Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
Ricorda la storia  |       
Autore: zippo    11/12/2007    11 recensioni
Rebecca era solo una ragazza del liceo quando, ricevendo la visita di un bellissimo ragazzo, scopre di essere un angelo. Le sue radici, la sua storia e la sua stessa anima appartengono ad un altro mondo, ben diverso dal nostro, dove magia e creature mitologiche vivono indisturbate in armonia con i loro abitanti. Rebecca, sotto la protezione del suo maestro, dovrà essere iniziata all’arte della guerra e alla pratica della magia dato che in quello stesso pianeta così perfetto e tranquillo un altro angelo minaccia la sua distruzione. Una storia interessante basata sull’amore, sul coraggio e sul Bene.
Il primo capito della saga: IL BENE
"L'eroe non è colui che non cade mai ma colui che una volta caduto trova il coraggio di rialzarsi" Jim Morrison
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Cap. 1 - L’INCUBO -

Ombre.

Scuro.

La ragazza vedeva una luce in lontananza…ma era troppo distante. Faceva freddo e intorno a lei molti alberi oscillavano al vento. Doveva trovarsi in un bosco o in una di quelle riserve dove la vegetazione era l’unica fonte di vita. Con la testa, spaventata, guardava le sagome che si muovevano fra gli alberi. La luce si avvicinava. Ancora. Sempre più vicina. Come la luce si avvicinava a lei così anche le ombre sembravano riunirsi a cerchio e raggiungerla.

Ombre e luce.

Ormai erano un tutt’uno e la ragazza, non sapendo cosa fare, andò incontro alla luce, che rappresentava la salvezza da quelle tenebre, e non potè non intravedere, in quel bagliore, dei capelli biondi e due occhi azzurri…poi, tutto si fece confuso e solo la luce, ora, la invadeva.

Rebecca si svegliò di soprassalto, inarcando la schiena si sedette sul suo letto, la fronte sudata e il fiato corto. I capelli color cioccolato le ricadevano leggermente in avanti e il suo ciuffo, spostato verso destra, le copriva gran parte della visuale, sopra quegli occhi scuri che erano sbarrati per l’ansia e il terrore. Con un movimento scattoso diede un’occhiata alla sveglia sopra il suo comodino: le sei di mattina. Mezzora e si sarebbe alzata per andare a scuola.
Con calma, Rebecca, si ridistese sul letto e tirò il copriletto fin sotto il collo, come per proteggersi e sentire più caldo, dopotutto era ottobre e il gelo si faceva sempre più vicino. Sentì dei passi al piano di sotto, probabilmente era sua mamma che si era alzata e stava preparando la colazione. Rebecca alzò gli occhi al cielo e con uno sbuffo si alzò, si mise le ciabatte fucsia che erano ai bordi del letto e con un passo assonnato uscì dalla sua camera. Le luci in corridoio erano tutte spente, solo un bagliore la raggiungeva, e proveniva dalla cucina. Con fatica scese le scale in legno, percorse la sala buia ed entrò in cucina, dove sua madre, Marta, trafficava con due panini appena sfornati.

“Ciao, mamma”


La donna, sentendo la voce melodiosa di sua figlia si girò sorridente verso di lei e Rebecca si ritrovò a pensare che sua madre, nonostante i suoi quarant’anni, rimaneva comunque una donna stupenda: con quei capelli biondo scuro che ricadevano in boccoli e con quegli occhi verde-acqua che tanto sperava di aver ereditato.


“Ciao, Bec. Come mai già in piedi? Non è che ti senti male? Di solito ti vengo a chiamare io” disse Marta, allarmata con il suo sorriso splendente ancora stampato in viso. Rebecca alzò le spalle.


“Ho avuto un incubo e non sono più riuscita a dormire. Lo sai, vero, che quando sogni è come se stessi realmente vivendo quel momento e quel momento è stato particolarmente angoscioso” disse, percorrendo la cucina e andandosi a sedere su uno dei quattro sgabelli che circondavano il bancone. Il caffelatte era pronto e Marta le porse un toast, sedendosi vicina a lei.


“Immagino. Oggi a scuola hai qualche compito o interrogazione?” chiese sua madre, ricevendo un’occhiataccia dalla figlia che ora la guardava esterrefatta.


“Ma mamma! Come hai potuto dimenticartene?! Oggi vado in gita, te l’avevo detto la settimana scorsa, non te lo ricordi?”


“Ah! Me n’ero dimenticata. Scusa, Bec”


“Di niente”


“A questo punto sarebbe meglio che ti preparassi i panini per il pranzo al sacco”


“Non importa, mamma. Vai pure a lavorare, chiamerò papà”


“Ok, e dì anche al papà che oggi, probabilmente, tornerò a casa tardi”


“Come mai?”


“All’ospedale hanno bisogno di me e non posso negare il mio aiuto”


“Che bravo chirurgo…” disse Rebecca, ironica con degli occhi da finta ammirata.


“Sempre gentile tu, eh?”


