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Autore: milva90    27/05/2013    0 recensioni
1944. Leonardo Federici è stato nascosto assieme a sua sorella in una vecchia villetta nelle montagne reggiane, per proteggerli dalle leggi razziali e dalle violenze fasciste. Un giorno, viene introdotto in casa un ragazzo dell'età di Leonardo, Amos Merlighi, figlio di amici di famiglia. Inizialmente, il ragazzo si mostra schivo e taciturno, ma presto si avvicinerà al coetaneo, attratto dalla sua cultura letteraria e musicale. I ragazzi si immergeranno nel teatro e nella letteratura, trasformandosi negli eroi di cui hanno letto per tutta una vita, fino ad innamorarsi l'uno dell'altro. La realtà attorno a loro, però, non tarda a farsi viva. I fugaci contatti con i partigiani faranno scoprire ad Amos la libidine della violenza, del sangue, della vendetta, fino a creare un alter ego sconosciuto a Leonardo, che si diverte a vedere massacri e torture sui fascisti, anche se completamente disinteressato alla rivoluzione intellettuale e culturale. Questa doppia vita-personalità porta i due ragazzi ad una scoperta nel proprio subconscio, a riflettere sull'egoismo e il male innati nell'essere umano (Homo Homini Lupus), fino a quando Amos decide di mollare l'amore per seguire i partigiani e il suo desiderio di violenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PRIMO

Guardo il paese nuovo dalla finestra di casa mia, e m'intristisco immensamente nel farlo. La noia mi è diventata amica da molto tempo ormai, e non posso credere di riuscire persino ad amarla in certe situazioni. Mi permette di rimanere neutrale. Se avessi un comportamento più irrequieto, vivace, speranzoso, sarei finito morto e sepolto ormai da molto tempo. Il fumo della sigaretta entra nella mia bocca così dolcemente, come profumo di primavera nelle narici il 21 di aprile.
Abbasso lo sguardo. Le fleurs du mal. Sono bloccato sulla stessa pagina da almeno tre ore. Le pagine sono ingiallite e velate, tanto che se stringessi solo un poco di più creperebbero fra le mie mani. Una delle poche cose che mi ha lasciato mio padre. Ricordo a malapena la sua voce. E mia madre. Sono rinchiuso in questa casa stramaledetta in mezzo alle montagne emiliane, dimenticato dagli uomini e persino da Dio: per proteggermi dicono. Proteggermi da cosa? Dalla morte? Dai fascisti? Da una pallottola piantata in testa? Perché la morte è vista come un mostro da cui scappare? Personalmente, se uno di quegli inutili fascisti, o persino un pulcioso partigiano, venisse da me con l’intento di uccidermi all’istante, gli offrirei un bicchiere di latte prima di avviarmi verso la fine. E con un sorriso sulle labbra.
Sento i passi di mia sorella al piano di sotto. Il suo ottimismo mi stomaca. Quello stupido sorriso sempre piazzato sul volto, in questo posto di merda, circondati da pecorai ignoranti. Sento un conato di vomito alzarsi lungo tutto il corpo. Alzo la testa e respiro profondamente. Poi guardo di nuovo fuori. Il viale è completamente deserto. Non un’anima. Mi porto la sigaretta alle labbra e aspiro profondamente.
Anno 1944. Il mondo si autodistrugge sotto i miei piedi, l’odore (o il puzzo) di rivoluzione ristagna nell’aria nebbiosa, l’uomo cambia: ed io non sento altro che silenzio. Mi viene in mente uno di quelle storielle del terrore che mi raccontavano i genitori quando altro non ero che un’enfant, e di come io rimanevo affascinato dalla narrazione, dall’atmosfera cupa, i personaggi stessi che, invece di impaurirmi, mi sembravano gli unici amici che potessi avere.
Sento il canto sommesso di mia sorella. Una voce metallica, stonata.
Decido di riprendere la lettura. Raccolgo il libro dalla scrivania, e mi sposto verso il letto. Rileggo la stessa frase almeno una decina di volte, le parole non hanno assolutamente nessuna presa su di me, ma faccio uno sforzo.
Noia.
E poi tre rintocchi alla porta mi fanno tornare vivo.

SECONDO

Non capita spesso che qualcuno bussi alla nostra porta. Non dovrebbe capitare mai in realtà, poiché questa lurida casa in cui mi sono ritrovato catapultato in un batter d’occhi, altro non è che un nascondiglio. I genitori non volevano che i loro pensieri politici e sociali mettessero in pericolo la sicurezza dei loro adorati figlioli, ed eccomi qui. Esco dalla mia stanza e scendo le scale verso l’altrio, mentre mia sorella sta guardando il pavimento con la mano appoggiata alla maniglia della porta.
“Deve essere lui” dice senza nemmeno guardarmi negli occhi.
“Lui chi?”.
Nessuna risposta. Pochi secondi che scorrono in silenzio. Poi apre, prende per la collottola una figura e lo spinge dentro casa, richiudendo velocemente l’uscio dietro di se. Mia sorella si volta verso il nuovo arrivato.
“Mi scuserai l’irruenza, ma è molto rischioso farsi vedere fuori di casa per me e mio fratello.”
“Non c’è problema” sospira lui, come soffocando le lacrime. Sta guardando l’interno della casa, dando le spalle a me e Lucia.
“Ti mostro subito la tua camera". Se vuoi lasciare le valigie qui, mio fratello s'incaricherà di fartele avere al più presto. Sarai stanco.”
Fisso corrucciato mia sorella, aprendo le braccia come per farle capire che non voglio assolutamente entrare in questioni che non mi riguardano.
“Non ti preoccupare. Faccio da me.” E si avviano al piano di sopra in silenzio, mentre il volto del ragazzo si sposta lentamente da un capo all’altro della casa, osservando ogni minimo particolare, fino a quando non spariscono nel corridoio.
Rimango bloccato nell’ingresso. Odio il nuovo arrivato. È un arrogante, maleducato. E non so niente di lui.
 
TERZO
Sento il brodo risucchiato con foga dalla bocca di Lucia. Il pane vecchio e stantio che a malapena si scioglie sul mio palato. Due persone sedute a tavola che non si parlano, né si guardano. Il posto riservato al nuovo arrivato è vuoto, mentre la fumana del piatto di cappelletti ancora caldi si alza come da un posacenere, alleggiando per pochi istanti e dissolversi, per poi ricomparire immediatamente da dov’era nata, come una fenice. Non ho fatto altro che pensare al ragazzo tutto il giorno. Non un rumore, uno scricchiolio di letto, un cigolio. Niente. Ero rimasto pochi minuti con l’orecchio appoggiato all’uscio, senza farmi sentire. Mi venne il dubbio che non stesse nemmeno respirando. Non so perché lo feci, ma quando decisi di staccarmi dalla porta, sentì come un’enorme malinconia dentro di me: pensavo che, proprio nel momento in cui avevo staccato l’orecchio, avrei potuto sentire un minimo di esistenza in quella camera, di vita. E così feci per tre o quattro volte, fino a quando il richiamo di mia sorella per la cena mi fece sussultare, per paura di non essere trovare in quella posizione così ambigua. Quindi scattai lungo il corridoio, inciampando contro un comodino, e correre al piano inferiore. Chissà se mi avrà sentito.
Di nuovo quell’orrendo rumore di brodo risucchiato. Guardo mia sorella, e decido di farla finita con questa fiera del muto.
“Non cena con noi?” chiedo passandomi le mani fra i capelli scuri.
“No. Non ho voluto disturbarlo. Avrà avuto una giornata nera. Quando la fame si farà sentire, vedrai che scenderà.”.
“Mi vuoi dire chi diavolo è?”. Aveva continuato tutto il tempo a guardare con sguardo assente il piatto che si svuotava lentamente, ma l’arroganza con cui avevo pronunciato la domanda le fece alzare gli occhi. Erano stanchi. Tristi. Annoiati.
“Figlio di amici di mamma e papà. I suoi genitori sono ebrei. Hanno voluto salvare l’unico loro figlio, o almeno…provarci.”
“Esistono altri genitori al mondo capaci di rinchiudere un figlio in questo posto?”
Rimane un altro poco in silenzio, guardandomi infastidita. Poi continua a mangiare con lo sguardo basso.
Mi accendo una sigaretta.
“Come si chiama?”
“Amos. Amos Merighi” dice lei senza entusiasmo.
“Quanti anni ha?”
“La tua età.”
“Perché non sono stato avvisato di niente?”
“Ti sarebbe interessata come cosa?” urla lei esasperata.
Aspiro dalla sigaretta. No, effettivamente no.
La noia mi prende di colpo, mentre uccido la piccola brace della sigaretta sul piatto.
Non m'interessa niente del ragazzo, della sua famiglia, e del suo malessere piagnucolante. Vaffanculo. Avevo poco altro a cui pensare, ma la noia mi era sempre amica, e al suo fianco, mi sentivo sicuro, protetto, amato.
 
QUARTO
Amos Merighi non si era visto per tre giorni. Mia sorella continuava a fargli trovare il piatto caldo sulla tavola, le posate al loro posto e la sedia leggermente spostata, per poi sistemare nuovamente tutto: solo alla mattina ci si accorgeva che il piatto della sera prima era diventato vuoto, ma nessuno aveva visto il ragazzo, né sentito, da tre giorni.
Sto come al solito guardando il paesaggio dalla finestra. Dai comignoli delle poche case vicine esce una cortina spessa di fumo nero come il carbone, mentre le finestre sono accuratamente sbarrate. Persino io dovrei accertarmi di chiudere tutte le serrande di camera mia, ma spesso me ne infischiavo.
Porto lo sguardo verso l’angolo vicino alla porta: un violoncello vecchio e polveroso mi guarda con aria malinconica, implorandomi di suonarlo da ormai troppo tempo. Mi avvicino a lui, e accarezzo le corde, come con un gatto: soffio forte, mentre una nuvola di polvere si alza, per poi, in buona parte, ritornare sullo strumento.
“Perché non mi suoni più?” mi sembra di percepire, come un sussurro, all’interno della camera. Guardo di nuovo lo strumento con amore, sentimento che da troppo tempo non vive più nei lineamenti del mio volto.
Raccolgo l’archetto sudicio da terra, mentre liscio i crini fra pollice e indice. Avvicino uno sgabello, mi siedo, appoggio il puntale a terra e porto il manico dello strumento a pochi centimetri dalla mia faccia. Lo annuso. Mi piaceva quell’odore da piccolo. Odore di legno, odore di tempo passato, vissuto. Odore di natura. Odore di altro all’infuori di me. Un bel respiro.
Con gli occhi chiusi comincio a suonare. Le note che scorrono melliflue sotto le mie dita me le potrei ricordare anche fra cento anni. Le dita pressano forte sulle corde, come quattro amanti che litigano per lo stesso uomo: prima parlano gaiamente, mentre in certi momenti è come un tremore, una scossa, una lite, e allora è un gran primeggiare l’una sull’altra, e dalla tragedia che sta incombendo è come se ne nascesse una danza, silenziosa, perfetta. L’archetto viaggia da sinistra a destra lentamente, con un’eleganza incredibile, affascinante e ammaliante. Come in una strada di montagna: scende e sale, senza mai un movimento brusco, quasi come facendo l’amore con il cielo, volare, sognare.
E dentro di me sento le nuvole trafitte dallo slancio del mio essere. Ancora più su, come per toccare il Dio, guardarlo sprezzante per poi salire ancora più su, fino a che le mie mani diventano lo strumento stesso, e si raggiunge l’unico vero orgasmo intellettuale, sentimentale e universale. Apro gli occhi.
Amos Merlighi è seduto per terra ad un metro da me. Mi guarda con aria estasiata, come se stesse per spirare da un momento all’altro. Lascio cadere in fretta l’arco per terra, mentre uso il violoncello come scudo, per proteggermi da quello sguardo che per tanto tempo non ho neppure sfiorato.
I suoi occhi blu osservano la scena come se dovessero dipingerne un ritratto, come per scattare un’istantanea col solo ricordo della vista. Le mani affusolate e bianche come il latte sono unite come in preghiera, appoggiate sulle gambe accavallate. La bocca è liscia, rossa, leggermente piegata in quello che è uno dei sorrisi più sinceri del mondo, mentre un ciuffo di capelli dorati viene spostato dietro le orecchie per non oscurare nemmeno un particolare della mia persona.
“Sei bravissimo.” Mi dice lui con una voce calda, accogliente, la voce della casa.
Rimango stupito in realtà. Per giorni mi ero arrovellato il cervello su quale fosse l’intonazione della voce del misterioso ragazzo, se avesse cicatrici sulla faccia, sulle mani, segni di riconoscimento. Ed ora era qui, davanti a me, un normalissimo ragazzo che non si riconoscerebbe fra mille.
“Grazie” rispondo io imbarazzato, appoggiando sbrigativamente il violoncello per terra e accendendomi una sigaretta. Gliene offro una in silenzio. Rifiuta con un delicato cenno della testa.
“Cos’era?” mi chiede con aria sognante.
“Bach.”
“Bach. Che cosa?”
“Suite per violoncello. Il preludio.”
“Preludio. Che nome affascinante non credi?”
“Non saprei.”
“Come ti chiami?”
“Leonardo.”
“Io sono Amos. Amos Merlighi” mi dice lui allungandomi la mano. La prendo con noncuranza, mentre la sua stretta è forte, vigorosa, entusiasta.
Rimaniamo per un po’ in silenzio. Forse si aspetta che dica qualcosa, ma continuo ad aspirare dalla sigaretta nervosamente, e non ho niente da dirgli o chiedergli in tutta onestà.
“Ti prego” dice all’improvviso “suonami qualcos’altro.”
“Non mi va. E anche volendo non potrei”
“E perché?”
“Perché conosco solo questo brano.”
“E come mai?”
Mi cominciano ad infastidire tutte le sue domande assillanti. Ma decido di stare al suo gioco.
“Mio padre mi ha insegnato solo questo. Fin da piccolo. Non ha più avuto tempo di insegnarmi altro, nemmeno di leggere la musica.”
Mi aspetto un’altra domanda, sul motivo della mancanza di tempo per un figlio da parte del padre, sul perché proprio quel brano, su come si possa insegnare la musica senza imparare prima a leggerla. Ma no.
“Suonami ancora questo Bach.”. Mi guarda divertito, realmente interessato a sentire di nuovo la mia esecuzione privata.
“Preludio. Suite per violoncello” ripete tra sé, come per immagazzinare questa nuova informazione.
Raccoglie l’archetto che avevo lasciato cadere, liscia i crini sul bordo della giacca verde che ha addosso e me lo porge guardandomi.
Mi sento come se avessi tradito il mio migliore amico. La noia. Quella presenza fissa che ero abituato ad avere a fianco tutti i giorni in un’istante è scomparsa, lasciando posto ad un ragazzo seduto ai miei piedi.
Prendo l’arco, un bel respiro e comincio a suonare, nascondendomi dietro il manico, mentre un debole sorriso si faceva largo sul mio viso.
 
