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Autore: SkyEventide    27/05/2013    11 recensioni
È la primavera del 1917. Il giovane contadino Vincenzo viene arruolato nel Regio Esercito per combattere l’invasore austro-ungarico e, pur desiderando non far parte di quella guerra, conoscerà compagni importanti, tra cui Lucio, patriota bresciano. Il conflitto di idee e di desideri caratterizzerà la loro relazione fra le trincee del fronte isontino.
Primo posto al contest "Le quattro stagioni" di Aurora Boreale e 9d0lina.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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Primavera di bellezza



Salve, nostra adolescenza;
Te commossi salutiamo,
Per la vita ce ne andiamo,
Il tuo riso cesserà.

Le spighe sono piene e mature, quasi pronte per la mondatura.
Il sole del mattino di aprile scalda il giusto sul campo brillante; soffia un lieve vento, che scompiglia il grano e i rami dei tigli fioriti giù in fondo, vicino al fosso. Vincenzo è nei passaggi tra un filare e l’altro, prende nella mano abbronzata una spiga e la inclina: niente afidi attaccati al gambo, o puntini rossi, niente macchie scure o chiare sulle foglie, neppure il mal del piede. Si china e lascia la spiga, poggiando le mani alle ginocchia: la base degli steli non ha nessuna coloritura grigiastra.
Sorride, si raddrizza e si incammina tra le piante. Il profumo dei tigli, portato dal venticello, arriva fino al suo naso.
Oltre la staccionata che delimita il campo verso oriente c’è un prato di erba e margherite calpestate, da carretti, da zoccoli e da scarpe grosse, ancora oltre un recinto con l’aia e, attaccata a quello, casa sua.
Vincenzo si avvia con passi lunghi alla porta del podere; al fianco, su una panca ricavata da due ceppi e da una tavola di legno, sta seduto suo padre. Ha una giacca sgualcita buttata sulle spalle curve, sopra la camicia a quadri, e la testa stempiata che luccica. Gli pare anche più ingobbito della sua norma e che si fissi i piedi.
«Oh, babbo »chiama Vincenzo. « Il grano è tutto sano, è un’annata come Dio la manda. »
Il vecchio alza lo sguardo, ha un’occhiata smarrita, liquida. « Bene. »
Vincenzo aggrotta la fronte e si butta indietro qualche ciocca di capelli scivolata sulla fronte. « Che c’hai? »
Suo padre tira fuori una mano da sotto la giacca e gli allunga una busta, già strappata. « L’ha portata il postino mentre stavi nel campo. »
Vincenzo la prende serrando la mascella e prima di tirare fuori il foglio incrocia un paio di volte lo sguardo con il genitore, uno sguardo arreso e miserabile. Prende il foglio, lo spiega e inizia a leggere.
Non capisce alcune frasi e alcune parole particolarmente fumose, ma il senso generale è chiaro. Il Regio Stato d’Italia lo chiama al suo dovere di cittadino e lo invita a imbracciare le armi contro l’invasore. Alla fine è arrivata, la lettera di convocazione nell’esercito.
« Scappa » se ne esce all’improvviso suo padre.
Vincenzo deglutisce, quindi storce le labbra. « E dove ‘azzo vado? In Maremma? Mi do alla macchia per farmi arrestare per diserzione? »
Il padre rabbrividisce. « Però almeno resti vivo. »
« E qui sei lo stesso da solo. » Vincenzo incastra il foglio nella busta a malo modo e appoggia una mano sul maniglione della porta, spingendo di forza mentre il legno struscia sullo scalino d’ingresso.
Quel povero vecchio costretto alla mietitura, senza delle braccia giovani ad aiutarlo. Il buio all’interno sa di polvere, le ante delle finestre sono chiuse.
Inspira profondamente, gli vibra il fiato nel petto; deve rileggere la data in cui partire. Ha la sensazione che il grano che matura sia all’improvviso sospeso in qualche strano mondo delle idee, e con quello la sua casa e il suo campo, e suo padre, perché se anche ha una data in cui partire non è proprio sicuro che ce ne sarà una in cui tornare.
 

Son finiti i giorni lieti
Degli studi e degli amori;
O compagni in alto i cuori,
Il passato salutiamo.



Vincenzo marcia con il reggimento a cui è stato assegnato su lunghe mulattiere per carri, nel mezzo della Padana. Il panorama varia, da risaie irrigate a distese di un verde sano e luminoso, fino a campi di papaveri.
La divisa che indossa gli calza larga alla vita, ha dovuto strizzarla con una cintura. Trova che le sue scarpe da campo fossero più comode delle attuali. Ha agganciato l’elmetto allo zaino e il fucile lo tiene a tracolla.
Il giovane davanti a lui, magro e il più alto del gruppo, stringe l’arma vicino alla baionetta e ne usa il calcio come se fosse un bastone. Il caporale che cammina in prima fila suda come se fosse sotto al solleone e si deterge di continuo con un fazzoletto. C’è poi un giovanotto paffuto che avanza senza dire una parola, che si chiama Mauro, e uno che certe volte si mette a incitare quelli che sbuffano e allentano il ritmo di marcia, e si chiama Lucio. Gli altri gli restano poco impressi, se non per uno con una faccia truce e poca voglia di discorrere, che ha una grossa cicatrice da taglio sulla mascella coperta da barba mal rasata.
Vincenzo ha scambiato con loro pochi discorsi, ma direbbe sicuro come l’oro che Mauro è un pastore di Garfagnana, il tipo alto è fiorentino come lui, mentre il caporale è toscano ma proprio non saprebbe cucire addosso una professione a un individuo tanto nervoso. Gli altri non li ha saputi localizzare.
La maggior parte sono della Toscana e dell’Emilia, il che è un po’ come essere tra gente di famiglia.
La sera, bivaccano fuori da un casolare in cui si sono fermati a cenare.
Vincenzo struscia le mani e fissa la terra smossa sotto agli stivali; non hanno acceso fuochi, la serata è fresca e stellata.
« Allora » fa il loro compagno slanciato e col viso magro, che ha poi scoperto chiamarsi Armando. « Di dov’è che siete? »
Mauro si pulisce la bocca dalla zuppa di fagioli con la manica e risponde pacato, un tono assai strano per uno con la faccia così rubizza e gioviale. « Garfagnana. »
« E l’è vicino? »
L’altro scuote la testa. « Ormai ho passato la metà del percorso, sono più vicino a Gorizia che a casa mia. »
Armando va in cerca di qualcuno magari meno deprimente, e punta gli occhi su Vincenzo, che ci prova pure a fare una specie di sorriso. « Sono della campagna di Fiesole. »
« Siamo vicini di hasa! Si sentiva l’accento, poi. E te? » Armando si rivolge a Lucio, che stava appoggiato al muretto a secco, cosa da cui Vincenzo gli direbbe di guardarsi, per via delle vipere. Lucio è lì fermo, con le gambe allungate sull’erba, in silenzio ad ascoltare le loro voci che coprono l’insistente frinire di grilli e cicale per i campi, oltre al tubare di una tortora da qualche parte. Tiene sulle cosce un libro tra le cui pagine ha infilato un dito, per non perdere il segno.
Gli serve un momento per accorgersi che dicono a lui. Si volta, si sofferma sulle loro facce. « Mh? »
Armando insiste: « Dico, di dove vieni? »
« Brescia. » E resta a squadrarli qualche momento, sia loro che gli altri che non sono tanto distanti, seduti più vicini a un carretto a traino. Ridono e raccontano qualche oscenità.
Vincenzo ha la sensazione che esorcizzino a modo loro la destinazione della marcia.
Lucio aggrotta per un momento la fronte e sbotta: « Mah. »
Lui e Armando si scambiano un’occhiata, ma è il secondo che si allunga, interrogativo. « Icchè l’è? »
« L’è » risponde Lucio, imitando la cadenza fiorentina « che mi pare che nessuno qui abbia ben presente che cosa stiamo andando a fare. »
Vincenzo aggrotta la fronte, dà uno sguardo allo zaino con la bisaccia, il telo arrotolato per dormire e il fucile. « Ce l’ho eccome. »
Lucio sfila il dito dal suo libro e fa uno scatto nervoso. « Eh, no, invece! Siete uomini? Siete Italiani? Come si può avere un umore del genere quando si va a difendere la nostra patria e a ricacciare gli Austriaci oltralpe? E con questo atteggiamento? »
Vincenzo pensa a suo padre chino sulla panca di fronte al loro podere, a quello che lui si lascia dietro, un campo e una casa nelle mani di un vecchio solo. Una primavera sprecata e forse anche un’estate sprecata. Ancora il fronte non l’ha visto e già si sente logorato. Storce appena la bocca, lancia uno sguardo ad Armando.
« Un po’ più fieri del servizio che rendiamo, la guerra non si vince come se si andasse a un funerale! » insiste Lucio.
E perché, non stanno mica andando al loro, di funerale?
Quello che però toglie a Vincenzo il piacere di ribattere è Mauro, che fissa il bresciano con un’occhiata lapidaria: « Ma te da dove te ne esci? »
« Da Brescia, ho detto. »
Armando sbuffa. « Sei illuminante, ‘azzo. »
Allo stesso momento il resto del piccolo reggimento scoppia in una risata, per qualche beffa su qualcosa che Vincenzo non ha sentito.
Questo fa voltare verso di loro il caporale, che camminava avanti e indietro nell’aia fumando un sigaro toscano, puzzolente rispetto alla fresca erba di campo già bagnata di guazza. « Oh! E state zitti! » sbraita.
Si ammutoliscono un po’ tutti. Nonostante l’umido, la sera è ancora calda, quasi afosa. Vincenzo alza gli occhi al cielo e individua qualche costellazione.
La discussione con Lucio cade lì dov’è iniziata e, seguendo l’esempio del bresciano patriottico, dopo un po’ anche Vincenzo sospira e si risolve a prendere il telo arrotolato e a poggiarlo a terra per dormire.

