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Autore: Elos    27/05/2013    9 recensioni
Nella primavera del 1997 Severus Piton non è riuscito ad impedire che si commettesse un terribile errore. Quattro anni più tardi, è giunto il momento di rimediare.
In un Mondo Magico dove Lord Voldemort è stato sconfitto, Harry Potter è il Ministro della Magia più giovane e potente che sia mai esistito e il Ministero festeggia l'epocale abolizione dello Statuto di Segretezza Internazionale, tutte le cose che sembrano non essere andate poi così bene sono sul punto di venire a galla.
C'è ancora una Profezia da compiere.
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Nuovo personaggio, Severus Piton, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Da VI libro alternativo
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- 11 - Nessun sa



La prima casa di Gabrielle era stata una roulotte dalle parti di Birmingham. Aveva smesso di parlarne alla gente perché aveva scoperto, una volta arrivata a Londra nella bella casa bianca dietro al St. James's Park, che tutti reagivano nel modo sbagliato: quando erano gli altri a parlarne, la roulotte di Gabrielle diventava una soluzione temporanea e spiacevole, anche se necessaria, allo stipendio incerto di Agnes, nulla di cui andare fieri, un posto brutto e triste che spiegava, se non altro, perché Gabrielle fosse diventata così.
Gabrielle ricordava la sua casa su ruote come un posto in cui era stata molto felice. Ricordava l'odore dell'erba tagliata nel campo accanto al parcheggio e quello più pungente della benzina quando un camper o un auto se ne andavano sgommando sull'asfalto, le libellule rosse sulla superficie oleosa del rigagnolo ai margini dell'area del parcheggio, il sole al mattino e le stelle, molte più di quelle che si sarebbero viste dalle finestre di una casa di Birmingham, pallide e nebbiose. La scuola di Gabrielle era stata alla distanza di una passeggiata a piedi, quindici minuti trascorsi tagliando attraverso i campi e gli steccati in direzione della periferia di Birmingham, e la tavola calda dove Agnes aveva fatto la cameriera era stata giusto dall'altra parte del parcheggio. Le roulotte non avrebbero potuto fermarsi per più di un paio di notti, era contro il regolamento, ma il proprietario del terreno era anche il datore di lavoro di Agnes, ed a lui non dispiaceva.
Agnes era sempre stata molto bella. Gabrielle, che aveva scoperto relativamente presto di essere invece destinata a diventare un elemento da tappezzeria, aveva capito che essere belli poteva essere o un colpo di fortuna od una fregatura. Poteva essere un colpo di fortuna: il proprietario del parcheggio chiudeva un occhio sulla roulotte abusiva di Agnes, i clienti le lasciavano sempre un sacco di mance e anche i poliziotti che avrebbero dovuto dire ad Agnes che non poteva restare per sempre in quel parcheggio facevano finta di non vedere. Ma poteva anche essere una fregatura: se Agnes non fosse stata bella, Terence non le avrebbe mai chiesto un appuntamento.
Non era la prima volta che Agnes usciva con qualcuno. Gabrielle non aveva paura a restare sola nella roulotte durante la notte: c'erano i cellulari per chiamare aiuto, in caso di emergenza, e la tavola calda restava aperta tutto il giorno, tutti i giorni. Se avesse avuto bisogno di aiuto, le sarebbe bastato strillare. La disturbava vedere Agnes con qualcun altro – ma tutti gli altri, tutti quelli che erano venuti prima di Terence, erano scomparsi da qualche parte tra il terzo e il quarto appuntamento per mai più ricomparire. Terence, invece, era rimasto.
Nei giorni in cui Gabrielle si sentiva giusta e misericordiosa, riusciva a riconoscere che Terence fosse tutto sommato una brava persona. Una persona buona. Una persona meno buona avrebbe continuato ad uscire con Agnes finché gli avesse fatto comodo e poi l'avrebbe piantata lì, sola, con un secondo bambino da crescere in una roulotte ai margini di una piccola stazione di servizio. Il padre di Gabrielle, dopotutto, aveva fatto precisamente questo; non aveva neanche aspettato che Agnes sfornasse Gabrielle, aveva semplicemente preso e se n'era andato. A Gabrielle non dispiaceva veramente: tutto sommato, lei ed Agnes erano state bene, insieme, prima di Terence.