QUINTO
Quell’incontro musicale ebbe un effetto incredibile con il nuovo arrivato, un avvicinamento intellettuale, sentimentale, a tratti fraterno, che mai avrei creduto potesse avvenire con una persona.
Scoprii che si dilettava a scrivere poesie, frammenti di pensieri: prendeva in mano una penna e, anche nel ben mezzo di una conversazione, si interrompeva all’istante, prendeva la prima cosa su cui si potesse scrivere e gettava attraverso l’inchiostro i suoi pensieri indelebili. Dopodichè, mi chiedeva di potermeli leggere, e apprezzava il fatto che io concentrassi tutta la mia attenzione sulle parole che uscivano dalla sua bocca, con un suono fatato, magnetico, degno di quelle personalità carismatiche che ero abituato a leggere nei romanzi della mia giovinezza e di cui per tanto tempo ero rimasto innamorato, ma nello stesso invidioso della loro arte retorica, quando se mi capitava di osservarmi al di fuori della mia persona mentre ero intento a portare avanti un discorso, mi odiavo, e mi reputavo imbarazzante.
Mi sdraiavo sulla poltrona vicino alla finestra, accendendomi una sigaretta, mentre lui sfilava il lenzuolo bianco del mio letto, se lo avvolgeva attorno alle spalle a mo’ di tunica, cominciando a proclamare ogni parola con solennità, come se fossero appena state scritte dal Petrarca in persona.
Perlopiù i suoi scritti vertevano su temi spesso simili: morte, vendetta, rabbia, tutti tratti tipicamente adolescenziali. Ogni sua riflessione era marcata da un pessimismo incredibile, ma si poteva scorgere proprio in questo sentimento un desiderio di rivalsa sul genere umano: ascoltando le sue parole, ero spinto dall’irrefrenabile voglia di prendere un fucile in mano e combattere per una fra le tante giuste cause decantate da Amos. Non era importante sapere esattamente quale: l’importante era il mezzo, che mi appariva sempre più affascinante e accattivante rispetto allo scopo in sé.
Parlavamo inoltre di musica, ed eravamo tutti e due d’accordo sul fatto che i compositori tedeschi fossero assolutamente incomparabili a tutti i restanti europei, in particolar modo di quelli italiani. Mi chiedeva spesso come mai io, capace di strappare da uno strumento una melodia così meravigliosa, non fossi mai stato capace di imparare altri classici della musica, e neanche mi fossi mai interessato a questo. Ad ogni sua parola, sentivo la mia statura fisica e spirituale abbassarsi di un millimetro, fino a sentirmi minuscolo, vuoto, impotente, come una formica che alza lo sguardo verso la pianta del piede di un uomo che sta per schiacciarla. Eppure lui non aveva assolutamente nessun comportamento che denotasse una parvenza di superiorità. Era la persona più umile che avessi mai conosciuto. La sua eterna curiosità nei riguardi delle cose e del loro ordine si era impossessata del mio amore e della mia ammirazione: era un bambino alla scoperta del mondo, che non si vergognava a domandare cento, mille volte il perché di una determinata cosa, e io il padre desideroso di spiegare al figlio i misteri della vita.
Una sera stavamo leggendo ognuno per conto suo, e di tanto in tanto chiamavamo l’altro per informarlo su un tratto interessante del libro che avevamo fra le mani, quando mia sorella ci chiamò per la cena. Scendemmo le scale, ci mettemmo a tavola e cominciammo a mangiare.
Da una settimana Amos si era deciso a stare con noi anche durante i pasti, inserendosi immediatamente nei discorsi, e anzi rendendo questo momento che tanto avevo odiato persino dal suo arrivo ma che adesso invece mi era gradevole. Era strano pensare come una persona che a prima vista potesse sembrare schiva, arrogante e odiosa in realtà fosse l’esatto opposto, ma né io né mia sorella gliel’avevamo fatto notare, tanto eravamo felici di questo cambiamento.
Io e lui continuavamo la nostra conversazione su Goethe, il mio drammaturgo preferito, mentre mia sorella se ne rimaneva in silenzio. Poi uno scoppio in lontananza. Una bomba. Doveva essere a più di dieci chilometri da qui, ma tutti e tre ci guardammo tremanti, con gli occhi sbarrati.
“Non la smettono neanche di notte quei maledetti.” disse mia sorella guardandomi.
“E’ la prima che sento da quando sono qui”. Amos aveva una goccia di sudore che gli stava colando dalla tempia, lentamente ma inesorabilmente, facendosi spazio fra le pieghe del viso.
“Dove stavi tu non bombardavano?” chiesi.
“Si. In continuazione. E’ proprio per questo che mi sono stupito. Quando sono venuto qui non riuscivo a prendere sonno la notte: in qualche modo i bombardamenti erano diventati la normalità per me, e mi sentivo a casa.”
“Beh, è molto meglio così non trovi?”
“Certo, certo.” Abbassò lo sguardo, prendendo il fiasco di vino e versandosene il bicchiere.
Mia sorella rigirava il coltello fra le mani, nervosa, fino a che non parlò.
“Non hai notizie dei tuoi genitori?”
Lui fece un sorriso. Era forzato, terribilmente falso, ma pensai lo usasse come scudo.
“No. Non ne avevo neanche quando abitavano con me se è per questo.” e fece un risolino acuto. Mia sorella si sforzò di ridere, e così feci io.
“I nostri genitori dicono che entro l’anno sarà finito tutto” disse lei.
“Lo dicono da cinque anni. Ogni anno” la liquidai.
Di nuovo silenzio.
Quel bombardamento lontano, arrivato a noi come un rumore ovattato, come quando si chiudono le orecchie in alta montagna, aveva tolto dalla tavola ogni conversazione felice, giocosa e astrusa. Le parole faticavano ad uscire dalla bocca, il cervello a creare argomenti su cui concentrare la nostra attenzione, distogliendola da quello che avevamo sentito.
“Che giorno è oggi?” chiesi io infine.
“Venerdì” risposero all’unisono. Pensai pochi secondi.
“Stasera fanno una festa. Al vecchio fienile. Ricordo che la figlia del macellaio, quando eravamo venuti qui da poco, me lo ripeteva sempre. La fanno ogni primo venerdì del mese.”
Ci guardammo con gli occhi stretti tutti insieme. Mi accesi una sigaretta. La passai ad Amos. Lui guardò mia sorella, porgendogliela dopo averne aspirato un poco.
Lei guardò il ragazzo. Poi la sigaretta. Poi il bicchiere vuoto che aveva davanti. Lo riempì di vino, lo bevve tutto d’un fiato, prese la sigaretta e tirò fino ad averne pieni i polmoni. Sbuffò il fumo addosso a me, sorridendo. Io le sorrisi di rimando.
“Al diavolo. Dobbiamo pur prendere un po’ d’aria. E finalmente usciremo da questa casa. Vado a cambiarmi.” e si diresse a passo svelto verso camera sua con la sigaretta fra le dita.
Io e Amos ci guardammo. E scoppiammo a ridere assieme.
 