Sulla via per Gorizia e il fronte dell’Isonzo, il reggimento si ferma nei pressi di un caseificio, non lontano da Padova.
Il cielo si è annuvolato, brilla di una luminescenza bianca, l’aria è ancora fresca e limpida. Sembra esserci meno sole anche nei visi delle persone, mano a mano che si avvicinano alla linea di guerra.
Il caporale sta discutendo con il fattore: il vecchietto afferma di non avere formaggio da cedere come provvista e in risposta il caporale insiste per vedere le scorte, agitandosi come è suo solito e iniziando per quel motivo a sudare e gesticolare alzando la voce.
Vincenzo è fermo nel piazzale di fronte al caseificio, col resto dei cadetti, pestando tutti con gli stivali l’erbetta verde brillante. A proposito degli stivali, li sta detestando. Un po’ di esperienza a riguardo di scarpe l’avrà pure, e scommette tutti i diavoli dell’Inferno che alla prima pioggia si zupperanno e le cuciture reggeranno male; sono rigidi e qualche sera prima, togliendosi il destro, ha visto come gli avesse fatto peggiorare i calli sul tallone e su qualche dito.
Non troppo distante, tranquillamente appartato e appoggiato con le spalle a un palo del telegrafo, c’è Lucio, ancora intento a leggere il suo libro. Vincenzo si sorprende che non l’abbia già fino almeno due o tre volte.
Gli si avvicina strascicando i piedi, dà una sistemata alla baionetta a tracolla e si sporge a sbirciarlo. «Che è, la Bibbia? »domanda.
Lucio alza gli occhi dalle righe. «No. Èil De Vulgari Eloquentia. »
«Il de che? »
Il compagno infila un dito tra le pagine e aggrotta la fronte liscia, appena coperta dai capelli tagliati. « È Dante » spiega, con una certa irritazione nella voce. « Una raccolta di varie sue opere. »
Vincenzo ha un’illuminazione. « Ah, l’Alighieri? Certo, lui lo conosco. »
« E ci mancherebbe. »
« Senti, c’ho la quinta elementare. »
« Ah. »
Il bresciano, o vive fuori dal mondo, o non vede troppo più in là del suo patriottismo. Lo sguardo gli cade un qualcosa che sbuca tra le pagine della raccolta dell’Alighieri. Inclina il collo e lo indica: « Perdi qualcosa. »
Lucio alza le sopracciglia, raddrizza il libro e apre alla pagina da cui usciva quel gambetto; non è un segnalibro, è un fiore di lavanda schiacciato e seccato, che ha perso il colore intenso della freschezza, ma non il profumo. Quello, pungente, entra nel naso di Vincenzo, mentre Lucio lo sistema di nuovo tra le pagine.
« Grazie » gli dice.
Vincenzo si allunga, divertito e incuriosito da quella presenza romantica tra le pagine di Dante. « È un regalo? »
Lucio, per la prima volta da quando marciano, fa un piccolo sorriso, che gli aggrotta un po’ meno il viso rispetto a quando incita a non perdere il passo, o fa qualche discorso sul fatto che hanno un dovere da compiere nei confronti della patria. « Sì, mi fa da portafortuna. »
Vincenzo ha soltanto un crocifisso di legno attaccato al collo con una cordicella, un ricordo di sua madre. Rabbuia il volto, pensa al padre. Intanto, gli urli del caporale si erano alzati tanto che il fattore ha finito per lasciarlo entrare assieme a un paio d’altri, tra cui gli è parso di riconoscere la figura alta e magra di Armando.
« E allora da questa persona non ci vuoi ritornare? Da quella che t’ha dato il fiore » chiede, con la voce abbassata, stanca. « Avresti mai voluto andartene? » La abbassa ulteriormente, perché ciò che dice lo si può chiamare tradimento. « Io la guerra non la sento mia. La mia terra, quella è mia, il mio podere e il lavoro che faccio nei campi. Quelli sono miei, non la guerra. Non capisco come ti possa esaltare così. »
Lucio stringe le labbra e chiude il libro con un tonfo di pagine. « Ascolta un po’. Ad un certo punto non puoi più pensare a studiare, o a lavorare, o a correre dietro alle sottane. Pensa se eri tu a vivere nella zona che controlla l’Austria ma dove invece la gente è italiana, nel cuore. Pensa se la credevi tua o meno, la guerra, se andava a toccare il tuo campo. Non si può andare a combattere al fronte con un umore così schifoso. Lo fai per il tuo Paese, il tuo! » Lucio gli punta addosso un dito allungato. « Animo, Vincenzo, animo! Ci sono dei tempi che sono sereni e altri che richiedono un sacrificio, e se tu devi essere l’arma nella mano della vittoria, allora cosa ti tiri indietro? Cosa credi, di chiuderti nel tuo piccolo mondo rurale quando è dal milleottocentoquarantotto al milleottocentosessantasei che il popolo si anima di uno spirito di collaborazione nazionale, e perché diavolo poi dovrebbe disfarsi, questo spirito, ora che siamo chiamati a… »
Vincenzo scuote le mani avanti, per bloccare il fiume di discorsi che Lucio sta partorendo, alzando un poco di più la voce a ogni frase e infervorandosi. « Va bene, va bene! »
L’altro pianta una mano al fianco. « Mi dai ragione? »
Vincenzo espira piano, svuotandosi i polmoni e riempiendoli di nuovo con la resa. « No. Non ho capito niente dell’ultima parte, e basta. »
Alle sue spalle, si intromette una voce pacata, quasi annoiata: « Alludeva alle tre Guerre d’Indipendenza italiane e gli annessi movimenti patriottici e mazziniani. »
Vincenzo si volta e si ritrova di fronte Mauro: il paffuto compagno tiene sottobraccio un fagottino di panno bianco e ricamato di rosso. Accenna al fagotto col mento. « Oh. E quello? »
Mauro scrolla le spalle. « Delle fette di formaggio dalla figlia del fattore. »
Lucio si avvicina, incrocia le braccia e fa un mezzo sorriso. « Certo che tu, per essere un pastore, te ne intendi bene. »
« Studiavo da seminarista. » Mauro storce le labbra, come se non fosse importante, e lancia uno sguardo al cielo bianco. « Poi hanno arruolato mio padre e sono dovuto tornare a occuparmi della famiglia, delle pecore e delle capre. E alla fine hanno arruolato anche me. »
Vincenzo fissa ancora il fagottino.
Lucio infila il suo libro nello zaino che porta in spalla, dato che nel frattempo il caporale è uscito dal caseificio e il reggimento si è svegliato dalla sua pausa di torpore e tranquillità, qualcuno alzandosi da terra dove s’era seduto, altri recuperando l’equipaggiamento abbandonato come degli scolaretti durante la ricreazione. « Io studio lettere » dichiara.
Vincenzo lo osserva solo ora, di sbieco: Lucio ha gli occhi strizzati per via di quella luce chiara e nuvolosa, da mattino abbagliante.
Mauro alza le sopracciglia, piuttosto eloquente. « Ah. Ecco da dove te ne esci. »
Il caporale ha ottenuto qualche forma intera e sta aspirando da un suo sigaro.
Tutti in piedi, in marcia.