Marta si alzò aggraziata dal bancone e baciò la figlia sulla fronte. Prese il cappotto appoggiato ad una sedia del grande tavolo da pranzo e con disinvoltura lo indossò.


“Io vado, tesoro. Chiama papà e buona gita”


“Ciao, mamma”


La donna le rivolse un ultimo sorriso prima di aprire la porta di casa e di uscire percorrendo il lungo vialetto di villa Burton. Rebecca rimase da sola a rigirarsi tra le mani il toast, pensierosa e irrequieta, aveva addosso ancora quella sensazione di disagio provata nel sogno. Per quanto terrore potessero aver suscitato le ombre e quel senso di vuoto, di oscuro, di freddo, non riusciva a togliersi dalla testa quegli azzurri, così diversi dai suoi, e per un momento ebbe paura.




***


“Papà! Papà, alzati!” Rebecca continuava a scrollare la figura di suo padre, che era comodamente arrotolato su un fianco. Dopo parecchi scossoni l’uomo aprì gli occhi e con un grande sbadiglio si girò verso la fonte della sua scocciatura.

“Che c’è, Bec? Hai visto un fantasma?”


“Papà, devi farmi i panini per la gita. La mamma si è dimenticata”


“Dov’è ora?”


“A lavoro. Ha detto di dirti che tornerà tardi…dai alzati!”


“Arrivo! Arrivo!”


Jonathan si alzò contro voglia, sovrastando in altezza la figlia. Jonathan era un uomo di quarantacinque anni, con un fisico perfetto (merito delle numerose corse mattutine), due occhi scuri e i capelli castani, con qualche presenza di ciocche bianche. Aveva un lavoro invidiabile, infatti era lo scrittore più ambito di tutta America, e faceva vivere meglio che poteva la sua bella famiglia.


“Coraggio, andiamo a prepararti lo zaino”


Scesero le scale in assoluto silenzio e solo quando furono in cucina, Rebecca, non si trattenne e parlò a suo padre in modo arrogante e provocatorio.


“Ma dimmi te! Mi tocca anche andare in gita in montagna…odio la montagna. E tutto perché siamo andati a vivere in uno stupido paesino di montagna. Spero solo che se cadrò in un pendio e mi romperò la gamba tu abbia i rimorsi, papà”


“Tesoro, lo so quanto adoravi vivere a Phoenix però non ci possiamo fare niente. Tua madre è stata entusiasta e lo eri anche tu di venire a vivere qua” la accusò suo padre, con un grugnito.


“Infatti. Lo ero. Ora non più”


“Perché, scusa?”


“Perché? Uhm…lasciami pensare…ah si! Allora, a Phoenix c’era il sole e il mare, avevamo una bella casa e abbiamo
lasciato anche tutti parenti, avevo delle amiche e mi ero affezionata. E qui? Solo montagne! È sempre nuvolo, il cielo è coperto, la scuola è vecchia e decadente e, soprattutto, sono sempre sola!” Rebecca si fermò per respirare, guardava suo padre in cagnesco e mai, mai, per quanto bene gli volesse, poteva perdonarlo per averle trascinate di punto in bianco in un posto dimenticato da Dio, con la scusa di dover scrivere un libro ambientalistico.


“Odio questo posto” ripetè, più a sé stessa che a Jonathan che la guardava apprensivo e con un moto di sofferenza.


“Mi dispiace. Appena finirò il libro ritorneremo a casa. Te lo prometto”


“Ma non mi importa di quando finirai il libro! È ora che io sto male, lo sai quanto detesto le escursioni e sono obbligata anche a farci una gita di tre giorni!”


“Bec, hai iniziato scuola solo da un mese, è normale che ti senti a disagio non conoscendo nessuno. Ma tu sei forte, e so che ce la farai. Tieni duro. E poi, cosa vuoi che succeda su là, tra i monti?”


“Uhm, magari un orso mi porta via”

“Ti verrò a riprendere”


“E se questo orso è armato?”


“Sono antiproiettile”


“Questo è quello che credi tu…”


“Dai, è quasi ora e ho finito di farti i panini” disse suo padre, mostrando fiero quattro panini incartati.


“Ne bastavano due, papà”


“Ah si?”


“Si, sono uno per la merenda dell’andata e uno per il ritorno. Poi, quando sono nell’ “accampamento” avrò da mangiare”


“Meglio essere previdenti, sai, se l’orso ti rapisce”


“Giusta osservazione”


“Suvvia, brunetta. Accendo la macchina, ti aspetto fuori. Muoviti a prepararti”


“Corro a cambiarmi!”


Rebecca prese con fretta i quattro panini e li ficcò alla bell’e meglio nello zaino della Napapijri marrone assieme al pigiama, occorrente per lavarsi, un paio di ciabatte, di calze, due cambi pesanti e tutto il kit medico datogli da Marta. Con uno sbuffo chiuse la zip e se lo caricò in spalla, mentre con la mano libera afferrava il sacco a pelo. Uscì dal garage e trovò ad aspettarla suo padre, con una sigaretta in bocca, e un sorriso di incoraggiamento. Corse fino alla macchina ed entrò imprecando.