SESTO
Sento dopo tanto, troppo tempo l’aria primaverile accarezzarmi il viso, ispida e frizzante. Chiudiamo la porta di casa nostra alle spalle, e ci dirigiamo di soppiatto verso il vecchio fienile, a poche centinaia di metri. I minuscoli rumori di rami spezzati sotto i nostri piedi, sassolini ghiaiosi che cozzano fra di loro, lo strusciare dei nostri pantaloni e il nostro respiro ci sembrano echeggiare nell’aria circostante, e non ci stupiremmo se all’improvviso tutte le serrande si aprissero e la gente ci guardasse con sospetto. Ma non è così. L’adrenalina che ci scorre in corpo fa muovere i nostri passi sempre più frettolosamente, tenendoci per mano nell’oscurità del paese. Corriamo, e so che i nostri sono sorrisi derivati dalla paura di essere scoperti. Se i genitori ci vedessero in questo preciso istante sarebbe la fine. Amos ogni tanto si appoggia a me, mi tira degli scappellotti in testa, mi fa lo sgambetto, quasi come per giocare. E io sorrido, e so che anche lui sta mostrando lo splendido sorriso che mi ha mostrato più volte, divertito dal mio incespicare goffo.
“Eccoci. Lasciate parlare me.” Ci avvisa mia sorella.
Io e Amos ci ripariamo dietro di lei, vicini. Lucia bussa per tre volte alla porta. Nessun rumore. Mi aspettavo musica, luce e risate. Ma niente. Di nuovo bussa tre volte. Niente. Tenta un’ultima volta. Sentiamo un movimento all’interno, lungo ma soffocato, come un serpente. Una mano si appoggia dall’altro capo del portone con timore, lo sento, e insieme un respiro corto e affannato. Silenzio per pochi secondi.
“Chi siete?” ci chiede una voce maschile con veemenza e sicurezza, non nascondendo però un lieve tremore.
“Siamo i Federici. Lucia e Leonardo” sussurra mia sorella.
“Non conosco nessuno di voi due. Andatevene. Non c’è niente qui!” inveisce lui, tornando ad un livello di voce soffocato.
“Tua sorella mi ha invitato qui spesso. Siamo i due ragazzi rifugiati nella vecchia villa.” Dico io. Poi guardo Amos. Paura e incanto dipinti nello stesso quadro.
Il ragazzo dall’altra parte della porta sembra rifletterci su. Sentiamo i suoi passi allontanarsi dalla porta, per poi scomparire del tutto. Rassegnati, ci guardiamo l’un l’altro, dubbiosi, quando vediamo un’asse di legno spostarsi dall’interno, e un ragazzo dai capelli castani sporgersi leggermente.
“Non capisco perché mia sorella abbia un’infatuazione per te. Non sei poi così bello.” dice, con un leggero sorriso complice sul volto. Ci fa segno di entrare, e ci accompagna verso una botola dove, dopo averla aperta, scende lentamente le scale seguito da noi. Buio completo. Silenzio.
“Luce!” dice allegramente lui. Sentiamo un paio di fiammiferi strusciare, facendo nascere una piccola fiamma che prende posto su quelle che sembrano delle torce piazzate sul soffitto basso. Lentamente, i nostri occhi prendono di nuovo il pieno controllo della situazione. La stanza è completamente piena di gente, di ogni età e sesso. Ci guardano tutti con occhi diffidenti e accusatori, quando il ragazzo urla di nuovo:
“Non sono fascisti” dice gioioso in dialetto. “Violinista, riprendi da dove hai lasciato!”.
Ed è un esplosione. Le facce storte che un attimo prima avrebbero voluto fucilarci con lo sguardo ora si sono trasformate in espressioni di festa, di felicità estrema, mentre le mani cominciano a battere il ritmo sotto la melodia del violino. Le risate sono fragorose, spensierate, e le persone conversano a gran voce l’una con l’altra.
Guardo mia sorella e Amos terrorizzato a morte. Poi il ragazzo castano nota il mio sguardo, mi prende sottobraccio e mi urla nelle orecchie, con l’alito saturo di vino:
“Non ti preoccupare caro rifugiato mio bello! Non ci sente nessuno nel mondo sopra le nostre zucche! Questa stanza è sicura da qualsiasi carogna balorda che voglia scovarci e impedirci di festeggiare! Prendi del vino, ubriacati e torna a casa a dormire tranquillo! Sei al sicuro qui!” e poi prende la mano di mia sorella, invitandola a gran forza a ballare, inchinandosi fino a toccare col naso le scarpe, facendo il verso ad un vero gentleman. Il fragore è veramente assurdo, e tuttavia rimango un po’ scettico sul da farsi. Ma vedo una mano mettersi davanti ai miei occhi e sorreggere un fiasco pieno di vino rosso. E sento una voce mascolina e fanciullesca assieme sussurrarmi al mio orecchio, con l’intonazione del vero poeta, come solo una persona in tutto il mondo sa fare.
“Chi non ama le donne il vino e il canto, è solo un matto non un santo. Chi disse codeste parole di così piena verità universale?”
“Shopenauer.” Rispondo io ridendo di gusto.
“Molto ben detto, mio caro rifugiato! Ergo, godiamoci queste belle donne, questi bei canti, ma soprattutto” e tirando una sorsata lunghissima dal fiasco “questo buonissimo vino!”. E mi mette il collo del fiasco direttamente in bocca, tappandomi il naso e ordinandomi di bere, mentre le risate che mi vengono dallo stomaco lottano per uscire, così da farmi quasi soffocare fra queste due stupende forze. E ci gettiamo nella mischia a ballare come due pagliacci da circo, inventando mosse strambe e curiose scatenando gli applausi e l’acclamazione della gente. Di sfuggita vedo mia sorella con la faccia completamente rossa per le troppe risate con il suo cavaliere, mentre si improvvisano in un twist.
Amos all’improvviso mi prende per la vita con una mano, stringendomi a sé, e con l’altra stringe la mia mano sinistra.
“Che diavolo stai facendo?” gli chiedo io, non nascondendo un sorriso.
“Ti prego, cara! Che figura mi fai fare davanti ai miei ospiti! Non mi pare l’atteggiamento più consono per una signora della tua età!” esclama tutto pomposo, aggiustandosi il ciuffo ribelle che si era poggiato sulla fronte sudata.
“E poi questi vestiti! Domani voglio vederti con quella gonna che ti ho preso tempo fa!”. E scoppiamo tutti e due a ridere, così come le persone vicino a noi. Lo lascio fare, lo faccio immergere in quella popolarità che tanto gli si addice, e gode anche nello sguazzarci.
Per un attimo si ferma tutto. Mi vedo al dì fuori, in quella scena. Io. Io che nel ballare faccio la parte della donna. Io che mi faccio burlare da tutti i presenti. Io che sono mano nella mano con un ragazzo. Io che sorrido. Io che mi piaccio, per la prima volta in vita mia.
Mi perdo per non so quanto tempo in questa marea di colori, di luci che vanno e vengono, di danze ancestrali che riempiono la stanza di sudore umano e di gioiosità, di visi contenti e allegri, quando mia sorella si accascia al mio fianco chiedendomi, fra i mille singhiozzi alcolici, di tornare a casa. Amos annuisce comprensivo, e così ci avviamo verso l’uscita, mentre tengo la mano di Lucia stretta.
Ringraziamo il ragazzo castano, Enrico, che schiocca un bacio sulla bocca a mia sorella, troppo inebetita per accorgersene. Risaliamo con fatica le scale e chiudiamo la botola.
Quando spostiamo l’asse di legno per uscire dal fienile, un urlo lacera la notte.
“Fermo!”
Il fucile è puntato contro me e Amos, immobili e terrorizzati, mentre Lucia si sta addormentando piano piano sulla mia spalla.
“Andiamo a casa Leonardo, ti prego. Sto male” bofonchia lei fra conati di vomito.
Io sono in preda al panico. Poi la figura oscura ci viene incontro. Un raggio di luce della luna mi fa intravedere il suo volto. Porta un foulard rosso al collo, e una divisa militare sgualcita, verde scuro, con grossi stivali neri.
“Siete…siete dei ragazzi?” chiede lui tentennando, stringendo gli occhi per metterci più a fuoco nell’oscurità.
“Si…si… Non siamo fascisti!”. È la prima cosa che mi viene in mente. Cazzo. Ci penso solamente un secondo dopo che era la cosa più stupida che potessi dire. Mi viene in mente quel vecchio modo di dire, avere “la coda di paglia”: un normale ragazzo non avrebbe mai detto così. Ma è troppo tardi, e sento la gola farsi sempre più secca.
“Non ti preoccupare, so riconoscere un fascio quando lo vedo”. E sorride. Abbassa l’arma. Un sospiro di sollievo esce dalla bocca di Amos. Ma l’uomo riprende subito a parlare.
“Ragazzi ascoltate, ho bisogno di cibo. Sono tre giorni che vado avanti e indietro per queste montagne. I miei compagni sono stati tutti fucilati da quei bastardi fasci figli di puttana, mentre io sono riuscito a salvarmi. Ma gliel’ho fatta vedere. Cinque pallottole a ciascuno dritte in testa. Una non basta per quei porci. Insomma, potete darmi una mano?”. E’ un fiume in piena, le parole si accavallano una sull’altra, e probabilmente era più spaventato lui di noi quando ci ha visto. Guardo mia sorella, e mi accorgo che è completamente crollata. Decido di prendere io il controllo.
“Noi purtroppo non abbiamo niente, anzi dobbiamo tornare al più presto a casa. Ma qui giù c’è qualcuno che ti può aiutare. Digli che ti mandano i rifugiati.”
“Rifugiati? Siete sicuri capiranno?”
“Non ti preoccupare. Ora scusaci, noi andiamo. Buona fortuna.”
“Grazie ragazzi.” Ed entra nel fienile in silenzio.
Io mi avvio velocemente verso casa, prendendo Lucia in braccio. Amos rimane pochi passi dietro di me. Non aveva detto una parola durante tutto l’incontro con l’uomo. Non avevo avuto modo di guardarlo per il troppo timore, ma potrei giurare che il suo sguardo non si fosse staccato dall’uomo neanche per un  minimo secondo. Mi raggiunge, e si affianca a me.
“Chi era quello?” mi chiede sottovoce. Mi volto verso di lui.
“Era un partigiano.”
Non rispose. Neanche quando tornammo a casa. Il ragazzo dalle mille domande, il bambino dai mille perché, si era ammutolito del tutto. Forse è così che si diventa uomini.
 
SETTIMO
Non capisco cosa sia cambiato nell’atteggiamento di Amos. È sempre quell’anima nobile, poetica ed eterea che ero abituato a vivere nella mia quotidianità: solo una leggera increspatura nel viso, anche se invisibile agli occhi, lo rendeva come più freddo, distaccato da me e dal mondo esterno.
È davanti a me, la testa ciondoloni e un piccolo cuscino nascosto sotto la camicia per creare l’illusione della gobba, curvo, biascicante, recita un monologo di sua invenzione trascinandosi per la stanza, voltandosi di scatto verso di me di tanto in tanto per controllare se gli sto dedicando tutta la mia attenzione.
I capelli biondi ormai lunghi gli coprono il volto, rendendo ancora più agghiacciante la sua recita. Ha smesso di parlare. Mi guarda. Sfila il cuscino dalla schiena in silenzio, non staccandomi gli occhi di dosso, occhi di ghiaccio. Semichiusi.
“Devo chiederti una cosa.” Mi dice.
“Perché hai smesso di recitare? Era un ottimo monologo, molto filosofico…”
“Me ne frego della scena.” . Si accende una sigaretta e si lascia cadere a terra, sdraiato, guardando il soffitto.
“Che cazzo ti prende?” chiedo io. “Se è un altro dei tuoi scherzi macchinosi lascia perdere, non è giornata.”
“E’ strano come l’uomo, di fronte alla sua salvezza, possa essere tanto imperturbabile e gelido, quando tutto intorno a sé è solo morte e silenzio.”
“Cosa vuoi dire? Non ti seguo.”
“Il partigiano…”
“Quale partigiano?”
“Quello dell’altra notte. Eri di ghiaccio quando ce ne siamo andati.”
“Tutto qui? Fammi un favore, lascia perdere queste cazzate e riprendi con la tua arte”
“Perché non hai più parlato da quel momento? Era come se avessi visto il diavolo.”
 
“Non mi sembravano tanto differenti a dire il vero…”
“Che ti è preso?”
Sento come se gli occhi si stessero scaldando: è quella sensazione naturale che si ha poco prima di scoppiare a piangere, triste sì, ma calda, avvolgente.
“Si fanno la guerra l’uno contro l’altro… Noi non centriamo niente.”
“Loro cercano di migliorare le cose” ribatte lui.
“Come? Uccidendo il problema?”
“Semplicemente usando le stesse armi del problema.”
Tiene i pugni chiusi, tremanti, come se dovessero picchiare l’aria da un momento all’altro. Sono esausto.
“Senti… A me non interessa del partigiano, non interessa del fascista, non interessa del Dio e di questo posto di merda. Io voglio solo che tutto finisca.”
“Non stai facendo molto mi pare per fare finire tutto questo…” sibila lui. Mi alzo di scatto, lui cerca di scappare ma ormai l’ho preso per il collo e lo sbatto contro il muro.
“Fanculo. Credi che a loro importi qualcosa di Leonardo Federici? Non gliene frega un cazzo di niente! Sono bestie! Loro e quei fascisti del cazzo! Tutti quanti!”.
I nostri visi sono pochi centimetri l’uno dall’altro. I miei occhi di fuoco concentrati sui suoi, infantili e puri.
Poi gli esce qualcosa dalla bocca, come un soffio, una nuvola.
“Ti ho a cuore”.
Sento le mie mani rilassarsi lentamente, lasciando la presa e infilarsi nelle tasche, col sudore che cola e il calore che le rende rosse.
“Ti prego. Non parlare più di queste cose” gli chiedo. “So benissimo a cosa stai pensando”. Lui mi guarda con un’aria indifferente, ma i suoi occhi non tardano a rivelare la loro onestà, e si vanno a rifugiare a ridosso delle guance, mentre la testa si china dispiaciuta.
“Credi che non ci abbia pensato anch’io? Credi che non mi faccia piacere spappolare la testa del Duce sotto i miei stivali?”. Mi osserva sognante, ma con un’espressione colpevole sul volto.
“Tu vedi il partigiano dell’altra sera e lo consideri un eroe, un Ivanhoe, un Orlando, un Goffredo! Vedi lui e fantastichi di prodi avventure, cavalli e nemici schiacciati dalla tua spada! Chiunque rimane incantato da questa visione. Però ricorda questo.” Mi avvicino a lui, appoggiandogli la mano sulla spalla, accarezzandola.
“Neanche gli animali si uccidono fra loro. Sono peggio di animali. Sia quei bastardi fascisti che i partigiani del cazzo. Come si fa ad uccidere un uomo quando l’arte ci costringe ad ammirarla? Non vedi quanta bellezza al mondo?”.
Resta in silenzio pochi secondi. Alza la testa. Gli occhi lucidi faticano a trattenere una lacrima pronta a scivolare sulla sua pelle liscia.
“Hai ragione.” Mi dice vergognoso, come un bambino che racconta al genitore di aver rubato una caramella come il più terribile dei crimini. È un attimo.
Non mi accorgo di nulla. Accade tutto così velocemente, un’istantanea scattata al momento. Sono totalmente preda dei miei sentimenti, mi spingono avanti la testa e il corpo. Poi riapro gli occhi.
La mia bocca è appoggiata alla sua, e le mie mani stringono le sue.
Lui mi guarda.
Mi allontano di scatto.
Esco dalla stanza e mi precipito fuori dalla casa, nel paese che tanto avevo odiato.
 