 

Ricordate in primavera,
Tra le verdi ombre dei tigli,
Dei crepuscoli vermigli
I fantastici vagar.



A molti chilometri dal fronte, il Regno d’Italia era già diventato un regno di soldati.
In ogni paese che il reggimento attraversava gli abitanti erano stati evacuati, lo stesso per le città, per i casolari, gli ospedali, le fattorie.
Di fronte al reggimento si vedono le cime delle montagne carsiche e il cielo già quasi nero, alle loro spalle lasciano un tramonto rosso, così rosso che Vincenzo è sicuro che l’indomani sarà una giornata limpida e serena. Ogni tanto, verso le montagne, appaiono dei bagliori accompagnati da rumori simili a tuoni, anche se il cielo è pulito.
Vincenzo approfitta di un momento in cui rallentano il passo, camminando tra muri a secco impolverati, per fermarsi, per via del mal di piedi. La marcia e gli stivali schifosi gli stanno distruggendo le piante. Lo affianca Armando, che fissa in lontananza, come se, alto com’è, riuscisse a vedere fino alle rive dell’Isonzo.
«Sessanta chilometri da Gorizia »dichiara.
Fino alla sera prima, bivaccando, hanno riso fin troppo. Vincenzo è arrivato a tossire per via delle storie assurde che un livornese si è messo a raccontare, tra l’altro accendendo una discussione con un pisano e affermando cose riguardo al lavoro preferito di sua madre.
In questa sera, l’aria primaverile sa di polvere, ed è sicuro di odorare zolfo. A ogni colpo lontano, i compagni sussultano.
Il paese disabitato è occupato da altri due reggimenti. Il caporale va a presentarsi a un tenente e due capitani.
Camminano su una via di terra battuta che costeggia il muro della chiesa di paese, diretti nella piazza dove gli altri reggimenti sono perlopiù sistemati; qualcun quei soldati era già era presente agli angoli e agli incroci, come sentinella.
Mai Vincenzo crede di aver veduto visi tanto prostrati, o tanto duri, sì che a stento crederebbe di riconoscere se stesso in uno specchio, se avesse una faccia del genere.
Appena svolta nella piazza principale del paesello, a fianco di Armando, questa è piena come nella domenica delle palme. L’aria è fredda anche se è aprile e Vincenzo si struscia le mani sulle braccia.
Nella piazza ci sono soldati dell’esercito, alcuni in capannelli, certi seduti sul sagrato di pietra della chiesa, ma una buona parte è sistemata in cerchio, fucili alla mano, e controlla un gruppo numeroso di uomini rannicchiati sul selciato; molti di quegli uomini hanno delle ferite bendate, con macchie di rosso, certi non hanno più pezzi della divisa; quasi tutti sono sporchi, alcuni sono persino sdraiati; ognuno è stanco.
Vincenzo si ferma, aggrotta la fronte e incrocia per caso lo sguardo di un giovane che avrà forse la sua stessa età, o magari ancora non ha passato i vent’anni. Si abbraccia le ginocchia col corpo e una striscia di sangue secco gli imbratta una guancia e i capelli. È prostrato nel fisico, ma ha uno sguardo fermo, pure se non feroce, del tutto immobile.
«Prigionieri austriaci. »
Vincenzo si volta e si vede passare di fianco Lucio, che guarda i soldati imperiali di sbieco.
Il paese è silenzioso, un nuovo rombo brilla verso nord e il tramonto scivola nella sera. Vincenzo pensa ai campi di grano che splendono come l’oro.

Si preparano a dormire in quella che era una mensa, forse di una scuola. Vincenzo siede su una della panche scheggiate e fissa le tavolate, dove certi si sono arrangiati per coricarsi; nessuno ha più voglia di raccontare idiozie o dare della puttana alla madre degli altri.
Tiene la baionetta diritta, con la punta verso l’alto e il calcio appoggiato a terra. Lo ruota nella mano.
Armando è seduto di fianco a lui e Mauro è a terra quasi ai loro piedi, che russa; già quasi tutti dormono, o ci provano, tenendo gli occhi chiusi, respirando piano. Tanti soffi, qualcuno che fischia come se avesse il naso raffreddato.
Vincenzo corruga la fronte. «Preferivo continuare a impugnare vanga e falce »mormora.
«Attento che il nostro amico ti fissa storto. »
Vincenzo, alla risposta, si volta e vede Lucio alle proprie spalle. La luce lunare che entra da finestre alte rivela la sua occhiata aggrottata. Ha di fronte ancora il suo libro, aperto, benché non si veda abbastanza per leggere senza perderci gli occhi.
«E allora? »borbotta Vincenzo. «Che me fissi. Che altro c’ho, da dire? »
Squadra Lucio, che però non risponde, e prima di girarsi di nuovo si accorge che non leggeva, era fermo a guardare tra le pagine il suo fiore di lavanda.

 

È la vita una battaglia,
È il cammino irto d'inganni;
Ma siam forti, abbiam vent'anni,
L'avvenire non temiam.



