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Autore: Trick    28/05/2013    12 recensioni
«Tu parli di un Lupo Mannaro che non esiste. E ogni volta che commetti quell'errore, Remus, dimentichi di non essere uno di loro. Dimentichi di non essere Fenrir Greyback. Dimentichi di non essere un mostro. E così facendo, dimentichi anche di essere un brav'uomo».
L'incarico che Silente propone a Remus reclama un prezzo troppo alto per un uomo, ma lui non è un uomo: lui è solo un Lupo Mannaro.
| Ambientata fra il quinto e il sesto libro |
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Silente, Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Note dell'autrice: Questa one-shot è scoppiata nel mio cervello come un grosso brufolo fastidioso. Capisco che dopo una simile metafora una persona normale sia tentata a non leggere niente di quanto seguirà, ma vi assicuro che questa fan fiction è assolutamente brufolo-free. Ora, giusto per non scrivere sempre note dell'autrice stupide, aggiungerò qualche dettaglio a caso in modo da apparire più intelligente e professionale.
  1. Mi sembra doveroso sottolineare che il titolo non è che una scopiazzatura feroce della frase pronunciata nella triste pellicola del Prigioniero di Azkaban da Sirius: «Tu sai che uomo sei veramente». Sì, beh, insomma... tutti i diritti vanno alla Warner Bros, a J.K. Rowling e a chi se li merita sul serio.
  2. Le battute pronunciate da James e Sirius sono naturalmente tratte da Harry Potter e l'Ordine della Fenice.
  3. Un grazie speciale a Emme, che mi ha dato un consiglio per niente stupido e alla quale verrà dedicata la Nc-17 tagliata da questa one-shot. Sei un tesoro, donna.



*
Tu sai che uomo sei veramente


In tutta la sua vita, Remus era entrato nell'ufficio di Silente solo in cinque occasioni ben distanti le une dalle altre, eppure non credeva di averne mai visto mutare l'aspetto nel corso degli anni. D'altronde nemmeno Silente era mai mutato, e quello era probabilmente l'unico motivo per il quale si trovava ancora dietro la propria scrivania a pizzicare caramelle e dolcetti con l'innocenza di un bambino, mentre il mondo al di là delle possenti mura di Hogwarts continuava a farsi e disfarsi.
L'aura di solenne saggezza del Preside era sempre stata una certezza inviolabile. Albus Silente era il più grande mago di tutti i tempi, era l'uomo più straordinario che Remus avesse mai avuto l'onore di conoscere, ed era lo stesso anziano con la lunga barba candida intento in quel momento a sgranocchiare Piperille.
Remus attese paziente sulla soglia. Sorrise con tiepido affetto nel vederlo sbattere un paio di volte le palpebre con una buffa smorfia e sbuffare una piccola nuvoletta di fumo verde dalla bocca.
«Oh, povero me...» ridacchiò divertito, mentre invitava Remus a entrare con un elegante cenno della mano. «Le Piperille di Mielandia diventano di anno in anno sempre più piccanti. Ne
gradisci una, Remus?».

«No, grazie».