OTTAVO
 
I pensieri nella mia testa cozzano fra di loro come onde impetuose su mari opposti.
Mi vengono in mente quelle vecchie opere che mi faceva ascoltare mio padre da piccolo in religioso silenzio: archi e ottoni in eterna lotta fra di loro per la sopravvivenza, e io che immaginavo gli orchestrali come grandi condottieri, pronti ad affrontarsi a viso scoperto e senza paura. Che cazzo mi è preso, vorrei saperlo.
 
Sono ancora bloccato in camera sua, esattamente da quando è scappato fuori. Cerco subito una corrispondenza letteraria per quanto è appena accaduto: beh, probabilmente Rimbaud e Verlaine avevano lo stesso nostro rapporto. Mi do dello stupido. Mi accarezzo le labbra.
 
Lancio con tutta la forza un sasso verso la vallata. Mi viene da urlare, da bestemmiare a gran voce, da denudarmi e morire li. Un verme. La gente deve sapere che razza di verme sono.
 
Mi avvicino alla finestra, quella dove sta sempre lui. Mi avvicino al vetro: il respiro affannoso crea la condensa, e con il dito traccio piccole lettere a casaccio, disegni, nuvole, cuori.
 
Era tutto perfetto prima. Amici. Niente di più. Avevo trovato la mia anima amica. Ora è tutto rovinato. Non avrò più il coraggio di guardarlo in faccia.
 
Vorrei rassicurarlo in questo momento. Prendergli le mani fra le mie, alzargli il viso che sicuramente sarà basso, nascosto fra le pieghe del colletto, timoroso del mio giudizio. Sento qualcosa dentro di me. Una sensazione estranea. Mi passo una mano fra i capelli.
 
Desideravo farlo. Lo so. Lo sento.
 
È stato bello.
 
Ma che mi succede?
 
Mi viene in mente quel verso di Lord Byron… “Di un animo che qui con tutto è in pace, di un cuore che ama innocente”…
 
Immagini nitide e velocissime nella mia testa sfrecciano come treni a vapore. Io e lui che non ci parliamo. Io e lui che facciamo finta di niente. Io e lui che ne parliamo e ci baciamo.
 
Ma dov’è?
 
Io e lui che facciamo l’amore.
 
Perché so di aver peccato e non provo nessun rimorso? È questo quello che si definisce amore?
 
Non gli parlerò più.
 
Lo aspetterò qui.
 
Tornerò a casa quando dorme. Non voglio essere più visto da anima viva.
 
NONO
Torno a casa mentre mia sorella e Amos stanno cenando. Sento Lucia gridare il mio nome, ma bofonchio qualcosa sbrigativo e me ne filo in camera mia, chiudendomi la porta alle spalle. Il sudore cola lentamente sui fianchi, impregnando la camicia in maniera vistosa. Mi accendo una sigaretta. Ne ho già una accesa in bocca. La fumo tutta d’un fiato e me accendo un’altra. Giro nervosamente per la stanza. Mi sento sporco. Un bastardo. Un animale. Penso a mio padre. A mia madre. A lui. No. Adesso basta.
Guardo fuori dalla finestra ma è il buio più assoluto. Al piano sotto non una parola. Prendo in mano Les Miserables, mi concentro sulla prima riga della pagina, la rileggo dieci volte senza ricordare nemmeno una parola. Mi passo una mano fra i capelli sudati scaravoltando il libro per terra. Cado a sedere, e mi viene da piangere. Non un pianto esasperato. Ma sommesso. Quieto. Il pianto di un innamorato che legge la lettera della sua amata. Il pianto di un’anziana signora che vede la sua vecchiaia rovinata dalla guerra. Il pianto di un neonato mentre i genitori dormono. Madido di sudore, mi porto la sigaretta alla bocca, inspirando furiosamente persino il filtro. Poi la spengo. Cado stremato sulla sedia, nell’angolo della stanza, guardando il soffitto.
Due tocchi leggeri alla porta. Rimango muto, mentre si apre leggermente facendo passare una mano, che si allunga quasi per tutto il braccio, ma il corpo rimane nascosto dalla porta. La mano si contorce graziosamente, quasi come in una danza, poi con un movimento repentino si trasforma nel becco di una gallina, che si apre e si chiude a ritmo delle parole pronunciate da una voce stridula e nasale.
“Che ti prende, giovane poeta ramingo?” starnazza lui da dietro la porta, mentre io continuo a guardare il pavimento. Nessuna risposta.
“Un soldo per i tuoi pensieri, forza e coraggio!”. Ancora niente.
“Sai, c’era un mio amico, un eccellente commediografo, che diceva spesso che uno stolto che non dice verbo non si distingue da un savio che tace…”
“Non era un tuo amico. Era Moliere, razza di idiota”
“Allora parli! Questo significa che Dio esiste!”
“Non è una prova abbastanza certa questa” sorrido io.
“Posso entrare?”. La voce si è rifatta dolce, calda, amorevole. La sua.
È davanti a me, le mani in tasca, un sorriso buono sul volto e gli occhi divertiti.
“Hai ammazzato qualcuno?” mi chiede.
“Sai benissimo che cos’ho. Non ho voglia di parlarne con te.”
“Ah, questo lo noto. Ma sono io piuttosto a volere parlare con te.”
“Questo non fa alcuna differenza.”
“Au contraire, mio piccolo cucciolo d’uomo. Perché” e qui si aggiusta il ciuffo all’indietro, il colletto viene alzato e le labbra leggermente arricciate, mentre le mani si lustrano la camicia: “se un gentleman, quale sono io, desidera parlare di un determinato argomento a cui è molto caro, il suo ospite non dovrebbe fare obiezioni. Si tratta di educazione, Federici.”.
Non rido. Continuo a guardare lo stesso centimetro di pavimento da almeno mezz’ora. Sento alcuni passi spostarsi per la stanza. Poi si blocca davanti a me.
Alzo gli occhi, e lui mi porge il violoncello.
“La prego, mister Federici. Suoni qualcosa per me.”
“Amos, non ne ho voglia. Te l’ho già detto.”
“Per piacere. Se non possiamo passare una bella serata chiacchierando come veri dandy ottocenteschi, almeno fammi ascoltare un po’ di buona musica.”
Passa l’archetto fra le corde, e ne esce un terribile stridore. Mi sorride. Allungo le mani e prendo lo strumento, mentre lui solleva delicatamente la sedia dov’ero seduto prima per piazzarla esattamente al centro della stanza.
“So benissimo che il programma di brani che hai è molto vasto, ma a me e al tuo pubblico ci piacerebbe ascoltare la Suite per violoncello di Bach. La sai suonare, spero.”
Nascondo un sorriso. Mi sposto i capelli dagli occhi. Mani sullo strumento. Archetto a fianco. Parto.
Non so quanti minuti, ore o giorni siano passati. Ho sentito per tutto il tempo la melodia uscire dal violoncello, a ripetizione, senza neanche una pausa. Una melodia eterna. Interminabile. Ho sentito calore. Carezze. Mani che si appoggiavano alle mie. Labbra che sfioravano le mie sopracciglia, le mie guance, le mie orecchie, per poi poggiarsi sulle mie labbra. Ho sentito capelli che sbattevano contro il mio viso, macchiandosi col nero carbone dei miei riccioli. Ho sentito sussurri, affanni, sospiri. Ho sentito i vestiti, che stanchi di proteggere la nudità si facevano strada, intricandosi fra le linee del nostro corpo, e poggiarsi infine a terra. Ho sentito odore, odore di pelle, forte, odore di amore, odore di sesso, odore di qualcun altro al di fuori di me. Ho sentito mani che esploravano il mio corpo, come biciclette che percorrono tutte le strade di collina, fra alti e bassi, senza mai fermarsi. Ho sentito occhi, che studiavano ogni mio singolo millimetro, ogni particolarità, ogni neo, ogni brufolo, ogni pelo. E in tutto questo la musica non finisce. Io sto suonando. Sogno di suonare. La musica delle stelle. Me ne parlava mio padre. L’ordine celeste delle cose sopra le nostre teste. Bach. Il violoncello che non cessa di produrre questa armonia completa.
Apro gli occhi. È lui. È la cosa più bella che abbia mai visto.
Mi prende la testa e me la appoggia al suo petto. Chiudiamo entrambi gli occhi. Mentre Bach risuona ancora nelle mie orecchie, come una ninnananna.
 
DECIMO
Mi sveglio. Passo una mano sopra il viso, stropicciandomi gli occhi, mentre allungo le gambe stirando i muscoli. Faccio per alzarmi, ma mi blocco immediatamente. È strano. Appena svegliato, hai sempre quei tre, quattro secondi di completo stordimento: li ho sempre amati. È come essere in estasi, assenti da ogni rumore, problema o idiozia del mondo esterno: è come sentirsi morti, pur respirando, per una manciata di secondi. Come un fulmine a ciel sereno, poi, la vita prende di nuovo il nostro controllo, costringendoci a ricordare del passato, sistemarci per il presente e prepararsi per il futuro. E così succede a me. Mi ricordo tutto. È sdraiato di fianco a me, supino, con la testa leggermente spostata sul cuscino: una mano è immobile fuori dal letto, all’insù, come per chiedere l’elemosina, mentre l’altra accarezza la mia coscia, protettiva.
Lo guardo. Penso ai libri. Trovare un esempio, un eroe scaturito dalle pagine dei romanzi di cui avessi immensa stima, e che si sia trovato nella mia stessa condizione. Achille, Wilde, Thomas Mann, Virginia Woolf. Mi ricordo della mia professoressa a liceo, lezione di filosofia, mentre ci raccontava beffarda che con buone probabilità Seneca era solito avere rapporti sessuali con i suoi giovani allievi, definendo ridicolo tutto ciò, immorale e inumano. Perché non sento nessun tipo di imbarazzo dentro me? Eppure so di non avere il coraggio di uscire dalla porta di casa mia e urlare al mondo quello che ho fatto questa notte. Trovo solo naturale essere qui, in questo modo, con lui. Me l’ero sempre immaginato diverso. Un amore viscerale poteva nascermi solo per la letteratura, le passeggiate in montagna e per la mia persona. Non avevo mai pensato ad una donna, tantomeno ad un uomo. Eppure niente. Non è indifferenza, né tantomeno vergogna. È normalità. Bellezza. Gioia che mi do.
Prendo fra indice e medio un ciuffo biondo, ribelle, che va a solleticargli sopra l’occhio, lisciandoglielo lentamente e rimettendolo nella chioma. Mi avvicino a lui senza staccargli gli occhi di dosso. Non mi focalizzo su un determinato particolare, ma è come se guardassi al di là della sua persona, proprio come uno di quei vecchi registi di cui ho sentito parlare, o un pittore, uno scultore: ruoto attorno al letto col pensiero, cercando l’angolatura migliore per il mio capolavoro. Soffio delicatamente sul suo naso, sui suoi occhi chiusi, sulla bocca, finchè i movimenti del viso cominciano a prendere vita. Apre gli occhi, mentre io continuo a carezzarlo col mio alito.
“Che stai facendo?” grugnisce lui, sonnacchioso, mentre si porta le coperte sopra la testa, nascondendosi dal mio sguardo perso.
“Volevo svegliarti col mio odore.”
Dal lenzuolo esce un occhio, furbo e divertito.
“L’ho sentito tutta la notte il tuo odore.” Sussurra.
Mi bacia sulla bocca.
“Sei molto affascinante quando dormi” gli dico di rimando.
“Piantala.”
“No, dico sul serio! Sembri un morto contento!”
“Questo non mi rassicura molto…”
“E invece dovresti caro Amos, perché”, prendo il suo indice, me lo metto fra naso e bocca, come per dare l’illusione dei baffi, e con voce pomposa dico “Il sonno non ha in sé altro di cattivo, da quanto ho inteso dire più volte, se non che rassomiglia alla morte, passando poca differenza da uomo morto ad addormentato. Chi è?”
“Sono stanco.”
“Avanti, forza! Chi è?”
“Tua sorella?”
“Ignorante, povero ragazzo ignorante! Don Chisciotte! Uno dei romanzi più divertenti del mondo! Ma che diavolo di infanzia hai avuto?”
“Avrò avuto anche un’infanzia disastrosa, ma almeno adesso posso considerarmi intelligente, non un cerebroleso menomato con uno spillo al posto del pisello” ride lui scomparendo sotto la coperta.
“Ah è così eh?” e lo seguo, complice, nei meandri del letto.
Ci ritroviamo, bloccati, l’uno sopra l’altro, esattamente come la notte scorsa. Gli tengo le mani bloccate, le gambe stese sopra le sue, il torace a nudo a pochi centimetri dal suo. Ci guardiamo, sorridiamo. Ha gli occhi che ridono. Si chiudono come se fossero a mandorla, facendo nascere, oltre alla bocca, tre sorrisi in tutto. Gli passo un dito lungo tutto il viso: disegno le sue sopracciglia sottili, le sue guance rosa, il suo mento pronunciato, la barba ispida che sta crescendo.
“Che fai?” mi domanda appagato.
“Proteggo il tuo ricordo.”
“In che senso?”
“Nel senso che se mi lasci continuare a memorizzare ogni tuo singolo millimetro, non ti scorderò più.”. Si fa serio, emozionato, e con un gesto passionale mi prende la testa e la porta a sé, baciandomi con foga.
Poi sentiamo uno sparo. Chiaro. Innegabile. Sicuro come la morte.
Mi guarda spaventato. Io allo stesso modo. Ci alziamo in silenzio, camminando in punta di piedi verso la finestra, e allungando lo sguardo lungo il piazzale davanti casa. Tre uomini in uniforme verde scuro, berretto sulla testa e mitra fra le mani si stanno guardando intorno, mentre uno dei tre appoggia il piede sulla testa di un quarto uomo a terra, esanime, mentre una lenta ma ostinata chiazza di sangue si apre sempre di più attorno a lui, come cerchi concentrici in uno stagno.
Ci chiniamo in preda al panico. Ha gli occhi sbarrati, rigido come fosse una statua. Le mie mani invece tremano incessantemente. Sono pochi secondi che ci guardiamo negli occhi che sentiamo un altro sparo. Un altro. E un altro ancora. Temiamo il peggio. Poi una risata bonaria, mentre un’altra voce baritonale grida a gran voce:
Boia d’un mond leder! Facia da merda!”. Una voce baritonale. E poi ancora un’altra, nasale.
Ch’at venia n’cancher, fasesta de’ me’ maroun!”. Alziamo la testa, sporgendoci con prudenza alla finestra.
I tre uomini che prima impugnavano il fucile sono stesi a terra. Due completamente morti, mentre uno rantola ancora, con spasmi epilettici del corpo: cerca di parlare, ma il sangue esce con forza dalla bocca, facendolo tossire varie volte. Dietro di loro, quattro uomini, di cui due ragazzini, vestiti di camicie verdi e con attorno al collo un foulard rosso, i fucili appoggiati alle spalle.
“Bastardi figli di puttana! Guarda che cazzo hanno fatto a Nero!”
“Chi glielo dice adesso alla Giuseppina? C’avrà avuto sì e no sedici anni!”
“Che bestie…Bestie siete! Hai capito?” grida il ragazzo più giovane, prendendo la testa del fascista agonizzante e urlandogli in faccia, lanciando uno sputo sulla faccia per poi sbatterla di nuovo per terra con violenza.
Ho il vomito.
“Io vado in bagno.” Sussurro esterrefatto ad Amos.
“Vengo anch’io. Arrivo subito.”.
Ed invece resta li, alla finestra, assieme agli occhi dei curiosi che con cautela alzano le serrande per ammirare lo spettacolo, fra le risate generali dei partigiani, insulti, lamenti e qualche applauso del pubblico.
Mi sciacquo la faccia. Sento urlare.
“Fallo fuori quel fascista del cazzo.”.
Uno sparo.
Ed Amos non è ancora di fianco a me.
 