Ci sono stati, prima di partire per la marcia, quei giorni in cui istruttori del Regio Esercito hanno spiegato loro come si usa un fucile con la baionetta, come si carica un Cei-Rigotti. In cui hanno spiegato come si lancia una granata lenticolare Minucciani, come si usa una mitragliatrice media montata su un treppiedi, le regole base per prendere la mira con una beretta o una Glisenti del modello 1910.
Con gli stivali scomodi piantati nel terreno infangato della trincea di seconda linea, a est di Gorizia, Vincenzo non si ricorda assolutamente nulla.
È mezzogiorno e la giornata non potrebbe essere più pulita e più fresca. Vincenzo ha le spalle premute contro il muro di terra della trincea, da cui sbuca qualche radice non divelta. Respira male, lo stomaco gli si stringe ripetutamente.
Il caporale cammina avanti e indietro di fronte al reggimento, e anche se l’aria è limpida, la sua faccia brilla di goccioline di sudore. Urla un discorso, che però Vincenzo sente solo a pezzi, alle volte perché ascolta altri rumori dalla provenienza indefinita, strilli, scoppi lontani, alle volte perché il caporale grida voltato da un’altra parte o troppo distante, e non si sente.
« Prendiamo le trincee austriache… il filo spinato… ricordatevi di scendere nelle buche e infilzate gli stronzi che vi trovate davanti con le baionette… ci dovete arrivare… siete vicini, lanciate le granate… l’avanzamento deve prendere le loro trincee, entrare vicino a Gorizia, dobbiamo unirci al Generale Capello che arriverà dall’altopiano di Bainsizza. Avanzate, non sparate subito, avete di fronte la nostra prima linea. Avete capito? Ora danno il segnale! Pronti! »
Vincenzo risucchia il fiato. Alla propria destra ha il livornese che raccontava barzellette e a sinistra ha Lucio. Stringe il fucile così forte da sbiancare le nocche.
Vincenzo sfrega quasi i denti e aggrotta la fronte. « Fammi qualche discorso patriottico ora » gli sibila.
Lucio si volta di scatto, ha gli occhi infiammati, non tanto di rabbia; Vincenzo riconosce, più che altro, l’orgoglio.
Qualcuno dalla fila di soldati alza la voce, nervoso: « E quando s’è presa la trincea? Si avanza, e poi? Che si fa? »
Il caporale si deterge il sudore con la manica della divisa. « E poi che Dio ce la mandi buona. » C’è il silenzio, per qualche momento, quindi un suono squillante. Il caporale urla: « Il segnale! Fuori! Fuori! »
Escono tutti. Vincenzo si gira con uno scatto, è trascinato dall’impulso alveare di tutto il reggimento, e nel farlo urla. Tutti urlano.
Imbraccia il fucile e corre, con gli occhi spalancati. Il terreno vola sotto i piedi e gli sembra che la percezione dell’aria, del corpo, degli uomini attorno, sia più cristallina che in una mattino di brina.
Dalla trincea di seconda linea a quella di prima ci sono venti metri. A occhio e croce, dalla trincea di prima linea a quella austriaca ce ne sono trenta. Il terreno è lievemente in salita.
C’è un fischio. Avanti a loro, oltre la prima trincea, esplode un proiettile, e uno spruzzo di terra scura si alza in aria. Un secondo. Un terzo. È sicuro che quello che spruzza in aria al quarto fischio non sia una zolla di terra, ma le gambe di qualcuno.
Vincenzo sente il cuore battere fin nelle orecchie.
Sorpassano la prima trincea.
Si trova di fronte un campo, e non è grano maturo, né erba verde di aprile, ma è un campo di buche, dissestato, rivoltato da granate e corse come farebbe un aratro con i solchi da semina.
Vede un uomo piantato sul più vicino filo spinato, avvolto a cerchio sopra dei cavalletti.
C’è una mitragliatrice che si nota oltre la trincea austriaca. Spara a ripetizione e falcia la primissima fila di soldati. Dei proiettili volanti sibilano più indietro e colpiscono più indietro.
Vincenzo crede di aver smesso di prendere il respiro. Sta correndo e pensa che, alla prossima raffica, sarà nel tiro. Alla prossima prenderà lui. Sta ripetendo delle imprecazioni dall’inizio di quel minuto.
Non succede.
Accade che Vincenzo vede un braccio sporgersi dalla difesa austriaca e lanciare qualcosa. Non si chiede che sia, ma va dritto sulla sua testa. Urla, con tutto il fiato che ha, di terrore, vira verso destra. Solo che è così occupato a guardare quella cosa che cade su di lui da non vedere cosa c’è in terra.
Inciampa. Cade addosso a chi aveva a destra, che forse è ancora Lucio, forse non lo è più, rotola con tutto lo slancio della corsa e ruzzola nella terra infangata da notti precedenti di pioggerella, fin dentro una buca.
La granata cade e le viscere che saltano sono quelle del cadavere su cui è inciampato.
Vincenzo alza la faccia e sputa terriccio.
Non è più con lui neppure quello su cui è piombato, ma mentre lui è sdraiato, nascosto in quel mezzo metro di profondità, altri soldati lo superano e avanzano. Fa per alzarsi ma vede, invece che colui che ha urtato, un libro buttato nella mota, due metri più in là. Prova a deglutire, ma non ha saliva, così alla fine si limita a raggiungere quella cosa estranea carponi.
È davvero Dante Alighieri. Sfoglia in fretta le pagine con le mani sporche e trova il fiore di lavanda.
Prima di alzarsi con un altro urlo che gli dia coraggio, Vincenzo si infila il libro nella giacca.
Appena in piedi, si accorge che la battaglia è mutata.
Gli austriaci, raggiunti nella trincea, hanno cominciato a uscirne fuori e a ingaggiare dei corpo a corpo e  Vincenzo non ha tempo, non c’è tempo, per nulla, neanche per accorgersi di morire, tant’è che un nemico gli è di fronte.
C’è un singolo istante in cui Vincenzo rimane immobile, a fissare l’austriaco nelle palle dilatate degli occhi, e gli balena di fronte lo sguardo del giovane prigioniero nella piazza di paese. Non sapeva, in quel momento, perché il suo sguardo non brillasse di odio, fosse così fisso; adesso lo sa, perché sa anche che cosa quel ragazzo avesse visto.
Vincenzo ringhia e butta fuori dai polmoni un urlo rauco nel momento in cui è il primo dei due a piantare la baionetta nel corpo dell’altro. L’austriaco gorgoglia dalla bocca e si accascia. Il morto infilzato, lì in piedi, sussulta alcune volte: gli salva la vita, prendendo nella schiena due proiettili che altrimenti erano per lui.
Allora sfila la baionetta e gli si apre alla vista il resto della battaglia.
In una pozzanghera color rosso sporco c’è un moncherino di mano.
Vincenzo salta il filo spinato e si rimette a correre.
Il Regio Esercito riesce ad arrivare alla trincea austriaca di seconda linea, ma non alla terza linea: per allora si intromettono dei reggimenti tedeschi di retroguardia e loro devono indietreggiare.
A metà del pomeriggio ognuno è alle posizioni che occupava rispettivamente alla mattina e nessuno ha guadagnato nulla.

Nella trincea di seconda linea, per la maggior parte sono tutti appoggiati al muretto o alla terra, alcuni in piedi, volti sporchi di terra, di polvere, certi di sangue, alcuni hanno perso l’elmetto. Altri hanno perso la vita.
Vincenzo ha visto Armando seduto su una cassa, con la faccia nascosta dalle mani, la schiena magra che sussultava. « Voglio tornarmene a hasa mia. Cazzo! » Quando ha notato a propria volta la presenza di Vincenzo, si è asciugato gli occhi con le dita sporche e ha balbettato. « Oh, Dio, Dio. Non trovo Mauro, un l’ho visto. L’hai visto? Vincenzo? »
Vincenzo si è sentito mancare il respiro per un momento, stringendo nella sinistra il fucile e nella destra Dante Alighieri. « No » ha risposto, ansimando. « Io… no, non lo so, non l’ho visto. Scusa. Scusami, Armando. »
Si è allontanato.
Cammina nella trincea, vede corpi spezzati, e non per via della fatica del lavoro di braccia. Cerca dei capelli scuri, una nuca rasata, scarta i troppo tozzi, i troppo alti, i profili che non riconosce, frenetico, mentre si inumidisce le labbra secche. Una nuvola bianca ha coperto il sole.
Afferra a caso la spalla della prima sagoma familiare e la volta.
Ed è Lucio.
Vincenzo boccheggia qualche secondo perché non credeva di trovarlo così in fretta, non credeva davvero che fosse lui. Anche Lucio apre la bocca e tace; ha un taglio sulla fronte che ha colato sangue già seccato su tutta la guancia, fino alla mandibola, e fruga Vincenzo con gli occhi, sconcertato.
Vincenzo, finalmente, riesce ad ingoiare la saliva. Allunga al compagno il suo libro.
Lucio lo prende, così sporco di terra com’è, e lo fissa.
«Il fiore c’è »lo informa Vincenzo, sentendosi una voce più rauca di quanto l’abbia mai avuta.
Lucio accascia appena le spalle, le rilassa, lo riesce a sentire sotto la presa che non ha ancora lasciato. Gli mormora: «Grazie. »

Vincenzo fissa il cielo. È seduto con la schiena contro ai sassi che compongono una trincea e al suo fianco dorme, raggomitolato, Lucio.
Osserva la volta blu, le stelle che somigliano un po’ allo zucchero; una colonna di fumo verso est sale oltre la linea del fronte, del fumo nero che viene spazzato e inclinato da un venticello e così si disperde, come fa quello delle sterpaglie, delle foglie secche e dell’erba tagliata quando vengono ammassate e bruciate.
Tra una costellazione e l’altra che cerca, gli torna davanti l’immagine dell’austriaco che ha infilzato sulla baionetta e il corpo che sussulta. E poi di nuovo la brezza fresca, che lo fa rabbrividire, che porta giù dalle Alpi l’ultimo freddo. È una bella notte, e lui pensa a Mauro, che non si è trovato da nessuna parte, e che forse è sdraiato là sulla terra di nessuno tra le due trincee opposte, con le sue fette di formaggio.
Lucio, lì di lato, si muove. È sveglio.
Vincenzo lo guarda di sbieco e ne incontra uno sguardo circospetto, tagliente. Un’occhiata davanti a cui preferisce tacere e alzare gli occhi verso una nuvola abbastanza simile alla lana di una pecora scura.
Lucio, però, interrompe il silenzio con un sibilo dal tono fermo: « Tu pensi che io sia solo capace a parlare. Che io faccia tanti discorsi che poi non si risolvono in nulla. »
Vincenzo aggrotta la fronte. Distoglie lo sguardo dalla pallida falce di luna e abbassa gli occhi sul compagno. « No, io penso che hai paura. » Come anche lui; se gli dicessero adesso di alzarsi in piedi e prendere il fucile forse le gambe non gli ubbidirebbero, sarebbe più difficile che alzarsi alle quattro del mattino per essere a lavorare presto anche quando sei andato a dormire a l’una.
« Pensi che io sia un vigliacco. »
« No. Che hai paura. È diverso, il resto te lo sei detto da solo. »
Lucio inspira forte il fiato e stringe le labbra come un bambino che giura di restare muto, azzittendosi qualche minuto. Ma si agita, non dorme.
Vincenzo avverte un certo disagio, il desiderio di alzarsi e camminare, magari pisciare fuori dalla trincea. Invece fa un gesto secco con la mano. « Non è che devi non avere paura per forza, solo perché ci credi per davvero. »
Lucio tace ancora. Passa qualche momento di immobilità. Poi attacca a parlare, a bassa voce e così veloce che le sillabe un po’ si intrecciano, nervose. Vincenzo, a osservarlo di traverso, crede di vedergli nelle spalle un certo tremore.
« Mio padre è un fornaio » dice. « E mi paga gli studi, però non è che guadagnasse abbastanza da pagarmi anche una promozione, quindi sono finito qui soldato semplice. Ma non importa, mi sono detto, è lo stesso, perché volevo comunque entrare nell’esercito, e fare carriera, volevo una bandiera da sventolare in cima alle Alpi e guardare l’Impero che si ritira, e fare un discorso alle truppe, graduarmi ancora giovane. Gloria e patria, capisci? No, certo che no, figurati se capisci. Però sono arrivato qui e comincio a credere che le insegne da generale non le metterò affatto, mai nella mia vita. Non è quello che mi aspettavo. Però ora il fronte l’ho visto e non è che io parli ancora solo di teoria, continuo a credere che dobbiamo guardarli in faccia, gli invasori, e senza averne paura. Ma è diverso, non c’è niente di poetico. La guerra è più bella, se è poetica, ha un senso, è eroica, è coraggiosa. Solo che non mi tiro certo indietro perché nella pratica è tutta un’altra cosa. Non ti provare a darmi del vigliacco se adesso… »
« Sì. Va bene. »
Lucio contrae tutta la faccia, ancora un po’ sporcata dal sangue secco del suo taglio. « Non hai capito di nuovo nulla? »
Vincenzo pensa che dovrebbe offendersi per il modo in cui il letterato crede per principio che non capisca niente. Ma non si offende, perché non puoi sentirti insultato da qualcuno che è così spaventato da provare a discolparsi, e che lo sia ormai gli è chiaro quanto le costellazioni primaverili. Accenna un sorriso, stanco. « Vedi che ho capito. Voglio dire che non c’è bisogno che la insisti a giustificarti. Non ti sto a accusare. »
Lucio tace e Vincenzo non lo obbliga a rispondergli. Alza ancora gli occhi, il fumo si è espanso e diradato. Si struscia le braccia con le mani per cacciare i brividi in corpo. In inverno, con quel tessuto miserevole, sarà una tortura. « Non te la prendere più quando voglio tornare a casa, da mio padre e nel mio campo » aggiunge, mormorando.
Ancora silenzio.
Vincenzo si schiarisce la voce tossicchiando. « L’hai visto Mauro, da qualche parte? »
« No. Mi dispiace. »