Terence non aveva abbandonato Agnes; non aveva voluto neanche farsi da parte, darle dei soldi per crescere la bimba e chiuderla così, però. Certe volte Gabrielle pensava che sarebbe stata la cosa migliore. Lei ed Agnes se la sarebbero cavata benissimo senza di lui: Gabrielle aveva lasciato la scuola da qualche mese, aveva un lavoro e tutti i pomeriggi liberi, Agnes sarebbe stata con il neonato di mattina e lei sarebbe rimasta alla roulotte di pomeriggio e tutto sarebbe andato a posto.
Terence non aveva voluto neanche sentirne parlare.
Così, quando il pancione di Agnes aveva cominciato a farsi evidente, Terence ed Agnes erano già sposati da un paio di mesi, avevano una casa a Londra dalle parti del St. James's Park e contavano i giorni che mancavano all'arrivo del neonato. Gabrielle non aveva più il suo lavoro: in compenso era di nuovo a scuola, dove si sentiva ignorante, goffa e non voluta, sempre più tappezzeria e sempre meno utile.
Non c'erano più libellule rosse fuori da casa sua. Qualche volta si svegliava sentendo odore di benzina, ma dalla finestra non si vedeva nessuna stella: solo la luce ingiallita della Londra di notte.

Il bambino era nato in settembre e non era stato un bambino, ma una bambina, tre chili e due etti di piccole mani e dita minuscole e pochi capelli, con un odore stranissimo e denso di latte e pelle morbida e cacca.
L'avevano chiamata Lydia. Lydia Harris. Gli occhi dietro alla patina blu da neonato sarebbero stati blu, e i capelli sarebbero diventati tanti, e lei sarebbe stata la cosa migliore che Terence Harris avesse mai prodotto.
Gabrielle non era tanto felice a Londra, ma Lyddie... Lyddie, be', Lyddie.
Gabrielle voleva bene a Lyddie.

Dopo che i maghi erano venute a prenderle, dopo che la luce rossa e il mal di testa forte da spaccare il cranio avevano reso il mondo tutto buio per un po', Gabrielle si era svegliata senza sapere dove fosse Lydia.
Era stato un pensiero spaventoso.
Gabrielle sapeva sempre dove fosse Lydia: a casa, in soggiorno, al parco, all'asilo, con Terence, con Agnes, con i nonni, con me. Adesso non lo sapeva più. C'era un buco nero dove prima c'era stata Lydia, e nessuno voleva dirle dove fosse, e la casa dei MacLaggen dove l'avevano mandata in adozione era stata una parentesi orribile, con lo scantinato e il giorno della schiena rotta e tutte le volte in cui le avevano fatto realizzare quanto impotente e stupida e ignorante fosse e lei si era chiesta con terrore se Lydia fosse in un posto simile.
Non voleva. Non voleva, non voleva, non voleva. Voleva indietro la sua vita. Voleva indietro la roulotte con le libellule e l'odore di benzina. Voleva indietro Lyddie. Agnes e Terence erano scomparsi – morti, pensava, Agnes e Terence forse erano morti – e anche Lyddie era scomparsa.
Doveva essere ancora in Inghilterra. Lì, da qualche parte. Con i maghi. Se solo Gabrielle avesse saputo con chi, precisamente, e dove, avrebbe potuto andarsela a riprendere, rapirla, portarla via, e poi lasciare l'Inghilterra e passare in Europa, nascondersi. Sapeva che si poteva passare la Manica da clandestini: non sapeva bene come, ma sapeva che c'erano barconi che lasciavano l'Inghilterra tutti i giorni, con i non-maghi in fuga da Londra, dalla Gran Bretagna del Ministero della Magia e di Harry Potter e della repressione che era seguita ai Sette Giorni.
Se avesse saputo dov'era Lydia. Se avesse saputo dove cercarla.

E:
“Ci saranno dei documenti,” le aveva detto Piton un bel giorno, “fascicoli, schede. Non si può organizzare una redistribuzione di minorenni Babbani senza burocrazia, e la burocrazia lascia sempre tracce. Qualcuno avrà firmato le carte necessarie a trasferirla. Qualcuno saprà dov'è.”
Gabrielle aveva saputo anche allora che cosa il professore stava cercando di fare. Aveva capito, confusamente, che Piton pensava che lei potesse essergli utile, e Piton l'aveva tirata fuori dallo scantinato dei MacLaggen, l'aveva rimessa in piedi e le aveva dato da mangiare e non l'aveva lasciata agli Auror – e Gabrielle gli era grata, davvero, ma non si fidava di lui.