UNDICESIMO
Leo ha delle mani bellissime. Affusolate. Lisce. Delicate. Le mani dei musicisti sono sempre incredibili. Pensare che attraverso un semplice movimento riescono ad incantare l’orecchio di mille altre persone, farli viaggiare oltre mondi che mai hanno visitato e probabilmente mai visiteranno, fa accapponare la pelle. Abbiamo fatto di nuovo l’amore stanotte. Sento il respiro profondo del suo sonno, il suo petto scarno alzarsi e abbassarsi lentamente, come onde di un mare calmo. Mi sento un verme. Mentre guardavo eccitato il suo viso sudato e la libidine si impossessava di noi, non riuscivo a levarmi dalla testa la scena di quel pomeriggio. Il viso di quel giovane. Freddo. La pistola che si abbassa sul cranio insanguinato dell’uomo steso a terra e poi è la fine. Il sorriso orgoglioso, il labbro leporino in bella mostra, quasi come a sperare che da un angolo salti fuori suo padre, ammirandolo per il suo gesto eroico, e agghindarlo con una corona d’alloro come i vecchi imperatori. Poi alzarsi, fiero, e guardare verso la finestra di casa. Verso me. Fisso negli occhi. Penetranti come lame.
Mi schifo. Voglio sputarmi addosso. Ma non resisto più. Ho i visto i partigiani dirigersi verso l’”Osteria”, così la chiamano in paese: una vecchia stamberga di due vecchi sposi che offrono un pasto caldo a chi è in grado di pagare poche lire. Do un’ultima occhiata al ragazzo di fianco a me, girato di schiena. Vorrei baciarlo sulla guancia. È il senso di colpa che me lo fa fare: l’affetto può schiacciare tutto quanto. Ma no. Sfilo la coperta pianissimo, facendo attenzione a non fare il minimo rumore. Raccolgo a mucchio i vestiti gettati alla rinfusa sulla sedia, apro la porta e filo giù per le scale senza voltarmi indietro. Mi vesto in fretta e furia nell’atrio, quando sento una voce chiamarmi alle mie spalle. È Lucia.
“Vengo con te.”
“Non sai nemmeno dove vado.”
“All’osteria.”
“Come diavolo fai a saperlo?”
“Sbrigati. Andiamo.”
Non faccio domande, mi prende per mano, usciamo dall’entrata posteriore e sgattaioliamo nella notte come cani randagi. È vestita a festa. Capelli raccolti con un foulard rosso. Un leggero accenno di trucco sugli occhi e sulle gote. Penso a Leo.
Arriviamo davanti alla casa. Tre rintocchi con la mano. Apre una signora anziana, per nulla sospettosa, che dopo averci squadrato scocciata ci spinge ad entrare in fretta.
“Mangiate qui?”
“Siamo con loro.” Risponde Lucia.
“Lucia!” sento gridare dall’altra parte della stanza. Un ragazzotto smilzo si alza dal tavolo assieme ai suoi commilitoni che alzano i fiaschi di vino in un gran fracasso generale. Lucia gli corre contro. Si abbracciano, e si baciano senza vergogna nel mezzo della sala, mentre lui la alza dai fianchi facendola rotolare su sé stesso.
“Mi sei mancata.”
“Anche tu, Fausto.”
“Vogliamo piangere tutti insieme?” ridacchia un altro ragazzo al tavolo, simulando con le braccia un violinista che strimpella il suo strumento, lagnando una melodia sgraziata e stonata.
“Vaffanculo, Moro! Lo sanno tutti che è da prima della guerra che non vedi una femmina!” urla questo Fausto, tenendo stretta la mano di Lucia. Ci invitano a sederci.
“Te lo credo, amico. Questi sporchi fascisti mi stanno rubando le donne. Sennò, avresti meno da ridere.”
“Ma se l’unico buco che hai visto da quando sei nato è quello di tua madre!” risponde a tono un terzo ragazzo, biondo, tarchiato. Un coro di uuuuh e risate fa capolino al ridicolo cabaret di questi buffoni.
“Ridete, ridete. Bersaglio facile, rimango solo io come bersaglio ora.” Sbuffa il Moro fra sé e sé.
Fausto non smette di baciare il collo di Lucia, mentre vedo che mi lancia occhiate torve, brusche, e sussurrarle all’orecchio:
“Chi è lui?”
“E’ solo…un amico di famiglia.”
“Amos.” Sibilo allungandogli la mano. Contadinotti provinciali del cazzo. Dov’è Leo?
“Amos! Che razza di nome è?” torna alla carica il Moro.
“Persino uno che si chiama Amos ha visto più passere di te.” Risponde Fausto, stringendomi la mano e facendo l’occhiolino, mentre tira piccole gomitate a Lucia per cercare la sua approvazione, mentre lei è diventata rossa per la vergogna.
“Volete piantarla, cazzo?”.
Una voce baritonale. Dietro di noi, un rumore di stivali. E apparecchi di metallo che tintinnano al suon dei passi. Vedo delle mani appoggiarsi delicatamente alle spalle di Fausto, mentre le dita circondano il collo. Un foulard rosso che penzola sotto il viso quadrato. Una voce baritonale.
“Siamo gentiluomini noi, perciò ve lo ripeto un’ultima volta. In un qualche senso nascosto, se ci pensate bene, noi stiamo lavorando per voi. Quindi” e qui le dita cominciano a stringersi sempre più, mentre gli occhi di Fausto scintillano, la bocca tremante: “se gentilmente poteste stare zitti, saremmo molto grati di non prendervi a calci in culo.” E se ne va. Lucia sta singhiozzando sommessamente, mentre gli altri hanno abbassato lo sguardo, lasciando il malcapitato a massaggiarsi il collo, rosso, e con ancora i segni della presa.
Seguo con lo sguardo l’uomo. È lo stesso che oggi ha fatto fuori i due fascisti. Torna al suo tavolo, spinge indietro la sedia e si accomoda ridacchiando, prendendo il fiasco di vino e portandoselo alla bocca, sbevazzando della grossa. Di fianco a lui, un uomo non troppo giovane, quasi completamente calvo, sta lucidando il manico di un coltello. E dalla parte opposta un ragazzo che mi sta guardando. Un labbro leporino.
Osservo di nuovo i contadinotti seduti al mio tavolo. Silenzio totale, interrotto solo ogni tanto dagli ansimi di Fausto. Ha il moccio al naso.
Mi alzo.
“Dove vai?” mi chiede Lucia, disperata. Ha i lacrimoni agli occhi, la mano stretta in cerca di protezione attorno alla mia.
“Stai qui.” Le rispondo.
“Dove vai?” ripete lei, guardandosi attorno.
“Non qui.” Dico io, lanciando un occhiata di disprezzo ai suoi compagni di giochi.
Mi dirigo verso il tavolo dei foulard rossi, mentre due di loro si voltano verso di me, alzandosi e venendomi incontro con fare minaccioso.
“Lasciatelo. È con me.” dice il-ragazzo-col-labbro-leporino.
Mi allungano una sedia, e si chiudono a cerchio attorno al tavolo. Mi guardano.
“Come ti chiami?” domanda l’uomo che è venuto al nostro tavolo.
“Cosa si prova ad uccidere un uomo?”. Non so perché mi è uscito. È stato un lampo. Una cosa irrefrenabile. Uno starnuto. Un infarto. La morte.
Si guardano a vicenda indagatori. Poi scoppiano in una risata sguaiata, un concerto di note acute e catarro che rimane bloccato nella gola.
L’uomo calvo prende un pacchetto di sigarette, me ne offre una, e me la accende.
“Ci sono due cose che devi sapere prima di tutto: già di per sé, uccidere un uomo è indescrivibilmente incantevole. Ti regala un senso di potere, possesso, onore e rispetto che neanche Dio in persona sarebbe tanto pieno di sé. Secondariamente…” e si gira verso Labbro Leporino.
“Uccidere un fascista è ancora meglio.” Finisce la frase lui. Ridono. Quasi fino alle lacrime.
“Quando vedi che ti implorano…è un orgasmo. Hai presente l’orgasmo più bello che tu abbia mai provato nella tua vita? Quando ti si blocca il respiro, non senti più i piedi e ti sembra di morire?”.
Leo.
“Beh, quello è uccidere un fascista.”
“C’è chi fa il duro fino all’ultimo.” Dice l’omone. Mette le mani a mo’ di microfono, lanciandosi in un’imitazione del Duce: “la parola d’ordine è vincere: e vinceremo. Boia chi molla!”
“E invece chi ti implora come una troia in astinenza.” Riprende l’uomo calvo.
Passa la parola a Labbro, che mette le mani in preghiera e finge di piangere.
“Ti prego! Ho un figlio a casa! Moglie! Io non volevo neanche entrarci nell’esercito! Mi hanno obbligato! Io lo odio il Duce!”
“Quelli li uccidiamo due volte. I pentiti sono il peggio del peggio.”
“Ho sentito e visto cose che se un giorno le dovessi raccontare a dei nipoti stenterebbero a credermi, ragazzo mio.”
“Bimbi uccisi.”
“Mogli stuprate.”
“Donne incinta sventrate.”
“Vecchi che non si reggevano in piedi uccisi così, in un !”
“Una famiglia di fratelli. Facevano scavare la fossa al fratello del condannato, così di volta in volta, fino all’ultimo.”
“Masturbazioni di massa sulle contadine e le loro figliole.”
“E tu” mi guarda Labbro con occhi che hanno il fuoco dentro “tu pensi che se becchi il figlio di puttana bastardo che fa tutto questo… Non ti diverti un po’ con lui?”
“Non ti viene da squartargli le budella e vomitare sul cadavere?”
“Da uccidergli il padre, i figli e i figli dei figli? Da eliminarlo dalla faccia della terra?”
Era accaduto tutto così in fretta. Mi sembrava di aver sognato, la sensazione era quella: hai nella testa l’argomento, ma non riesci a ricordare bene cosa hai visto o sentito. E non sapresti nemmeno spiegarlo a voce. Mi accorgo che la bocca è aperta, e mi sbrigo a serrarla in fretta.
Vedo che sorridono.
“Guardate che faccia ha il nostro…?”
“Amos. Mi chiamo Amos.”
“Un nuovo amico per la truppa, che ne dite ragazzi?” chiede Labbro.
“Scusate, devo andare.”
Sento un coro di “ma, dove vai, che fai” dietro di me, ma non mi interessa. Prendo Lucia per un braccio e la trascino via, mentre gli altri suoi amici rimangono in silenzio.
“Che cazzo stai facendo?” chiede lei, irritata.
Non le rispondo.
Torno in casa. Mi svesto. Apro la porta della camera in silenzio. Mi sdraio dolcemente sul letto, cercando di ricordare la posizione che avevo prima che mi alzassi. Gli occhi rimangono aperti. Le sopracciglia sono tirate, lo sento. Il cervello va per una direzione. Mi giro di lato e mi decido a chiudere gli occhi.
Sento Leo fare un movimento brusco con la testa, forse un incubo. Poi sembra tornare alla sua posizione, e cercare la mia mano. Gliela stringo. Spero stia dormendo, ma sento le voci della sua testa urlare contro di me, prendendomi per il bavero e chiedermi come mai non sono stato dove stavo meglio.
 