Ci sono due settimane che sembrano quasi di tregua. Il reggimento del caporale torna più volte al paese abbandonato, facendosi dare il cambio nel controllare la trincea.
È all’inizio di maggio, quando le giornate si fanno sempre più belle e più calde, e invitano alle passeggiate sui sentieri, ricordano sabati di festa e domeniche tranquille, che il caporale comunica loro qual è il piano d’azione.
Vincenzo ascolta in piedi nella piazza davanti alla chiesa, affiancato da Armando e Lucio. Il primo, alle volte, è stato isterico con quella sua manfrina di non voler più mettere mano a un fucile, il secondo è stato più calmo, più silenzioso. Gli ha confidato, una notte mentre gli dormiva a fianco come ha preso abitudine a fare, che non crede che la tranquillità durerà ancora; che le divisioni e le armate si muovono, e sarebbe anche l’ora che facessero qualcosa di concreto.
E l’ora arriva.
Il sole in cielo è pallido, da un tetto all’altro volano delle rondinine nere, non si avvicinano a terra, il che vuol dire che rimarrà bel tempo.
Prima fase, urla il caporale dal sagrato, inizieranno un bombardamento generale e prolungato su tutte le linee austriache; i bastardi non avranno modo di farsi dare ricambi dalle riserve attraverso il fronte carsico, dice.
Seconda fase, il Comando della Zona di Gorizia, di cui loro fanno tutti parte, assalterà la zona montuosa che strapiomba sull’Isonzo, e loro in particolare si occuperanno delle colline vicino a Gorizia. Li coprirà un diversivo sull’ala sinistra del fronte.
Terza fase, non li riguarda, sarà la Terza Armata ad attaccare nella zona di Castagnevizza, e aggiunge che loro non hanno da preoccuparsene e si preoccupino invece di riuscire nella loro parte dell’offensiva.
L’alba del dodici maggio colora la terra di un chiarore rosato, un’alba di quelle che raramente si vedono anche nella campagna fiorita di Fiesole, che definisce con il bagliore i contorni delle nuvole bianche e delle montagne. Tutto sulla terra è ancora colorato di grigio ed è sotto quell’alba che Vincenzo cala i piedi nella trincea e passa i proiettili per i mortai. Le bombe cominciano a cadere sulle linee avversarie. La terra che sollevano brilla in controluce, i colpi risuonano per chilometri, riescono a sentire l’eco di quelli lanciati su tutto il fronte.
Due giorni dopo, a mezzodì con i raggi che gli picchiano sull’elmetto e sulla nuca, Vincenzo corre su per il pendio di un colle nella zona di Gorizia. Di fianco ha casualmente il caporale.
Corre e si sente euforico, anche sotto il tiro austro-ungarico, non sente la fatica nelle cosce e nei polpacci che spingono per non perdere terreno. I mortai colpiscono con esplosioni la cima della collina, impediscono agli austriaci di usare con continuità le mitragliette.
Iniziano a ritirarsi, li stanno stanando.
Vincenzo si ferma e spara un colpo di fucile contro una di quelle schiene, qualcuno gli urla di muoversi, allora riprende a correre.
Prova di nuovo la sensazione delle orecchie che pulsano, per il sangue pompato troppo in fretta. Supera la china tra i primi soldati e lì, senza che lo immaginasse, c’è del filo spinato arrotolato a spirali. A tratti, solo pochi passaggi sono lasciati liberi per permettere la ritirata dalle posizioni, o altrimenti dove le granate hanno sventrato la terra e l’erba rada.
Vincenzo trattiene il fiato, prova a saltare, ma in discesa e con lo slancio della corsa le gambe non gli obbediscono. E pensare che ha saltato tanti di quei fossi, da adolescente, correndo da un campo all’adiacente con un bottino di mele e ciliegie rubate.
Lui e il caporale inciampano nel filo. Vincenzo stringe i denti, urla un «Cazzo! »senza quasi fiato, mentre le punte metalliche lacerano la pessima stoffa di stivali e calzoni, penetrano nella pelle, la graffiano e la strappano.
Rotolano giù per l’altro lato della collinetta, non sa quanti metri; Vincenzo si rannicchia a uovo, urta il proprio stesso fucile, si trascina dietro il rotolo di filo spinato attaccato alla caviglia e alle cosce. Sfrega i denti, le punte piantate nella carne bruciano.
Quando si ferma nel ruzzolone, geme e impreca sottovoce.  « Maremma… »
Sposta lo sguardo sulle proprie gambe, altri soldati lo superano, e quello che vede lo spaventa: i pantaloni sono stracciati a brandelli dove il filo spinato si è attorcigliato, tagliando la pelle come un grosso felino che ci pianti le unghie e ce le arroti. Sanguina già.
Si gira verso il caporale. Lì, risucchia il fiato col naso. L’uomo ha urlato, ma credeva di trovarlo vivo, e invece è completamente avvolto nel filo, che si è legato a lui ruzzolando, e adesso sembra una palla avvolta nel metallo e sanguinante. Neanche il viso gli è stato risparmiato. Forse si è trafitto con la propria baionetta, cadendo.
« Vincenzo! » sente urlare. Si volta, ansimando. È Armando che corre in discesa. Da lontano, mortai austriaci cominciano a tenere sotto al tiro il fianco della collina. « ‘Stihazzi, Vincenzo! Sei vivo? »
Dietro ad Armando corre Lucio, baionetta alla mano. Ha il viso sudato, sposta gli occhi febbrili dai loro che corrono verso il posizionamento austriaco e la successiva trincea, a lui.
« Sì » soffia Vincenzo. Poi lo ripete a voce più alta. « Merda, sì, sono vivo! »
Lucio e Armando gli si fermano al fianco. Il secondo si china e fissa il filo spinato, con gli occhi sgranati come piattini. « Dio bono » impreca.
Altri compagni corrono giù per la collina mentre Vincenzo prova a spostare una gamba e alzarsi, azione che finisce solo in un gemito di dolore per le punte che si piantano più a fondo e tirano di più.
« Muovetevi! » urla loro qualcuno. È il livornese, che corre giù dal pendio. « Qui ora aggiustano il tiro, ci buttano le bombe! »
Vincenzo chiude gli occhi, li alza al cielo azzurro, li riapre. Inspira ed espira, fa per arrendersi a sbrogliarsi come può, anche tagliandosi di più visto che di tronchesi non ne hanno, ma non gli occorre arrivare a tanto.
Lucio caccia le mani in mezzo al filo spinato e si aiuta con la baionetta, la sua e quella di Armando, che lo aiuta.
Quando riesce a liberarlo, esplode il primo colpo sulla cima della collina, dove ancora si trovavano puntate le mitragliatrici austriache dietro a sacchi di sabbia.
Lucio lo sorregge sotto un’ascella, aiutandolo a correre con le gambe doloranti e insanguinate, i pantaloni a brani, e adesso anche le sue mani e gli avambracci sono rosse di tagli.