Il professore era una persona molto intelligente. Era sempre meglio non credere troppo nelle persone intelligenti.
Gabrielle sapeva che cos'era un'esca, come funzionava. Sapeva riconoscerne una quando se la vedeva penzolare davanti, ma Lyddie, Lyddie, Lyddie.
Erano passati quasi ventuno mesi dall'ultima volta che l'aveva vista.
“E chi ha firmato le carte?” aveva chiesto.
Piton l'aveva guardata.

***



“Posso rendermi utile?”
Gabrielle aveva i capelli così corti che le ciocche più lunghe le arrivavano a malapena a metà della fronte: ma il modo in cui teneva sempre la testa piegata su una spalla, anche ora che, girato il capo, stava fissando Hermione dritta in viso, lasciava pensare che li avesse portati più lunghi, una volta, e che fosse abituata a guardare le persone attraverso una frangia. Non era precisamente brutta, ma c'erano un po' troppi spigoli e sospetto, sulla sua faccia, per poterla trovare gradevole.
Era anche alta, scoprì Hermione muovendo qualche passo nella cucina per metterlesi accanto, alta come un ragazzo, lunga e ossuta com'era stato lungo ed ossuto Harry, tutta angoli e carne mancante e spalle strette. Non era mai stato come Ron, Harry, Ron che Molly aveva cresciuto a tre pasti abbondanti al giorno, molto sole, molta aria fresca e tanta sana attività fisica – ma pensare a Ron faceva male, adesso, quasi quanto faceva male pensare ad Harry. Era una qualità di dolore che aveva sapore di ruggine, di nostalgia tremenda.
Gabrielle spostò con un colpetto la teiera proprio nel mezzo del fornello e scosse la testa.
“Ho quasi finito,” replicò quietamente.
I fornelli erano Babbani; era Babbano il lavello ed era Babbana la lampada appesa al soffitto, erano Babbane le saliere e i rotoli di carta assorbente. C'erano pentole e padelle, nessun calderone in vista da nessuna parte, nessun camino, nessuna stufa. Hermione pensò a Piton, Piton che era sempre stato così accuratamente mago, con le sue vesti nere e i suoi capelli lunghi e il mantello e la bacchetta perpetuamente in movimento, Piton con le sue pozioni e la sua voce colta, e cercò di far combaciare quest'immagine con quella della cucina in formica bianca e alluminio: ma poi gli occhi le caddero sulle mani rovinate di Gabrielle, che stava cercando di tirar via la teiera dal fuoco aiutandosi con una presina lavorata all'uncinetto, Gabrielle che portava una felpa ed un paio di scarpe da ginnastica e alla quale non piacevano per niente le bacchette, e le due immagini parvero sovrapporsi serenamente, scivolando l'una sull'altra senza fare attrito.
Un gradino al di sotto dei Babbani, pensò Hermione, più Babbana di un Babbano vero.
Quando Gabrielle si mosse per avvicinarsi al tavolo, Hermione si spostò per metterlo tra sé e l'altra. Gabrielle le rivolse un'occhiata di sottecchi, perplessa e cauta, al principio: ma poi adocchiò il piano di legno ed i due passi abbondanti di pavimento che adesso la separavano da Hermione. La postura rigida delle sue spalle parve rilassarsi impercettibilmente.
“Il professore...?” chiese Gabrielle, il capo chino. Le foglie nella teiera erano nere come la cenere bagnata, l'odore del tè fragrante e aspro nella stanza chiusa.
Hermione si sedette. Seduta, si disse, seduta e con le mani posate sul tavolo, niente affatto minacciosa.
“Speravo che potessimo parlare un po', prima.”
Gabrielle le rivolse un'occhiata penetrante, ma non disse nulla.
“Il professore mi ha detto che ci sono cose che dovrei chiedere a te,” spiegò Hermione, la voce quieta. “Solo a te.”
Tutta la tensione parve tornare nella ragazza in un momento, le sue spalle una linea rigida quanto quella della sua bocca, gli occhi cauti e nervosi.
“Il professore le ha detto che devo risponderle?”
Hermione scosse la testa.
