Poi, facendola pittare dai truccatori
di Platinette, pettinandola, lavandola e stirandola,
la presentavano notevolmente più decente di quanto visto a inizio trasmissione.
Un buon investimento tutto sommato, considerando che con
Annamaria dovevano anche risparmiarsi la parte del conciarla male. Mio
Dio, indossava degli abiti improponibili. Ricordo che una volta, dopo l’ennesimo
gilet marroncino su camicia nera le dissi “Brava Anna,
carino questo gilet, fai bene a metterlo, ché magari di colpo torna di moda e
tu, tac!, ti fai trovare pronta!”, ma lei non capì. Io, che sono curioso di
natura, inizia anche a interrogarmi sulla casualità o
meno dell’assonanza gilet-bidet.
Da par
suo lei tuttavia non seguì neanche il consiglio del professore naturalmente,
nonostante questi, a parte quest’uscita poco galante, fosse in realtà una grande persona, ed io, modestamente, ero il suo allievo
preferito. L’unico ad avere in italiano e storia, tra tutte le classi che lui
aveva avuto, 8 e 8.
Una cosa
sola mi rimproverava spesso però: di non saper scrivere buone conclusioni. E
questo fu un tarlo che mi rimase dentro per sempre, tanto ché,
sempre convinto che avrei fatto il giornalista, pensai che se un giorno mi
fosse capitato di dover scrivere qualcosa, avrei cercato di inventare un nuovo
stile, uno stile per il quale non servano le conclusioni alla narrazione, che
deve interrompersi così, di colpo, lasciando il lettore con la continua
frustrazione di un desiderio inappagato. Un po’ come accadeva con le mie
fantasie sessuali.