Sono dentro la trincea austriaca. La sera è calata portandosi dietro la brina e occasionali spari di mitragliatrice, che scoppiettano come petardi da festa. Hanno tutti bisogno di riposo, prima di insistere nell’avanzata, e Vincenzo non è da meno.
È fortunato, si ripete, fortunato ad essersi ferito solo le gambe, e superficialmente, tanto che può ancora camminare; se la ferita fosse stata più grave l’avrebbero mandato a casa, ma non avrebbe camminato più, forse avrebbe zoppicato per il resto della vita, e lavorare nel campo, arare, seminare, mietere, sarebbe stato due volte faticoso.
È sdraiato con altri quattro feriti in un rifugio scavato nella terra, terra calda, densa, ha già perso il gelo che d’inverno la indurisce. È un bel maggio, come è stato un bell’aprile.
Il telo sotto di lui non gli ripara la schiena da sassi e bozzoli di terra.
Armando, con la faccia pallida e più magra di come era all’inizio del viaggio, gli fissa le gambe, fasciate con bende bianche e coperte adesso da un nuovo paio di calzoni, di stoffa migliore, che tra l’altro non è di una divisa italiana ma austriaca. Li deve aver tolti a un cadavere. Vedere che i nemici sono vestiti meglio di loro non alza certo il già pessimo morale, che però sta un po’ migliorando dal momento in cui notano che l’avanzata procede.
«Certo, Vincenzo, se quel filo era rugginoso, se ti si infetta la ferita, l’è un po’ un problema. Ti pigli il tetano. »
Vincenzo inspira, butta indietro la testa. «Lo so. Non serve che me lo stai a ricordare. »
All’entrata del rifugio con il soffitto sorretto da una travatura rustica compare Lucio, ha il viso e la camicia bagnati di sudore; si appoggia a uno stipite scheggiato e fa un cenno ad Armando. « Cercano uomini, vai a dare il cambio. » Non specifica per cosa, lo farà il tenente del Comando.
Quella faccia così sudata gli ricorda il caporale e la misera fine che ha fatto sulla collina verde, e rabbrividisce, se pensa che era tanto vicino a farla anche lui: sarebbe bastato che i loro posti fossero invertiti.
Lucio gli si avvicina e si accascia al suo fianco, a terra, dove un attimo prima stava Armando; anche le sue mani sono fasciate, e sul palmo la benda è già macchiata di rosso.
Vincenzo si permette qualche momento di religioso silenzio e Lucio non lo costringe affatto a dire qualcosa.
Crede che sia lì, in mezzo alle trincee, alle granate e alle spirali di filo spinato, che si veda davvero di cosa sono fatti gli uomini, i tuoi compagni. Vincenzo si è fidato sempre con moderazione delle persone, ma lì dove sono sei costretto a fidarti per forza di chi ti guarda le spalle. E lì ti poni il problema con più forza, perché un soldato che scappa è uno che ti mette in pericolo la vita.
Così ci sono quelli che si fermano sotto il tiro dei mortai, mettono le mani tra le punte di ferro e ti aiutano tenendoti sotto un’ascella, e ti salvano. Non tutti lo farebbero.
Èper questo che non ringrazia Lucio, né dice alcunché: un ringraziamento va alla ragazza che ti regala un mazzolino di margherite e violette di campo, al panettiere che ti tiene in caldo il pane. Adesso invece gli sembra fuori luogo e superfluo.
Lo è, fuori luogo e superfluo, e Lucio evidentemente lo condivide, perché sta zitto, chiude gli occhi, non sembra neanche a disagio dal silenzio prolungato. Altri due dei feriti russano, un terzo mugola, l’ultimo è a propria volta silenzioso, con un braccio steccato.
Vincenzo allunga una mano fino a quelle fasciate di Lucio e, circospetto, gliene prende una e la gira col palmo verso l’alto; il compagno apre gli occhi, ma asseconda il movimento, domandando solo con un’occhiata di sbieco.
Non si arrischia a sfiorargli i graffi al di sotto della benda sporca, tocca piano col pollice solo vicino al polso.
« Non te la imbrattare di terra, però » mormora Vincenzo, alzando lo sguardo.
Lucio è cupo, o forse è solo il volto in ombra che gli incava un po’ gli occhi scuri. Il segno del taglio che aveva sulla fronte spicca vicino a un sopracciglio. « Non è sangue, è tintura di iodio. »
Il disinfettante rosso scuro che brucia come Dio solo sa cosa. Deve aver bestemmiato, mentre glielo versavano sulle gambe.
« Non l’imbrattare lo stesso. » Vincenzo gli lascia lentamente la mano, che gli pareva fin troppo fredda, e si appoggia il braccio sulla pancia.
Lucio tira fuori il suo libro, con i bordi delle pagine sporchi di terra da quando gli è caduto in quella fossa di granata, sposta delicatamente il fiore secco alla prima pagina e approfitta di quella pausa per leggere.
Vincenzo gli chiederebbe di abbassarlo e far leggere anche a lui qualcosa, ma in ogni caso non ne capirebbe quasi nulla. Allora pensa che potrebbe domandargli di leggere ad alta voce ma, riguardo a quello, inspira fino a gonfiare il petto e non osa.


 

Ma se un dì venisse un grido
Dei fratelli non redenti,
Alla morte, sorridenti,
Il nemico ci vedrà.



Gli austriaci contrattaccano due giorni dopo alle tre del mattino. Vincenzo è già fuori dal rifugio e le gambe tirano e spesso bruciano, ma può camminare e può sparare, il che gli nega ogni possibilità di restare al riparo.
Il fatto è, neppure ci rimarrebbe. Èvero, vuole tornare al suo campo, ma nascondersi senza davvero averne bisogno gli fa provare vergogna, come ne proverebbe se rubasse le offerte alla messa della domenica.
Ha piovigginato, in mezzo alla trincea c’è un canale di acqua fangosa, in cui gli stivali si inzuppano, smossa di continuo dai soldati che si spostano.
Vincenzo è schiacciato contro il muro a secco della trincea, un qualcosa gli preme contro la schiena. Alla mitragliatrice, rubata agli austriaci, c’è uno del loro reggimento, pelato e tarchiato.
« Passami un altro nastro, un altro nastro! »
Lucio, che è lì di fianco, glielo passa. Gli scoppietti della mitragliatrice sul treppiede fanno sussultare Vincenzo. Il nastro dei proiettili si accorcia, si accorcia...
Gli austriaci urlano per darsi forza mentre si avvicinano.
Il soldato alla mitragliatrice smette di sparare all’improvviso. « Merda! Spostatevi! Granata! Gra – »
Vincenzo sgrana gli occhi, si butta di lato nella fanghiglia, ma mentre lo fa guarda alla propria destra: non vede quel che vuole vedere, vede soltanto la bomba che cade.
L’acqua sporca gli tappa il respiro.
Lo scoppio.
Le schegge, le schegge!
Non lo colpisce nessuna e, quando alza la testa, con le orecchie rintronate, si accorge che è il mitragliere a essersi preso in corpo i pezzi della granata.
E Lucio?
Vincenzo poggia le mani nel canale di melma e si solleva, inzuppato dall’acqua tiepida, in cui scorrono già rivoli rossi. Una figura nera precipita nella trincea e, dalla divisa e dall’elmetto, si vede che è austriaco. Qualcuno urla, grida si sovrappongono, scoppi di mitragliatrice e di mortaio.
Vincenzo trattiene il fiato, incrocia gli occhi di quell’uomo: sono di un azzurro spaventoso. La punta di una baionetta gli sbuca all’improvviso dal petto e questo abbassa lo sguardo e la fissa qualche attimo, prima di perdere la messa a fuoco nelle pupille e di cadere nella mota.
Dall’altra parte c’è Lucio, anche lui inzuppato di fango. Il viso è una maschera marrone e terrosa, spicca il bianco degli occhi e dei denti digrignati.
Vincenzo prova uno scatto di sollievo, di gioia, un trasporto intenso. Un fremito di gratitudine e fatica che lo spinge verso il compagno: gli prende il viso tra le mani e gli bacia la bocca, scioccato dal vederlo integro, scioccato dagli occhi azzurri dell’austriaco per terra, commosso dal vedersi vivi.
La bocca di Lucio sa di fango.
Vincenzo si sente afferrare la giacca e strattonare indietro.
Allora sbatte le palpebre, ansima e ricambia l’occhiata dilatata di Lucio: il compagno deglutisce, apre e chiude le labbra. Quindi stringe la baionetta e di scatto si volta verso la mitragliatrice.