“Ha detto che avresti... che avresti risposto a quello a cui volevi rispondere,” rispose onestamente. “Ed io sono Hermione. Puoi chiamarmi... preferirei mi chiamassi Hermione,” aggiunse dopo un brevissimo istante, la voce ferma.
Sospetto e nervosismo scivolarono via dal viso della ragazza. Come Harry, pensò Hermione, e il pensiero fu una fitta tutta nuova ed inaspettata, sembrava che le si potesse leggere tutto in faccia, ogni cosa, ogni pensiero. Era sempre stato facile da leggere, Harry, facile da capire, aperto e onesto malgrado tutti i pensieri molti complicati che si era portato dentro, aperto e onesto e lineare, in un certo senso, molto lineare, prima che la guerra finisse. Sembrava che dopo fosse cambiato anche in questo. Forse erano state le morti, tutte quelle morti, le morti, la guerra e Voldemort. Forse era stato l'Horcrux.
“Hermione,” provò Gabrielle, cautamente.
Hermione le sorrise.
Gabrielle parve messa a disagio da quel sorriso, perché distolse lo sguardo, le mani strette l'una all'altra mentre si tirava piano le dita in un gesto di nervosismo malamente represso.
“Sei... tu sei andata ad Hogwarts?” chiese Gabrielle. E poi, come temesse che Hermione non potesse capire che cosa le era stato chiesto: “Alla scuola dove il professore insegnava. Hogwarts.”
“Certo, sono andata ad Hogwarts,” replicò Hermione, lentamente, cercando di nascondere la sorpresa. “Tutti i maghi e le streghe in Inghilterra ci vanno.”
“E il professore era... era il tuo professore?”
Hermione represse un brivido leggerlo: erano passati tanti anni, ma la memoria delle ore trascorse nello scantinato buio, umido e freddo, saturo dell'odore spesso sgradevole degli ingredienti, le foglie di faggio schiacciate dall'odore amaro, i Vermicoli fetidi, l'odore del sangue di ratto e di drago, i piccoli cuori viscidi dei pipistrelli, povere, povere bestiole, con il fuoco di fila continuo e feroce del sarcasmo di Piton a fare da accompagnamento al tutto, costituiva uno dei suoi ricordi meno preferiti in assoluto.
Si sforzò tuttavia di non far trapelare dalla sua voce neanche un'oncia dell'astio che quella particolare memoria le causava:
“Certamente.”
Gli occhi di Gabrielle tornarono improvvisamente su di lei, penetranti, acuti e svegli in una maniera che non sembrava combaciare del tutto con il nervosismo e l'agitazione e il panico vago e latente che pareva non abbandonarla mai.
“Ma tu sei figlia di persone... di Babbani,” azzardò Gabrielle. “Sei cresciuta con loro.”
“I miei genitori sono Babbani, sì.” E poi, quando Gabrielle si limitò a fissarla in silenzio per un lunghissimo istante, senza dar segno di voler domandare altro, Hermione azzardò: “Anche i tuoi lo sono?”
Gabrielle abbozzò una scrollata di spalle, abortita a metà e seguita da una lunga occhiata preoccupata rivolta alla porta. Quando fu chiaro, evidentemente, che la porta aveva tutte le intenzioni di restare chiusa e che nessuno si sarebbe affacciato da lì per rimproverarla, tornò a guardare Hermione e rispose – ma senza neanche l'ombra di una spalla scrollata:
“Credo.” Dovette leggere la curiosità evidente sul viso di Hermione, poi, perché aggiunse un po' a malincuore: “Mia madre è una... è Babbana. Non è come te o il professore. E' come me.”
“E tuo padre...?” tentò Hermione.
La scrollata di spalle che le arrivò in risposta fu pura e completa, stavolta, accompagnata da un broncio aggressivo; le labbra strette, le sopracciglia aggrottate, Gabrielle rivolse ad Hermione un'occhiata con la quale pareva sfidarla a dire qualcosa, qualunque cosa, sull'argomento. Hermione si guardò bene dal farlo.
Se ne stettero in silenzio per un po', dopo, fino a quando Gabrielle non finì di versare il tè nelle tazze e spinse il bricco del latte e la zuccheriera attraverso il tavolo. Hermione prese un piccolo sorso ed emise un garbato mormorio d'apprezzamento; sembrò essere stata la reazione giusta, perché le spalle di Gabrielle si piegarono ancora una volta.