“Spero proprio di essere assicurata per gli infortuni”




***



Alle otto di mattina la piccola Aguila si presentava ancora più terrificante, il sole tardava a sorgere e il vento continuava, insistente, a sbattere contro gli alberi, con ululati e tonfi. Se non era per il semplice fatto che era così per la posizione geografica, Rebecca, quel posto, l’avrebbe paragonato all’inferno, non era degno di appartenere alla bella e soleggiata Arizona. No, proprio no.
La loro bella villa (e unica villa) distava dalla scuola dieci minuti di macchina e in quei minuti Rebecca implorava ogni giorno il Signore affinché sprigionasse un cataclisma sulla scuola, almeno non sarebbe stata costretta ad andarci e avrebbe fatto in tempo a ritornare alla “High School” di Phoenix. Solo allora, sarebbe stata salva e finalmente a casa. Ma come ogni giorno, dalla macchina, girata la curva, le compariva la bella visuale della sua nuova scuola. Un sorriso schifato le riempiva il viso a quella vista. Suo padre, come ogni volta, parcheggiava la macchina nello stesso posto e subito spiccava come un faro a confronto delle altre macchine. Di sicuro, ad Aguila, nessuno aveva una Porsche. Smontò impacciata dall’auto, beccandosi molti sguardi ammirati.

“Non guardano me, guardano te e la macchina” disse Rebecca a suo padre prima di chiudere la portiera, dato che Jonathan era rimasto perplesso dalla moltitudine di facce che erano rivolte a fissarli.


“E io che credevo che fossero amici…”


“Te l’ho detto, papà” Rebecca, con uno spintone chiuse la portiera e si avvicinò al finestrino abbassato. “Io non ho amici”




***



Ecco, se c’era una cosa, una sola cosa che Rebecca non sopportava in quella scuola era l’appello. Nella sua scuola precedente gli alunni non venivano mai chiamati a inizio lezione, semmai chiedevano i nomi degli assenti e scrivevano quelli. Ma ad Aguila tutto era rimasto ai tempi della seconda guerra mondiale, e l’appello portava via ben sette minuti, minuti che intanto passava a ciondolarsi sul posto. Il ritrovo era stata fissato davanti la scuola, nel parchetto, e circa una quarantina di studenti stavano in piedi ad aspettare che venisse chiamato il loro nome, con gli zaini in spalla e le bocche tirate in continui sbadigli. Di certo il tempo non aiutava a sentirsi più svegli, ti metteva ancora più sonno.

“Rebecca Burton” disse a voce alta la professoressa di biologia, Millie Lorenz, donna deliziosa se non avesse avuto una voce talmente acuta da spaccare i timpani ogni qual volta dava fiato ai propri pensieri.


“Ci sono”


“Prego, salga in pulman e prenda posto”


Rebecca non se lo fece ripetere, afferrò saldamente il suo sacco a pelo e salì sul bus già occupato dai pochi studenti che per ordine alfabetico la precedevano e che erano perciò saliti per primi.

Due ragazze avevano preso i posti nella penultima fila a destra e un ragazzo si era invece accaparrato i posti infondo. Senza neanche pensarci Rebecca prese il primo posto a portata di mano: terza fila a sinistra.



***



Il viaggio in pulman era previsto con due ore di andata, la strada era continuamente susseguita da curve e Rebecca si ritenne fortunata di aver scelto uno dei posti davanti altrimenti la colazione della mattina si sarebbe fatta sentire come meglio poteva. L’unica rogna di quel viaggio in corriera era la presenza, alquanto indesiderata, della sua vicina di posto, Judi Marconi: ragazza svogliata, di origini italiane, dalla parlantina facile e con due occhiali rotondi che le facevano risultare ancor più ovale il suo viso paffuto. Judi non lo faceva apposta, ma da quando erano partiti fino al momento dell’arrivo non aveva smesso un attimo di parlare, parlava di lei, della sua famiglia, del suo cane, del suo gatto, del suo ragazzo (ma come faceva ad avere il ragazzo?) e di altre cose che a un certo punto Rebecca si era rifiutata psicologicamente di ascoltare, facendo cenni con la testa come a mostrarsi interessata di quei discorsi. Finalmente il motore si fermò. Rebecca, disorientata, spostò la testa verso il finestrino, il paesaggio era come se l’aspettava: si trovavano in uno spiazzo fangoso circondato da alberi e, dritto davanti a lei, c’era il sentiero che gli avrebbe portati al campo. La ragazza, decisasi finalmente a smontare, si trovava ancora a percorrere gli scalini dell’autobus quando non potè non notare, nell’altro pulman dietro al suo, un ragazzo che, in contemporanea a lei, stava scendendo con un’aria alquanto contrariata dal suo bus. Il fiato le morì in gola.



***
  
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni / Vai alla pagina dell'autore: zippo