DODICESIMO
Non ha parlato da quando si è alzato. Mi ha baciato sulla guancia appena svegliati, abbiamo fatto di nuovo l’amore, ma ad ogni mia domanda lui si rannicchiava nei meandri delle coperte, delle mie spalle avvolte attorno a lui, oppure sorrideva semplicemente, ma non una singola risposta. Si tira su i pantaloni sgualciti, allacciandosi la cintura in fretta per poi uscire dalla stanza, direzione bagno. Sento l’acqua scorrere sulle sue mani, e poi venire buttata sulla faccia, levandosi il sonno dagli occhi. Io rimango sdraiato, la mano fra testa e cuscino, in silenzio, guardando il soffitto.
“Che fai? Non scendi?” mi chiede lui, accennando un sorriso tirato.
“Vengo subito.”
Alza gli occhi al cielo. Poi scende le scale. Mi alzo completamente nudo, avvicinandomi alla finestra. Il piazzale dove ieri è stato ucciso un uomo è ora tornato alla normalità. Penso a quante panchine, quante case, quante strade, teatro un tempo di atroci delitti impronunciabili ai più, ora sono tornati come se non fosse mai successo niente. Esattamente come Amos. Sciacquandosi la faccia, toglie dalla sua persona ogni impurità, ogni piccola traccia di inganno ed odio, per presentarsi al mondo sotto sembianze fanciullesche. Sento il suo odore sulla mia barba ispida. Mi passo una mano, accarezzandomi, e la porto lungo tutta la faccia, spalmandomi di lui. Mi vesto. E scendo.
Amos e mia sorella sono seduti a tavola, completamente immobili. Lui con le mani attorno alla tazza osserva distrattamente il latte, mentre Lucia giocherella con le posate, facendo tintinnare i bicchieri sparsi, come un pianoforte.
“Buongiorno” sussurro io. Mi siedo, prendendo la mia tazza piena e inzuppandoci il pane dentro.
“Ciao.” Rispondo monotono.
“Che vi prende? Avete delle facce.”
Mia sorella scoppia a piangere. Dal nulla. Si porta le mani al volto, nascondendosi gli occhi e soffocando un lieve grido. Lui la guarda nervoso, quasi come ad ammonirla.
“Che cazzo succede?” gli chiedo io.
“Nulla.” Categorico. Freddo. Distante. “Non succede nulla.”
Lucia singhiozza, tirando un pugno sul tavolo.
“Ieri sera…Lui…”
“Non è successo nulla, ho detto.” La rimprovera lui, girandosi verso di lei e puntandogli occhi di fuoco addosso.
“Vaffanculo. Ora tu mi dici che succede!”
“Sennò?”
“Sennò ti appendo al muro e le parole te le faccio uscire in vari modi!”
Rimane per un po’ fermo, impassibile, anzi mi guarda divertito. Poi di botto prende la sua tazza, si alza e la scaglia contro il muro, frantumandola in mille pezzi.
“Coraggio!” mi dice. Non l’ho mai visto così. Venti minuti prima eravamo l’uno dentro l’altro, creando un legame spirituale al di fuori di ogni tempo e spazio, teatro di un amore diverso da ogni altro esistente sulla terra. E ora questo. Noto dell’eccitazione nei suoi occhi, ma non è quella che ho visto varie volte: quella sognante, infantile, artistica. No. È un eccitazione che si vede negli uomini che si scoprono ebbri di vita, consapevoli di essere in possesso di capacità e autostima che non avrebbero trovato in altro modo se non arrivando al fondo della bottiglia. È l’eccitazione di un problema risolto definitivamente, eliminato dalla faccia della terra. È l’eccitazione che prova lo spettatore davanti all’omicida impiccato in piazza, agonizzante, rantolante, e infine immobile, sapendo che giustizia è stata fatta. È quell’eccitazione malata, deviante, anomala, che l’uomo scopre di possedere lungo il corso della sua vita, ma di cui si vergogna, e tiene segreta fino alla morte.
“Tu sei matto.” È l’unica cosa che mi riesce di dirgli.
Spacca un piatto per terra, leccandosi le labbra.
“Vaffanculo.” E poi esce dalla porta.
Mia sorella strofina l’ennesimo fazzoletto sui suoi occhi piagnucolanti, il respiro mozzato da quella specie di singhiozzi che tanto odio.
Sono esausto. Non capisco. Mi accendo una sigaretta.
Non ho idea di quanto tempo sia passato. Io sono ancora li, e mia sorella ha smesso di piangere, e sbuffa fumo dalle narici, lasciando cadere la cenere per terra. Si porta l’indice sulle labbra, e sfoglia le pagine del libro che ha davanti agli occhi. Dov’è Amos?
“Che libro è?” le chiedo.
“E’ di mamma. “Cime tempestose”.”
“Ne ho sentito parlare, sì…Non è per” e poi un colpo. Una porta che viene buttata giù, subito dopo vari colpi di fucile alla maniglia. I passi si spostano nell’atrio, circospetti, calmi, prudenti. Stivali. Mia sorella mi guarda terrorizzata, ma io le faccio segno di rimanere zitta e di controllarsi, stringendole la mano. I passi vengono verso di noi. E’ nella stanza.
“Voi! Su le mani! Bene in alto! Stronzi!” urla l’uomo. Indossa una divisa militare, nera, il fucile puntato verso di noi, una spilla di un cerchio sopra ad una croce sul petto. Mia sorella lancia un urlo.
“Zitta, troia! Forza!”. Spara contro al tavolo, un altro urlo di Lucia, mentre avanza come uno spettro verso il vestibolo, il volto nascosto nella vestaglia e le braccia all’insù.
“Forza, coglione.” Mi urla lui. Eseguo.
“Faccia a terra! Giù!” ordina lui. Ci sdraiamo. Mia sorella mi tende la mano mentre i suoi singhiozzi riempiono l’aria di terrore.
“Dove sono?” domanda lui. C’è un accenno di timore nella sua voce, quasi come se avesse una certa fretta, e desiderasse trovarsi in qualsiasi altro posto tranne che in casa nostra.
“Dove sono chi?” bisbiglio. Perde la testa. Mi punta la canna del fucile dritto sul coppino, forzandolo, e spingendo la mia faccia contro terra.
“Lo sai benissimo, razza di stronzo! Dove cazzo sono i partigiani?” urla.
“Noi non lo sappiamo!” bela mia sorella. La alza, la prende per la gola, tira uno schiaffo violentissimo e la lascia cadere a terra inerme. Sento le unghie che mi si conficcano nel palmo della mano. Ma non mi muovo.
“Io ti uccido.” dice lui. Ha degli spasmi mentre lo dice. Balbetta quasi.
“Li trovi al casale dietro la chiesa. Sono nascosti li.”. Mi esce l’amara verità dalla bocca, mentre una sensazione nauseabonda mi parte dalla base dello stomaco, per poi arrivare alla gola e farmi vomitare sul pavimento. Sento la sicura del fucile che viene tolta. Poi è un colpo.
Il fascista cade esanime di fianco a me, gli occhi chiusi, il fucile rimbalza a terra per poi stendersi assieme a lui. Alzo gli occhi al cielo. Amos. Ha ancora il braccio alzato, tremante, e dalla mano gli cade un sasso insanguinato sulla punta. Scoppio a piangere. Non sentivo la scia di freschezza che lasciano le lacrime sul viso da un’infinità di tempo. Le braccia di Amos mi avvolgono, stringendomi a sé.
“Non so cosa mi sia preso prima. Perdonami.” mi sussurra all’orecchio. Poi mi bacia sulla guancia. Mi volto guardando l’uomo steso di fianco a me.
“Respira ancora.”
“Non ti preoccupare. Ci penso io.” Mi dice lui. Si alza, lo prende per le gambe e lo trascina fuori dalla porta. Sulla soglia, si gira verso di me.
“Ho voglia di sentire Bach.”. Sorride. Poi sparisce nel viale trascinandosi il fascista dietro di sè, come Achille con Ettore.
 