“Volevi parlarmi,” disse lei alla fine, molto piano, gli occhi fissi sulla propria tazza. “Di che cosa?” “Del professor Piton,” rispose Hermione. “Di te. Di quello che sta succedendo.”
Gabrielle se ne stette zitta per un momento e, quando aprì nuovamente bocca, quel che disse non era nulla di quel che Hermione si era aspettata di poter sentire.
“Il professor Piton mi ha già detto che cosa sta succedendo.”
“Ti ha detto che cosa sta facendo?”
La ragazza scrollò le spalle.
“Ti ha detto della pozione?”
La ragazza annuì.
“Ti ha detto a che cosa serve,” mise in chiaro Hermione, inarrestabile. “Che cosa c'è dentro. Gli effetti collaterali che potrebbe avere.”
“Mi ha fatto leggere dei libri,” rispose Gabrielle dopo un attimo di silenzio. “Me li ha fatti leggere due volte. Mi ha spiegato le parole che non ho capito.”
Le dita di Hermione si serrarono attorno alla tazza, una sensazione di ira improvvisa ed amarissima a riempirle il petto.
“ E' una pozione che non è mai stata testata,” esclamò con durezza. “E' una pozione che non è mai stata neanche studiata, prima, neanche pensata. Potrebbe avere ogni genere di effetto collaterale imprevedibile, e il professore non aveva il diritto di somministrarla a qualcuno che non poteva sapere...”
La ragazza sbottò, aggressivamente:
“Non sono stupida!” E poi, perché Hermione si era fermata di botto e la stava fissando in silenzio, sorpresa, aggiunse con voce più quieta: “Non sono stupida.” Guardò Hermione, e c'era tutto un mondo di rancore ed irritazione e risentimento sulla sua faccia. “Non sono intelligente come il professore. Non sono intelligente quanto te. Io non l'ho neanche finita, la scuola. Ma non sono stupida.”
Hermione mormorò:
“Non intendevo questo.”
Gabrielle la fissò per un istante ancora, le labbra assottigliate, prima di annuire rigidamente e riabbassare lo sguardo sulla propria tazza.
“Il professore mi ha fatto leggere dei libri sugli ingredienti. Me li ha fatti provare prima di aggiungerli alla sua pozione, uno per uno. Mi ha detto a cosa serviva, che cosa ci avrei fatto, ed io gli ho detto di sì,” spiegò Gabrielle, pianamente. “Potevo dirgli di no.”
Hermione non dubitava che Piton le avesse detto che una risposta negativa era possibile. Che niente le sarebbe stato dato senza il suo consenso. Quello di cui dubitava era che Piton l'avesse veramente pensato, mentre lo diceva. Che Piton avrebbe... che Piton avrebbe accettato un no, che avrebbe messo da parte un piano, un progetto, un mezzo utile... Dopotutto, pensò Hermione, con un brivido, ad Harry il lusso di dire no non era stato concesso.
Gabrielle sembrò leggerle i dubbi in faccia. Aggrottò la fronte e si fece girare la tazza tra le dita, nervosamente.
“Che cosa vuoi sentirmi dire?” chiese, il tono più stanco che aggressivo. “Hai detto che volevi farmi delle domande, ma a che cosa serve, se le fai e poi e non mi credi?”
Hermione fece per protestare, ma la Babbana la interruppe prima che potesse dire qualcosa:
“Sapevo che cosa stavo bevendo, la prima volta che ho preso la pozione. Il professore mi aveva detto che ci sarebbero state delle conseguenze.” Alzò le mani rovinate, il dorso cicatrizzato rivolto verso Hermione. “Conseguenze,” ripeté, prima di dire ancora, con una punta d'ostinazione nella voce: “Non sono stupida.”
“Non ho detto questo,” replicò ancora Hermione, la voce piana. “Non lo penso. Ma ho bisogno di sapere per certo che sai a che cosa stai andando incontro. Harry era il mio migliore amico, lo sai?”
Gabrielle distolse lo sguardo, a disagio, prima d'annuire.
“Era il mio migliore amico,” ripeté Hermione. “E' stato usato per tutta la sua vita. Voldemort... Silente, Caramell... Scrimgeour...” Piton, pensò, ma non lo disse. “Ciascuno a modo suo. Lo usavano e lo tenevano all'oscuro, mai la verità, mai tutta la verità. Abbiamo dovuto impararla un po' alla volta, da soli, ogni volta che commettevamo un errore e che qualcuno ne pagava le conseguenze. Se qualcuno gli avesse detto la verità, all'inizio, tutta la verità, se ce l'avessero detta...” Si accorse di stare stringendo il manico della tazza con tanta forza che il palmo le doleva, ed allentò la presa. “Forse le cose sarebbero state diverse,” disse, la voce ridotta ad un bisbiglio.