Vincenzo sente le gambe dolere, la stoffa dei pantaloni si è appiccicata alle bende. Prega Dio che non si infettino. Sono le sette del mattino, ha le palpebre pesanti, i piedi ancora a mollo, nonostante il terreno piuttosto asciutto del rifugio.
Il mattino rischiara la striscia di cielo che riesce a vedere da dove si trova, la sfuma in colori pallidi e freschi.
Sono due le immagini che compaiono dietro le sue palpebre: gli occhi brillanti dell’austriaco infilzato, i denti bianchi di Lucio, le sue labbra fangose. All’improvviso, pensa al profumo dei tigli portato dal venticello, che ne muove le fronde ai limiti del suo campo di grano. Quel profumo sostituisce, per qualche momento, la puzza di fumo e di terra umida, di acqua sporca, di sangue rappreso; alti alberi che hanno riempito di foglie verdi i rami secchi, frusciano al vento. Il grano, quell’anno, sarebbe stato davvero ottimo.
Qualcuno gli si butta al fianco e si siede contro la parete del rifugio. ÈLucio.
« Armando ha perso una gamba » gli annuncia, quasi atono. « Lo hanno portato via in barella. »
Vincenzo trattiene il respiro. « La destra o la sinistra? »
« Non ne ho idea. »
Stanno in silenzio e, in quel caso, è un silenzio pesante, nervoso. Vincenzo stringe forte la mano al proprio fucile.
Lucio non guarda dalla sua parte; aggrotta la fronte e aggiunge, a voce più bassa: « Che diavolo ti è passato per la testa? »
Vincenzo deglutisce. « Non lo so. »
Non lo sa davvero. Èstato un impulso talmente impellente... Si sarebbe meritato un colpo del calcio del fucile dritto in faccia. Si sente le orecchie infiammate ma ancora non se ne pente.
Passa qualche altro momento di silenzio. Vincenzo credeva, in realtà, che Lucio si sarebbe legittimamente arrabbiato, che non gli sarebbe tornato vicino; lo immaginava con un’infervorata espressione di disgusto.
Invece Lucio è al suo fianco, i gomiti si toccano; passato forse un minuto, mormora: « Non lo rifare. »
Vincenzo annuisce solamente.

Hanno tenuto la trincea. Tornano all’attacco.
Vincenzo serra la mano attorno al fucile. Guarda alla propria sinistra, verso Lucio, che ha la fronte corrugata e sporca; il taglio che si era fatto sulla fronte è una striscia rossiccia.
Un fischio gli stride nell’orecchio: è l’ordine di attacco. Inspira e si gonfia il petto.
Lui e tutti gli uomini cacciano fuori dai polmoni un urlo, un incoraggiamento, che li renda euforici, mentre scavalcano il bordo della trincea e si buttano, ancora, nella terra di nessuno.
Il terreno è a dossi e buche, ci sono spirali di filo spinato, dalla trincea austro-ungarica sbucano le mitragliatrici dalle feritoie. Vincenzo corre e l’aria tiepida gli carezza le guance mentre ha lo sguardo puntato su uno di quei buchi neri, da cui i proiettili partono e fischiano nell’aria.
Qualcuno cade, con le braccia allargate sul terreno, a croce, una mano ancora stretta sulla baionetta.
Hanno fatto pochi metri, eppure le gambe dolgono già. Fatica.
Vincenzo crede di fluttuare a ogni passo.
La mitragliatrice è proprio davanti a loro, i colpi esplodono. Un colpo di mortaio rimbomba e sparge la terra come se fosse un’eruzione di vulcano.
L’uomo di fronte a lui sobbalza più volte e cade a faccia in giù.
Vincenzo sgrana gli occhi e si butta a terra, contro il lato di una buca che una granata ha spianato. Cade al suo fianco anche Lucio, che stringe i denti e gonfia le guance arrossate, prendendo profondi respiri.
A Vincenzo sembra che il filo spinato sia ancora piantato nelle sue gambe, per quanto dolgono. Ha caldo, la fronte gli pulsa.
« Tra una raffica e l’altra ci si alza » dichiara Lucio. Imbraccia meglio il suo fucile e tira fuori una granata, senza però ancora sganciarla.
Vincenzo annuisce.
Colpi ritmati si piantano nella terra con qualche sbuffo di polvere. Soldati che cadono. I colpi smettono.
Alzarsi!
Lucio si tira su per primo, Vincenzo appoggia una mano a terra e si aiuta con quella, incapace di usare la sola spinta di gambe, per via dei tagli. Staranno di nuovo sanguinando.
Quando è quasi in piedi, Lucio gli cade di nuovo addosso. Vincenzo sgrana gli occhi, rimane senza respiro per un momento, precipita di nuovo giù.
« Dio... Lucio? Lucio! »
« Sono vivo. Ci sono. » Ma rantola.
Vincenzo avverte la conosciuta sensazione del sangue che palpita sulle tempie e nelle orecchie, tanto forte che non riesce a tirare il fiato; Lucio gli è appoggiato sul petto, ha lasciato il fucile, e alla spalla destra ha un buco e una macchia di sangue.
Vincenzo non respira. « Merda » soffia. Allunga la mano, per toccarlo, ma la ritira: non sa cosa fare, come sistemarlo. La divisa si sta sporcando di un rosso scuro, liquido. « Ti devo riportare in trincea, devi farti fasciare, ti porto al rifugio. »
« Stai giù, idiota » ringhia Lucio, premendogli la schiena addosso.
Vincenzo boccheggia, alza gli occhi oltre l’orlo della buca in cui sono sdraiati. Afferra il proprio elmetto e lo solleva: un colpo glielo fa volare di mano. Significa che sparano raso terra e probabilmente l’attacco frontale si è bloccato.
Abbassa lo sguardo su Lucio e con un braccio gli stringe il petto, mentre una mano la preme sulla ferita; si inzuppa subito e la macchia si allargata. « Devi fartela chiudere » soffia.
Lucio respira tra i denti.
Vincenzo ha paura. Non ha a che fare con la paura dell’attesa dentro alla trincea, con la paura dei minuti prima di un attacco, il terrore esaltato di correre incontro ai proiettili. Èla paura di aver visto Lucio che si alzava, in salute, più energico di lui, e che l’attimo dopo viene colpito, senza preavviso.
Ciò che ha provato nel veder infilzato l’austriaco di fronte ai suoi occhi, oppure nel vedere il caporale che si impiglia nel filo spinato. Un attimo prima c’è la vita e subito dopo non c’è più.
La macchia di sangue si espande, Lucio trema e anche Vincenzo si sente tremare la mano. Rivoli rossi gli impiastrano le dita. Gli appoggia il naso tra i capelli sporchi.
« Lucio? »
« Sì. »
Non sa che altro chiedergli. Stava correndo, un attimo prima.
Il cielo è incredibilmente azzurro. Chiaro, pulito, una distesa di un celeste intenso, senza nuvole, senza sole che abbagli. In alto vola un qualche uccello. Fissano entrambi il cielo e nel campo visivo spesso vola qualche proiettile, come una scia improvvisa.
A un angolo di quella buca di granata c’è ancora qualche ciuffo d’erba; Vincenzo non ha idea di come siano sopravvissuti quei fili verdi, tra cui riesce a distinguere, addirittura, dei minuscoli fiorellini bianchi. Erba e fiori nel mezzo di un terreno di guerra.
« Lucio? »
Non gli risponde.
Vincenzo freme, abbassa gli occhi: anche quelli di Lucio sono aperti.
Li volta verso di lui, ma non dice nulla. L’importante è che li volti. Lucio alza piano una mano e la appoggia sopra la sua, che tiene premuta alla ferita. La giubba si sta inzuppando, il sangue cola e toglie colore al suo viso, impallidito sotto alla patina di terra e fumo che lo sporca.
Èvero che il compagno gli ha detto di non farlo più, ma Vincenzo lo ignora: lo bacia, sulla bocca secca, corrugando la fronte e premendo come farebbe un assetato attaccandosi a una borraccia d’acqua. Si sente gli occhi pizzicare.
Lucio non si sposta, serra la presa alla sua mano.
Vincenzo lascia andare un respiro, trema mentre gli appoggia una guancia ai capelli.
Fermatevi!, vorrebbe urlare. Vorrebbe alzarsi in piedi, come se non ci fossero raffiche di colpi che si scambiano le due trincee, e alzandosi vorrebbe urlare. Fermatevi, c’è un uomo che si sta dissanguando! Non lo vedete? Non vedete che deve essere curato e fasciato e salvato?
Vorrebbe farlo, come se niente fosse, perché è assurdo che continuino a sparare. Èridicolo! Quel singolo uomo è più importante di una trincea da prendere.
Il grido che preme contro la gola chiusa gli fa contrarre tutto il corpo.
Gli diano il tempo di portarlo indietro in spalla e poi riprendano, che cosa importa a lui delle colline di Gorizia, dell’Austria-Ungheria?
Sfrega i denti.
« Vincenzo...? »
« Sì? Sì, sto qui. »
Si accorge che Lucio gli sta allungando Dante Alighieri, che già si era sporcato di acqua fangosa, adesso l’angolo delle pagine è anche macchiato da un cerchio rosso.
Vincenzo esita prima di prenderlo.
« Portamelo a casa » soffia il compagno.
Vincenzo preme più forte la mano sulla ferita che sanguina, la comprime, come se così potesse trattenergli dentro la vita. I gradi di generale, non doveva mettere i gradi di generale? Una bandiera in cima alle Alpi? « No. » Deglutisce.
« Sì. Via Trieste, centro di Brescia, alla vecchia panetteria. Credo che troverai mia sorella. »
« Lucio. »
« Non perdere il fiore. »
Vincenzo si china ancora, strizza gli occhi, che pizzicano, e lo bacia di nuovo. Lo fa piano, lo fa stringendo Dante nella destra e la divisa inzuppata nella sinistra. E non può alzarsi per portarlo indietro.
Solleva lo sguardo verso il ciuffo d’erba.