TREDICESIMO
Ha suonato Bach per me. Adoro l’aria iniziale. Il movimento che fa prima di cominciare: allarga leggermente le braccia, tenendo il dito ben premuto contro la corda, mentre l’arco, come una spada, traccia una linea immaginaria per poi colpire, più e più volte. Mi guardava mentre lo faceva. Non ha staccato gli occhi da me un secondo. Arrossiva. Inclinava leggermente la testa. E io lo guardavo. Ma dentro di me vedevo solo lui. Il fascista. L’ho trascinato per tutto il paese, insudiciandolo fra fango e poltiglia, tirandogli qualche calcio di tanto in tanto. Lui sembrava addormentato. Mi avrebbe fatto meno schifo guardare un maiale mentre viene sgozzato. La gente mi guardava passare con quel trofeo, alcuni mi hanno persino applaudito, altri gli hanno sputato addosso. L’ho portato in una cascina abbandonata nella boschiglia, dove nessuno lo scoprirà. Ancora privo di sensi, gli ho legato le mani e le braccia ad una sedia, tolto i pantaloni, il fucile, il pugnale, mentre con il berretto ho raccolto qualche piccione morto e li ho messi dentro, davanti a lui.
“Non sei qui.” mi ha detto Leo senza smettere di suonare.
“Mi porti in un’altra dimensione quando suoni” gli ho risposto. Poi ho azzardato un sorriso.
“A cosa pensi quando ti suono Bach?” mi ha domandato, leggermente imbarazzato.
“Amore. Rabbia. Depressione. Gioia. C’è tutto dentro questa melodia.”. Lui mi ha guardato incantato, come pregandomi di continuare a parlare di lui e della sua musica. Mi sono inventato qualcosa.
“Se la storia del mondo potesse essere rappresentata con un canto, sarebbe esattamente questo. Non senti? Le note che si rincorrono. È l’uomo di per sé che corre di continuo. Pensaci. Quando nella vita di un uomo si può parlare di pace? Mai. Siamo tendenzialmente portati a correre, biologicamente ed emotivamente. Mi piacerebbe averla sempre in testa questa musica. Voglio sia la mia ossessione.”
Ha sorriso. Ha continuato con più foga di prima, entusiasta, mentre le dita si muovevano irrefrenabili.
“Cos’hai provato oggi? Mentre ti puntava la canna del fucile alla testa?” ho chiesto io, tutto d’un fiato.
“La verità?”. Ha stonato una nota, si è bloccato due secondi, poi ha ripreso.
“Certo.”
“Per un istante, ho sperato che facesse quello che doveva fare. Prima che arrivassi tu ero morto.”
“Morto?”
“La noia. La mia migliore amica. Ultimamente pensavo mi avesse lasciato per sempre. Poi sei arrivato tu. Ma stamattina, quando sei impazzito, è tornata dentro di me. È strano, perché so che è un male enorme, ma è come se mi sentissi confortato con lei, protetto. Ti sembra stupido?”
“La noia è una sensazione normale nella vita degli uomini. Spesso è la causa delle novità più impensabili, un’incredibile rivoluzione nel bene e nel male tutto grazie a questo sentimento. Ti pare poco?”. Avevo voglia di parlare con lui. Ma volevo anche concentrarmi sul mio obiettivo. Sapevo cosa mi avrebbe aspettato quella sera. E sinceramente non vedevo l’ora.
“Cosa hai detto?”. La melodia si è interrotta. Lui mi guarda spaventato.
“Niente. Che ti prende?”
“Hai detto che vuoi uccidere.”
“Non è vero.”
“Si invece.”
“Senti, stavo fantasticando. Pensavo a mio padre.” Ho mentito. Spudoratamente. Lui ha arricciato il naso, poi si è acceso una sigaretta e ha continuato a suonare. Dovevo trovare al più presto un argomento. Non mi andava di discutere con lui. Anzi. Non mi andava di giustificarmi. Perché non trovavo niente di così sbagliato per cui giustificarmi.
“Hai mai pensato al suicidio? Intendo… Con questa storia della noia…”
“Tutti i giorni.” Ha risposto sintetico lui.
“Dai, seriamente.” Ho insistito io ridendoci su.
“Tutti i giorni.”. Poi fu la musica l’unica a prendere parola. E per la seconda volta ero sgusciato fuori dal letto, lontano dalla persona che credevo di amare, per arrivare all’esatto opposto. Davanti a lui. Si sta svegliando. Si fa scrocchiare il collo, poi vorrebbe passarsi una mano sulla testa, ma si rende conto di essere legato. E la sua espressione è uno spettacolo. Alza lo sguardo verso me, poi nota i due piccioni morti dentro al suo berretto nero, poi guarda spaesato di nuovo me.
“Buongiorno, testa di cazzo.” gli dico io.
Ansima. Cerca di divincolarsi, facendo saltellare la sedia, ma niente. È mio. Davanti a me.
“Ti conviene rimanere fermo. Lo sai che fra due o tre giorni, con quei lacci così stretti fra gambe e braccia, la circolazione del tuo sangue avrà non pochi problemi?” gli sibilo io, sorridendo beffardo.
“Vaffanculo, stronzo! Slegami immediatamente, o ti faccio fucilare!”.
Gli tiro un ceffone. Forte. È una goduria. Lo faccio di nuovo. Un altro ancora.
Lo guardo un po’. Non si è rassegnato. Non lascia andare la sua dignità. Si vede negli occhi che crede ancora di comandare lui. Crede di essere in uno di quei plotoni, dove gli basterebbe urlare “fuoco” per fare fuori innocenti, bambini, donne. Gli sputo addosso. Lui lo fa di rimando. Mi viene voglia di ucciderlo sul momento, fra mille pallottole del suo stesso fucile, e vederlo crepare lì.
“Quanti ne hai fatti fuori?” gli chiedo.
“Che cosa?” urla lui incredulo.
“Quanti. Ne. Hai. Fatti. Fuori.” Scandisco bene io, come si fa con gli handicappati.
“Che cazzo ti frega, coglione?”
“Oh, mi frega. Mi frega parecchio. Perché vedi… Io sono un fervo sostenitore della teoria dell’occhio per occhio, dente per dente. Conosci vero?”. Mi sento onnipotente. Eccitato. Deve sentirsi così Dio quando gli mandano su le anime.
“Ce l’ho io una teoria per te. Boia chi molla!” urla lui, poi se la ride. Gli tiro un pugno. La sua testa va indietro, poi di nuovo avanti, mentre una goccia di sangue gli esce dalla bocca, spandendosi sulla camicia nera. Ride. Ride. Ride.
“Ti ho per caso stuprato la madre? Forse era una di quelle del paesino qui vicino? Magari la più porca, eh? Che per salvarsi ha fatto un bel servizietto a tutti noi?”
Lo guardo, impassibile, il sorriso dipinto sul volto, come nella Gioconda. Immobile.
“Oppure la tua sorellina era in chiesa? Una di quelle che abbiamo fatto fuori mentre scappavano? Proprio come conigli…” e continua a ridere. Una risata rumorosa, cantilenante, tremendamente fastidiosa. Eppure rimango fermo. Si guarda un po’ attorno. Nota la mia espressione per niente preoccupata. Poi di nuovo i piccioni morti per terra. Si fa serio.
“Forza, amico. Se mi sleghi subito, faremo finta che non sia successo niente. Ci stai?”. Mi avvicino lentamente. Io sono l’attore, lui il mio pubblico. Questo è il mio teatro.
“Io i pentiti li uccido due volte.”. Gli sputo addosso. Mi abbasso e alzo l’orlo dei pantaloni.
“Che fai?” chiede terrorizzato lui. Stringo nella mano una pinza, gliela faccio dondolare davanti agli occhi.
“Non hai delle belle mani. Secondo te quali sono le mani più belle del mondo?”
“Non…non ne ho idea” balbetta lui, mandando giù la saliva stagnante.
“Quelle dei musicisti. Chissà quante non potranno più toccare un pianoforte, un violino, un corno…per colpa tua. Tu preghi solitamente?”
“No. Amico, andiamo…”
“Io comincerei adesso.”. Gli serro la bocca con la mano, mentre le pinze si chiudono sulla mano, poi con uno scatto violento vedo una sua unghia staccarsi, e fare un piccolo balzo per poi cadere ai miei piedi. Bestemmia, il porco. Bestemmia che non mi stupirei di vedere San Pietro davanti a noi, rosso di rabbia. Il sangue cola per terra, sulle mie mani. Mi pulisco sul suo giubbotto. Gli sputo addosso un’ultima volta. Poi gli do una botta alla testa. Mi calo le braghe. Pisco sull’elmetto.
“Scommetto che questo non te l’avevano anticipato al servizio militare.” Gli dico. Piange. Mi fa pena. Gli tiro una botta alla testa e la bestia crolla. Decido di lasciarlo li. Torno a casa. Davanti alla porta della camera, sento un vuoto allo stomaco. Vado in bagno. Mi masturbo pensando a quello che ho appena visto. Un orgasmo lungo, femminile, etereo. Poi torno a dormire. Sorridendo. E strizzo l’occhio all’odio che mi lacera le vene. Guardo Leo. Odio e amore nello stesso letto. E io sono l’indifferenza.
 
QUATTORDICESIMO
“Mi manchi” dico al ragazzo biondo di fianco a me lisciandogli una ciocca di capelli.
“Anche tu” ribatte lui. Mi bacia.
 
Stasera gli farò bere un bel po’ di olio di ricino. Devo solo chiedere ai ragazzi dove posso trovarne un po’. Voglio vederlo piangere.
 
“Non ti sento più vicino come prima. È come se ti stessi perdendo. Inesorabilmente. Io ci provo, ci provo davvero a non farti prendere il volo, a costringerti a rimanere agganciato a me tutta la vita. Ma tutto mi sta sfilando dalle mani, senza neanche che io me ne accorga.”
“Leo. Io voglio stare con te. Sono solo molto stanco. Di tutto. Voglio uscire e poter girare per strada senza aver paura di trovarmi qualche stronzo tedesco o fascista col fucile puntato contro di me.”
 
Devo riuscire a fargli odiare quello in cui crede. Lo deve dire davanti a me. “Fanculo il Duce e me stesso, stupido stronzo che ho seguito un altro stupido stronzo ignorante.”. Ma questo non basta. Non può bastare. Deve soffrire. Piangere. Chiedere pietà. Desiderare la morte più di qualsiasi altra cosa sulla faccia della terra.
“Ci pensi mai a noi due? Quando tutto sarà finito intendo.”
“Sempre.”
 
Quella presunzione del cazzo gliela devo togliere assolutamente. Spero solo che con tutti i calci che gli ho tirato in questi giorni di non averlo fatto rimbecillire più di quanto non sia già.
 
“E a cosa pensi? Tu cos’hai intenzione di fare? Io sono talmente confuso.”
“Viaggeremo per le città dando spettacoli di nostra creazione. Spettacoli con la complicità della gente. Teatro nel teatro. Devo aver letto qualcosa da qualche parte a proposito, un certo Pirandello… e ci guadagneremo da vivere così! Vivremo di poesia, amore, musica e carità umana!”. Ride. Mi bacia.
 
Poi quel taglio nell’orecchio con quelle dannate cesoie. Ho visto che perdeva una barca di sangue. Dovrei mettergli una benda, o qualcosa. Non voglio che si dissangui immediatamente. Mi guasterebbe il divertimento. E io ho appena cominciato. E ho molta voglia di divertirmi.
 
“Tu prenderai la tua tunica bianca, andrai nelle piazze, fermerai le signore spaesate per strada, e le farai entrare in un magico mondo incantato. Sembreremo pazzi agli occhi di tutti, ma non mi spaventa. La lucidità, ora come ora, si è persa da un po’.”
“E tu suonerai Bach seduto sui marciapiedi, o all’ombra di un albero, o con lo scroscio dell’acqua di una fontana. Come il pifferaio magico. Un incantatore.”
 
Aveva ragione Labbro Leporino. Quando ti supplicano è una goduria pazzesca. Li vedi, grossi e armati, girare per le strade e ridere beffardi dei poverelli. E adesso è li, in mezzo al piscio, al sangue, alla polvere, ripetendomi “per piacere” all’infinito. Lo distrugge non sapere quando morirà. E la cosa mi eccita.
 
“E ai nostri genitori cosa diremo? Saremo emarginati da tutti, dei reietti umani.”
“Ben venga. È proprio quello che voglio. Che si fottano i benpensanti e i bigotti schifosi. Non abbiano bisogno di loro. Gli unici amici che avremo saranno i protagonisti dei libri, le parole dei poeti e le note che si mescolano nell’aria.”
 
L’altro giorno mi ha chiesto di poter scrivere una lettera alla moglie. Mi fa ridere. È un riso amaro. Spero che faccia la sua stessa fine. Così il i figli. E i figli dei figli.
 
“E’ un sogno. Mi sento completo. Voglio crescere con te. Spiritualmente e fisicalmente. Invecchiare insieme.”
 
Ho deciso. Voglio seguire i partigiani. Fra pochi giorni partiranno per superare la montagna. E io voglio andare con loro. Devo solo dirglielo. Diglielo. Ora.
“E così sarà, Leo.” risponde lui. Facciamo l’amore.
 
Me la voglio godere fino in fondo. Deve essere proprio un dritto, il buon Dio di cui tutti parlano. Avere decisione di vita e di morte su ogni singola persona. Che libidine.
Altro che misericordia. Se mi chiedessero di prendere il suo posto, ci metterei la firma all’istante. Un burattinaio e i suoi giocattoli. Tutti segnati. Schizzi di sangue dappertutto. E pensando a tutto questo, raggiungo l’orgasmo.
 
“Esiste cosa più bella di fare l’amore con te?”
“Non credo. Ma ora devo andare.”
“Dove?”
“Un bicchiere di vino all’Osteria.”
“Con chi?”
“Amici.”
“Ok.”
Se ne esce dalla stanza. Aspetto il suono dell’uscio chiuso al piano di sotto. Mi vesto. Ed esco di casa.
 