Rimasero in silenzio per un lungo istante. Poi, la Babbana affermò:
“Io so che cosa il professore vuole da me.”
Le sopracciglia di Hermione schizzarono verso l'alto:
“Davvero?” E poi, poiché Gabrielle stava aggrottando la fronte, l'espressione nuovamente aggressiva, ostile, si affrettò a correggere la domanda: “E ti sta bene? E' quel che vuoi?”
La Babbana piegò il capo da una parte, gli occhi sfuggenti, e le sue spalle sembrarono crollare.
“Quello che voglio...” disse, raucamente, “... è che le cose tornino com'erano prima. Vorrei non aver mai sentito parlare di nessuno di voi. Se rimanevate dov'eravate, sarebbe stato meglio.”
Hermione non ebbe bisogno di chiederle chi fosse quel voi di cui stava parlando. Oh, Harry, Harry, pensò, e sentì la nausea assalirla. Tutte le cose che abbiamo sbagliato, ogni volta che non ti abbiamo fermato, perché non ti abbiamo fermato, perché nessuno ti ha fermato, quando ancora potevamo...?
“Ma il professore ha detto che mi aiuterà,” aggiunse la ragazza, una sfumatura di durezza e di caparbietà nel fondo della voce. “Io aiuterò lui, e lui aiuterà me. Le cose non possono tornare com'erano prima, ma se il professore mi aiuterà...”
“Aiutarti a fare cosa?”
Gabrielle esitò. Fissò Hermione in silenzio per un lungo istante, l'espressione combattuta, come fosse indecisa tra il parlare e il tacere. Alla fine, si alzò in piedi e recuperò le tazze vuote e la teiera ormai fredda, portandole al lavandino; aprendo l'acqua, diede le spalle ad Hermione.
“Sto cercando una bambina,” disse alla fine. “Una Babbana.”
Hermione rimase dov'era e non disse niente.
Gabrielle posò le tazze ad asciugare sulla grata e aggiunse, molto piano:
“Non voglio parlarne.”
Hermione esitò:
“E MacLaggen...”
Gabrielle si girò per guardarla.
“Non voglio parlarne,” ripeté. Il tono era quieto e freddo, liscio come una lastra di ghiaccio.
Hermione non insisté.

Più tardi, Hermione posò tra le mani di Piton il Mantello dell'Invisibilità.
“Questo,” gli disse, “è meglio che lo tenga lei.”
Piton si fece passare tra le dita ossute la stoffa argentata, impalpabile, con un'espressione indecifrabile sul viso. Rialzando gli occhi, inarcò un sopracciglio:
“E si fida a lasciarlo con me, signorina Granger?”
Hermione si trattenne a stento dallo sbuffare.
“Uno dei due deve pur fare un passo avanti e mostrare un po' di fiducia.” Il e, dato che lei non sembra disponibile... filtrò non detto. “E poi,” aggiunse, “tenerlo è diventato troppo pericoloso. Harry potrebbe decidere da un giorno all'altro di volerlo indietro.”
“E se le dovesse chiedere dov'è?”
“Mi preoccuperò di fasciare quella particolare testa rotta solo se sarà necessario,” replicò Hermione, sistemandosi la borsa sulle spalle. Sembrava stranamente più leggera, ora che non conteneva il Mantello... ma era solo un'impressione, ovviamente, il Mantello era leggero come l'acqua, come un velo. Tessuto con la stessa materia della quale erano tessuti i sogni.
Piton parve esitare con il Mantello tra le mani per un attimo ancora: poi, cominciò lentamente a ripiegarlo.
“Lo terrò al sicuro.”
“Lo usi,” gli disse Hermione, piano, ma mentre lo diceva guardava Gabrielle, “le servirà.”
“E lei mi riferirà quel che scoprirà.”
Hermione annuì.
Piton mosse un passo indietro. Gabrielle, alle sue spalle, si mosse lievemente, a disagio.
“Mi farò sentire presto,” promise Hermione.
“Si faccia sentire quando avrà qualcosa di utile da dire,” replicò Piton, seccamente.