Dopo un altro anno sul fronte dell’Isonzo e di Gorizia, nella primavera del 1918, una bomba esplode a due metri da Vincenzo. Viene mandato all’ospedale da campo senza che riesca a sentire una parola dall’orecchio destro.
Il dottore lo rassicura che entro una settimana o due tornerà tutto a posto ma quelle due settimane passano, lui vede dei passerotti sulle grondaie fuori dalla finestra, e non sente affatto il loro cinguettio: deve volgere l’orecchio sinistro. Un altro dottore, così, gli comunica la perforazione del timpano.
Sarà sordo dall’orecchio destro, per tutta la vita.
La guerra, per Vincenzo che aveva il grado di sottotenente, finisce allora.
Sulla via di casa, non crede di essere la stessa persona. Cose come i campi coltivati gli sembrano le immagini di un bel disegno, gli sono estranei. I movimenti improvvisi lo fanno voltare e, ogni tanto, gli capita di guardare a una collina riflettendo se sarebbe facile conquistarla e dove sarebbe il caso di posizionare le mitragliatrici su treppiedi.
Fiesole adorata, è come ricordare un’altra vita.
Prende un treno e non va subito in Toscana. Va a Brescia, prima. Una città che non ha mai visto, ma dove ha una memoria che gli resta da onorare. Si sente spiccare così tanto, in mezzo alle facciate, lui che è stato soldato e ancora prima è stato contadino. Le persone, comunque, non sono meno emaciate di quelle che ricordi di aver visto prima.
Via Trieste, vecchia panetteria. Ogni volta che abbia provato a leggere Dante si è ripetuto quell’indirizzo.
Fa domande, la trova.
La porta ha un vetro appannato dalla polvere, il pane all’interno non profuma, forse è secco. Di là dal bancone c’è una ragazza: ha gli occhi azzurri e delle trecce bionde, le guance piene, forse Vincenzo una volta l’avrebbe trovata bella. Gli ricorda Lucio.
Per sentirla, gira il viso verso sinistra.
« Ti posso servire? » chiede lei.
Vincenzo scuote piano la testa e, da una tasca della sua giacca, tira fuori il libro. Usurato, sporco, ancora macchiato di rosso. « Scusami. Mi chiamo Vincenzo Pozzi. Sono venuto a portare questo, credo che sia qui il posto. »
Lei rimane ferma qualche momento, quindi, con un passo cauto, aggira il bancone e gli si ferma di fronte. La vede inspirare profondamente, sollevando il seno, mentre fissa il libro. Allunga le sue piccole mani callose e, con un tocco leggero, prende il libro. Lo apre come potrebbe fare con una Bibbia. Sfoglia le pagine che, con i mesi, si sono certe volte attaccate assieme.
Vincenzo sente la gola chiudersi quando lei sfoglia e, piano, trova il fiore secco di lavanda.
La ragazza deglutisce, fa un passo indietro e si appoggia al bancone, scivolando piano fino a sedersi a terra.
Lei sussulta, e forse piange, le sue spalle vibrano.
Vincenzo corruga le sopracciglia, contrae tutto il viso e non riesce a muovere un muscolo. « Mi dispiace » soffia. « Ero con lui. Era il maggio del diciassette. Mi dispiace. »
Le lacrime bagnano il fiore secco e i sussulti si accompagnano a singhiozzi.
Vincenzo, allora, si volta un poco e le rivolge l’orecchio destro. Non sente più nulla.


Giovinezza, giovinezza,
Primavera di bellezza,
Della vita, nell’asprezza
Il tuo canto squilla e va.



Lucio era stato portato prima nel rifugio della trincea, dalle braccia di Vincenzo, bianco come tutti i cadaveri. Un dottore gli si affannò intorno.
Venne caricato su un carro, assieme ad altri soldati, e trasportato fino al paese svuotato, che era stato base iniziale del reggimento.
Nel novembre del 1918, firmato l’armistizio, Lisa Musetti, sua sorella, lo vide entrare nella panetteria di via Trieste a Brescia.
La ragazza urlò. Lo abbracciò forte, pianse, gli scivolò ai piedi, gli strinse le ginocchia. Sapevo che eri morto, gli disse.
E lui le spiegò che si salvò in un ospedale diroccato, in cui attesero che si rimettesse. C’era andato vicino, le disse, forse era più di là che di qua. Dissanguamento. Le disse che venne poi mandato sul fronte carsico e le chiese, abbracciandola, baciandole le guance, chi le aveva portato la notizia della sua morte.
Lisa gli consegnò Dante Alighieri e disse che lo aveva portato un soldato, congedato dal fronte.
Lucio trattenne il respiro. Lo sfogliò lentamente: pagine sporche, pagine macchiate del suo stesso sangue, alcune incollate e illeggibili. In certune, sopra a certe frasi o parole, c’era scritto in grafia incerta e stampatello un sinonimo più semplice o una parafrasi in italiano corrente.
Lucio lo sfogliò ancora.
Trovò il fiore di lavanda.










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Ho cercato di essere il più storicamente corretta possibile riguardo alle armi e alle tattiche di battaglia, i fatti prettamente storici nominati qui e lì sono tutti avvenuti. Ci sono alcuni dialettismi, ogni tanto, specialmente nei discorsi diretti, il tutto legato soprattutto all’ambiente toscano e fiorentino; ho anche cercato di rendere la pronuncia aspirata della c che si usa a Firenze con una h. Il titolo della one-shot è uguale a quello di un libro di Beppe Fenoglio, che però è ambientato nel periodo fascista, mentre le citazioni che spargo per il testo appartengono alla versione originale di “Giovinezza giovinezza”, testo della goliardia italiana scritto da Nino Oxilia e poi musicato da Giuseppe Blanc. Il ritornello del testo e il titolo vengono poi ripresi dall’inno fascista in tempi successivi, ma il contenuto dell’inno è diverso e stravolge/modifica la prima versione, che è del 1909. Il “Primavera di bellezza” di Fenoglio fa riferimento alla versione del fascismo, mentre io a quella precedente.

Grazie a Viola Deeryl, Chiara Babyjenks e Stefania per la lettura prima della pubblicazione. E a Maria Letizia per avermi fatto conoscere la canzone.

La storia sta partecipando a due contest, "Le quattro stagioni" e "Il miglior personaggio maschile", con risultati ancora da uscire.

Se mi fate sapere com'è vi amerò per sempre, ma vi amo anche se leggete e basta. **

Kupò.
   
 
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