QUINDICESIMO
Bugia. Non doveva andare all’Osteria. Ha accelerato il passo, guardingo, per cominciare a correre verso il bosco. La luna piena in cielo è come una vecchia amica, che per aiutarmi mi strizza l’occhio silenziosa, indicandomi la strada. Ho il fiatone. Cerco di non farmi sentire, anche se Amos è avanti parecchi metri. Poi si ferma. Il vecchio fienile. Ci ero già venuto una volta. Aveva tutta l’aria di quelle classiche casette diroccate dove prima o poi sarebbe diventato teatro di un omicidio, raccontato su tutti i giornali nazionali. Sposta una trave di legno, entra, e si vede da una finestrella sporca e opaca una luce, inizialmente fioca, ma che riesce piano piano a riempire la stanza. Mi accovaccio, trascinando i passi cercando di fare meno rumore possibile. Pochi minuti  e raggiungo la finestra, ancora illuminata. Avvicino l’orecchio alle mura friabili. Si sente un respiro pesante, affannoso. Poi il rumore di un fiammifero strusciato. Un’aspirata forte. Una sbuffata dalla bocca.
“Allora! Come sta il mio rivoluzionario?”. È la voce di Amos. È come un infarto. Provo a sbirciare fra i bucherelli delle mattonelle, riuscendo a scovare una fessura abbastanza larga, per appoggiarci l’occhio. È vestito come poco fa, ed ha ancora le chiazze del sudore sotto le ascelle dopo aver fatto l’amore, i capelli leggermente arruffati e l’aria serena. Ma con un sorriso cinico stampato addosso.
“Che ti prende? Ti si è strappata la lingua? Strano, perché non credo di esserci andato attorno a quella!” e ride di gusto, come non lo sentivo da tanto. Non riesco a capire con chi stia parlando, un muro mi blocca la visuale. Non capisco come riesca a stare zitto di fronte a tutto questo. Sento come la mia mente che si fa forza, entra nel fienile, prende Amos per la gola e gli urla “che cazzo stai facendo?” in faccia, ma il corpo è immobile, tranne i nervi che si muovono convulsamente.
“Ti…prego…” sento ansimare da una voce. Ho la stessa sensazione, nel sentirla, di quando si incontra un vecchio compare per strada di cui si è consapevoli di aver già visto nel corso della vita, anche in una circostanza stupida, ma, per quanto ci si scervelli per capire il dove e il come, non ce la si fa.
“Ti prego…” sento canzonare Amos. Ridendo fra sé e sé.
“Ma un minimo di dignità non ce l’hai? Che razza di uomo sei? Eppure vi professate come i salvatori della patria. Invece sei solo un pezzo di merda inutile.”.
Ogni respiro dell’uomo sembra essere l’ultimo ogni singola volta, e si sente la gran fatica che prova nell’inspirare.
“Hai pensato a qualche giochino da fare?” gli chiede Amos.
“Acqua…” boccheggia l’uomo.
“Io ci ho pensato tutto il giorno! Ne ho per tutti i gusti! Bisogna solo pensare a quale parte del corpo usare! Tu che dici caro? Hai particolari preferenze o lasciamo fare alla madre di tutte le cose, la Sorte?” e prende una monetina dalla tasca. Appoggia la sigaretta alla bocca.
“Acqua…” sento ripetere.
“Uffa! Come sei monotono! Facciamo così! Testa: avrai l’acqua. Croce: mi diverto con te.”. Lancia il soldo per aria, ma proprio mentre sta per ritornare sulla sua mano, si china, apre la bocca, e ingoia la moneta con precisione.
“Sei fortunato. Doppio spettacolo stasera. Il mio l’ho fatto. Ora tocca a te!”. Si comporta in modo plateale. Mi ricorda quando ci conoscevamo da poco, si piazzava al centro di camera mia e ogni sua mossa, postura, o frase che diceva era impregnata di una teatralità quasi esasperante, ma terribilmente carismatica. Si avvicina all’uomo. Prende la sigaretta fra le mani. Poi viene nascosto dal muro. Vedo solo la luce della lampadina.
“Si prega i gentili signori di non disturbare con urla o schiamazzi durante la rappresentazione dello spettacolo.” Poi un urlo. Mi giro, e vomito, mentre la nota acuta del dolore riecheggia nell’aria. Dopodichè, svengo.
 
SEDICESIMO
Mi risveglio dopo non so quanto. Ho del pantano sulla faccia e fra i capelli. Una mosca ronza attorno a me, e si poggia sulla mano. Mi alzo. È buio ancora. Il fienile. Nessuna luce. Cammino a carponi fino alla porta. Prendo la maniglia, e cerco di forzarla, ma niente da fare. Una spallata. Due. Prendo una leggera rincorsa e cade davanti ai miei occhi. Nero tutto attorno. Infilo la mano in tasca, tirando fuori il pacchetto di fiammiferi, ne sfilo uno e lo accendo. C’è una candela vicino a me, alta quasi come un mignolo, la cera ferma ai fianchi. Avvicino la fiamma, mentre prende vita. La prendo all’estremità e do un’occhiata nella stanza. Un coltello per terra. Dei pantaloni. Calzini. Stivali. Un berretto con un uccello morto dentro, e un altro poco distante completamente sfracellato. Avanzo pochi passi ancora. L’odore mefitico di piscio, sudore e sangue mi riempie le narici. Poi dei piedi. Nudi. Un chiodo conficcato in uno di loro, mentre il sangue rappreso fa da contorno. Alzo il lumino. Delle gambe pelose davanti a me, con vari graffi, tagli e sputi addosso. Le caviglie legate ad una sedia, così come le mani.
“Sei tu…?” chiede una voce a pochi centimetri da me. Mi avvicino. Un conato di vomito, di nuovo, mi parte dallo stomaco per arrivare alla gola, ma lo faccio tornare a fatica da dove era venuto, mentre una lacrima di paura mi si forma inumidendomi le ciglia. È un uomo. La faccia squadrata. Un occhio è completamente chiuso, con della cenere che crea un tutt’uno con il sangue, ed un grande livido nero attorno. L’altro è semiaperto, la pupilla piccola guarda a terra. I capelli sudati sono appiccicati alla fronte. L’orecchio destro è mezzo strappato. Poi la bocca. Tremante. Le labbra secche e raggrinzite.
“Acqua…”. È la stessa voce di prima. Lo guardo più attentamente, mentre le lacrime rendono la visione straziante opaca e acquosa. Uno schizzo di sperma è rimasto appeso alla barba incolta.
“Acqua…” ripete lui.  Mi guardo attorno. C’è un secchio nell’angolo della stanza. L’acqua è stagnante e leggermente marrognola. Lo prendo, e lo metto davanti al viso dell’uomo. Lui ci butta la testa dentro, fra mille bolle, mentre il livello dell’acqua si abbassa lentamente. Alza la testa, respirando a pieni polmoni. Poi di nuovo dentro. Rimango li, ad abbeverare quest’uomo diventato, per colpa di un altro della sua specie, animale. Mi fa segno di spostare il secchio, mentre alza la testa, chiudendo gli occhi, il torace che ondeggia, su e giù.
“Grazie” mi sussurra.
“Chi ti ha fatto questo?” gli domando. La risposta la conosco, ma voglio sentirlo uscire dalla sua bocca.
“Un ragazzo biondo. Un diavolo.”. Può il ragazzo più bello del mondo trasformarsi nella belva più temuta dall’uomo? Mi copro il viso con le mani, vergognandomi. Soffoco il pianto che sento nascere dentro di me, poi lo lascio esplodere. Un pianto liberatorio. Estremo.
“E’ un tuo amico?” mi chiede lui, mentre mi guarda curioso, un poco commosso.
“E’ il mio migliore amico.”
“E’ una bestia. Un animale. Guarda cosa mi ha fatto. Ogni giorno torna da me, ogni giorno mi violenta in tutti i modi possibili ed immaginabili. Sono un morto che respira. E non so ancora per quanto.”
Un’immagine. Amos che mi sussurra “ti amo” mentre s’impossessa del mio corpo e della mia anima. Lo sento dentro di me. Amos che ama. Amos che uccide. E mi sembra di non conoscere l’amore della mia vita.
“Devo chiederti due favori” ansima lui, esausto. Io lo guardo. Provo una pena immensa battermi nel cuore.
“Il primo, è di pregare per mia moglie: si chiama Maddalena.”. Non ho mai pregato in vita mia. Mai. Ma davanti a tutto questo – spettacolo, l’ha chiamato lui – avrei potuto pregare per una vita intera. Nei miei occhi, l’uomo vede la sua richiesta accettata.
“Il secondo, è che tu mi uccida. Ora.” Sento un vuoto terribile. Non è il vuoto che mi sono portato dietro da quando ricordo, compagno di adolescenza e, per quanto questo sia possibile, amico. È il vuoto della disperazione. Della rassegnazione. Del dispiacere. Di questa razza umana che è partita, non conoscendo la destinazione, che tuttora sta cercando, ma non troverà mai. Homo homini lupus, diceva il mio professore di liceo. Non mi viene in mente nessun’altra verità più lucida, eterna e disincantata di questa.
“Guarda sul tavolo, laggiù. Dovrebbe esserci una pistola.” Seguo le sue parole, e la trovo immediatamente. Fredda, letale, ora nelle mie mani. Mi giro verso di lui. Quest’uomo, pochi giorni fa, non si sarebbe fatto scrupoli a uccidere me e mia sorella con una pallottola piantata nel cranio. Come un cavallo, un maiale, una vacca. La situazione è completamente ribaltata: ma questo, non capisco perché, non mi da nessuna soddisfazione. Alza la testa e i nostri sguardi si intrecciano, complici nel destino tremendo.
“Come ti chiami?” gli domando sottovoce.
“Pietro.”
Sento gli zigomi alzarsi timidamente, la bocca incurvarsi verso l’alto. Un sorriso buono, fraterno.
“Scusami, Pietro.”
Vedo che anche lui sorride. Rilassato. Libero.
“No. Scusami tu.”
Il colpo parte, la testa va indietro, uno schizzo di sangue sul muro. La fiamma che si spegne. In silenzio, torno a casa.
 
DICIASETTESIMO
Ho dormito nel letto con mia sorella stanotte. Era da tanto tempo che non succedeva, dovevo avere poco meno di dieci anni. Mi manca mia madre. Mio padre. Mi manca una linea guida, che mi accompagni durante la mia crescita, durante il mio diventare uomo, che mi aiuti nel percorso che vedo andare allo sbando davanti ai miei occhi.
Mi sveglio nel pomeriggio. Mia sorella non c’è. La prima cosa che vedo quando apro gli occhi è un ragazzo biondo sopra di me, triste.
“Hai scoperto tutto.”
Due mesi fa, mi sarei innamorato all’istante di quel viso.
“Si.”
“Io me ne vado. Vado con loro.”
Capisco con chi intende. Annuisco impassibile con la testa.
“Mi accompagni all’entrata?”
“Certo.”
Mi metto addosso una camicia di lino bianca, pantaloni, bretelle e scarpe di cuoio. Lo seguo, mentre si china per prendere un borsone, con una borraccia attaccata, un coltello e un paio di stivali neri.
Apre l’uscio di casa, mentre a pochi metri da noi lo stanno aspettando tre partigiani. Li conosco. Gli stessi che hanno ucciso il fascista nel piazzale davanti casa nostra.
Amos si gira verso di me, aggiustandosi il foulard rosso sul collo, ed accennando un sorriso. Rimango indifferente. Una statua. Gli stoici studiati a filosofia. Autarkeia . Autosufficienza. Capacità di detenere il completo controllo di sé stessi.
Si appoggia il borsone sulle spalle. Rimane a guardarmi pochi secondi. Mi accendo una sigaretta. Lui anche. Lo guardo negli occhi. Quegli occhi amati ora mi sembrano quelli di un passante, visto camminare nel paese varie volte, ma niente di più intimo.
“Non hai niente da dirmi?” mi chiede infine. Sembra dispiaciuto. Disturbato.
Ci penso un poco. Una domanda rimbomba nella mia testa, la più banale. E devo trattenere tutti gli istinti animaleschi del mio essere per non urlargliela in faccia, sputando, afferrarlo e strozzarlo. Ma niente. Gli mostro un sorriso beffardo, indifferente. Abbasso la testa, e sfilo una sigaretta dalla tasca dei pantaloni.
Lui abbassa lo sguardo a terra. Imbarazzato. Poi sento urlare uno dei partigiani, guardando il ragazzo di fronte a me.
“Coraggio, Bach! Dobbiamo andare.”
Amos Merlighi mi guarda negli occhi un’ultima volta. Occhi con una macchia. Occhi color della vergogna. Tutto in un viso d’angelo. Scende i gradini. Raggiunge gli altri, che risalgono la viuzza diritta per uscire dal paese. Non si gira neanche un secondo.
Mi avvolge quella sensazione comune, con cui ho imparato a convivere per tutta la vita. L’unica sensazione della mia vita. E in un istante, mi sento come a casa mia, e protetto. Cara amica mia, la noia.
  
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