La Smaterializzazione portò Hermione da qualche parte nei pressi di Portsmouth: la fitta di debolezza improvvisa, nauseante, le disse che il balzo era stato più lungo di quanto avesse pensato. Saltò ancora, a Reading, a Brighton, nel Derby. Ricordava di essere stata da quelle parti, molti anni prima, per una piccola vacanza con i suoi genitori: si Smaterializzò da un villaggio all'altro finché le gambe la sorressero, prima di puntare nuovamente verso Londra.
La casa in West Harrow era buia e immobile, al suo arrivo: Hermione aprì la porta e Grattastinchi le si strusciò contro gli stinchi, uscendo, facendola sobbalzare. Accese le luci, controllò gli angoli bui; un paio di incantesimi le assicurarono di essere sola in casa. Sola. Silenzio. La nostalgia le prese la gola come un groppo, come una morsa, inaspettata. Se chiudeva gli occhi poteva vedere la Sala Grande, la sera, piena e rumorosa e caotica, il fuoco nel camino e il divano che puzzava di gatto e di gufo, le poltrone e gli altri, tutti gli altri, quelli che ora erano morti, quelli che erano ancora vivi. Quella del tramonto era sempre l'ora peggiore, si disse, e si chiese se non fosse il caso di uscire fuori a cena. La signora della tavola calda all'angolo era chiacchierona e gioviale, e faceva volentieri quattro chiacchiere con i clienti; sarebbe stato meglio che stare chiusa in casa a guardare pareti vuote, dove non aveva appeso fotografie per non dover vedere, e ricordare, e pensare.
Alla fine, però, mise sul fuoco una padellata di spaghetti precotti. Mentre l'acqua bolliva nella teiera ed un buon odore d'aglio e pomodoro riempiva la cucina, Grattastinchi venne ad acciambellarlesi sulle ginocchia.
Hermione prese il telefono e compose un numero a memoria. Si chiese se qualcuno le avrebbe risposto, stavolta: se qualcuno si sarebbe ricordato che si doveva sollevare la cornetta senza premere i bottoni, se qualcuno avrebbe riconosciuto gli squilli per quel che erano. Se qualcuno dei ragazzi fosse stato in casa, forse. Se...
Al quarto squillo, clic.
“Sì?” disse qualcuno dall'altra parte della linea. Lo disse a voce un po' troppo alta: erano passati tanti anni, ma non aveva mai imparato che non serviva urlare per farsi sentire attraverso i fili. Ad Hermione sembrò che qualcuno le avesse improvvisamente tolto una pietra dalla gola. Sorrise.
“Ciao, Ron.”





Note della storia: Prima di tutto, il titolo. Il titolo è una citazione dalla ballata The Twa Corbies, la crudele variante scozzese della canzone The Three Ravens. In sunto: and naebody knes that he lies there, e i corvi finiscono per cenare con il cadavere del cavaliere morto, dato che nessuno lo sta cercando.

Ho una notizia buona ed una cattiva. La notizia buona è che il capitolo successivo è già stato scritto per un bel pezzo. La notizia cattiva è che, prima di poterlo pubblicare, dovrò finire di scrivere almeno i due capitoli che seguono, per decidere se rimuovere una scena che ho in mente o tenerla.
La questione è questa: il passaggio che segue spande un orribil fetore, per chi volesse cogliere la citazione, di personaggio simpaticamente marysuesco ed allegramente PP. Da una parte, ci sono dozzine di scene simili in Harry Potter; dall'altra, scene simili con un Nuovo Personaggio ci riportano sempre alla questione della fetenza di cui sopra.
Quando ho cominciato a scrivere questa storia, tuttavia, avevo solo tre scene ben delineate in mente - e quella che segue, con le dovute modifiche del caso, è una di queste. Che fare, perciò? Scrivere o non scrivere? Nel dubbio, ho deciso che butterò giù tutti e tre i capitoli, me li rileggerò a mente serena, li farò rileggere al prode dierrevi, che non teme le Mary Sue ed è pronto ad abbatterle a colpi di sgualembro rovescio, e vedrò se la cosa mi pare accettabile oppure no.

Un grosso grazie, nuovamente, a tutti voi che non avete ancora abbandonato questa storia. Con un po' di fortuna, arriveremo a vederne la fine prima della prossima Apocalisse.
  
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