«Continui a preferire i Cioccoli Giganti?».
«E con invereconda passione, signore».
Silente sghignazzò sotto i grossi baffi bianchi, si raddrizzò distratto gli occhiali e si alzò lentamente in piedi. A Remus non sfuggì l'impercettibile smorfia addolorata che contrasse il suo volto. «Ti chiederai per quale motivo ho richiesto tanto insistentemente la tua presenza qui, quest'oggi» iniziò a parlare Silente, misurando a blandi passi la larghezza dell'ufficio. «Nutro profondo rispetto per te, Remus, quindi spero mi perdonerai se preferirò non aggirarmi oltre attorno al motivo della nostra conversazione. Come ben sai, la nostra resistenza contro Lord Voldemort non sta producendo gli esiti sperati. Non che io avessi aspettative più rosee, in effetti, ma temo che la situazione stia precipitando in maniera inesorabile». Si interruppe per concedersi un lungo sospiro affranto. «Il Ministero non è ancora organizzato per contrastare il suo drammatico ritorno e non confido nelle capacità di Rufus Scrimgeour più di quanto non confidassi in quelle di Cornelius Caramell. Ombre scure si alzano dal fronte di Lord Voldemort e nuove alleanze allargano le sue schiere... mentre le nostre rimangono immobili a perdere tempo prezioso».
Remus assottigliò confuso le palpebre e inclinò lieve il capo.
«Nuove alleanze?».
Silente gli rivolse uno sguardo particolarmente grave. Quando parlò, la sua voce parve sibilare sulla testa di Remus come l'impietosa lama di una ghigliottina.
«Fenrir Greyback».
Fu come ricevere mille pugni alla bocca dello stomaco. Remus trasalì e sgranò gli occhi al suono di quel nome. Il suo piede destro indietreggiò istintivamente verso la porta, le dita tradirono un fremito spaventato. Nella sua mente esplose nuovamente il basso raspare delle zampe, l'immondo olezzo del fiato del Lupo Mannaro, le grida, il terrore e la preghiera di un bambino che scongiurava che tutto quel dolore potesse finalmente terminare. Sfiorò distrattamente la spalla destra, laddove le zanne di Fenrir Greyback erano affondate nella sua carne quasi trent'anni prima.
«Buon Dio...» mormorò debole.
«Non mi dilungherò in inutili spiegazioni su quanto l'avvicinamento di Greyback a Lord Voldemort sia pericoloso» riprese Silente. «Sarebbero parole vuote e noiose per le orecchie di entrambi».
«Cosa vuole che faccia?».
Il mago più anziano parve stupito della schiettezza della sua domanda. Rimase immobile nel centro del suo ufficio, con i penetranti occhi azzurri puntati con rammarico su di lui.
«Devi fermarlo».
Remus inarcò un sopracciglio. Nonostante l'ingrata situazione, l'angolo della sua bocca si arricciò in un sorriso sarcastico. Mostrò entrambi i palmi della mani e replicò blando:
«Temo di essere il Lupo Mannaro meno qualificato per una sfida all'ultimo sangue con una creatura come Fenrir Greyback. Le suggerisco qualcuno un poco più avvezzo agli artigli».
«Non lo sto chiedendo a un Lupo Mannaro. Lo sto chiedendo a te».
Silente gli volse le spalle prima che il suo tono gentile riuscisse ad attecchire nella mente di Remus. “Lo sto chiedendo a te”. Remus abbassò il capo e si umettò le labbra. Fermare Fenrir Greyback non era un compito che avrebbe potuto portare felicemente a termine. Greyback era la bestia più crudele e feroce che avesse mai insanguinato la Gran Bretagna – e i suoi ricordi e i suoi incubi erano altrettanti feroci e insanguinati. Era l'unico avversario che temeva di fronteggiare, l'unico mostro del proprio passato che non avrebbe mai potuto cancellare. Per orgoglio non l'avrebbe mai ammesso, ma Fenrir Greyback era quasi certamente la più agghiacciante delle sue paure.
Silente si diresse verso uno dei ripiani della libreria alla sinistra dell'ampia finestra che si apriva sul Lago Nero e prese una piccola scatola decorata con quattro teste di drago dagli occhi di giada.
«I proclami di Greyback stanno diventando sempre più incisivi e maggiore sta diventando il numero di reietti che le sue lusinghe portano dalla parte di Lord Voldemort. Bisogna interromperne l'ascesa al più presto: le conseguenze potrebbero essere insostenibili».
«E cosa potrei mai fare io?» chiese con veemenza Remus. «Infilarmi fra la gente dei bassifondi e redarguire ogni Lupo Mannaro su quanto sia scortese banchettare con carne umana?».
«Oh, certo che no. I rimproveri non erano la tua specialità nemmeno quando hai insegnato Difesa Contro le Arti Oscure... della cui cattedra, perdona la sfrontatezza, detieni ancora il primo posto come miglior insegnante» replicò amabile il Preside. Appoggiò la scatola sulla scrivania e aggiunse con voce più tetra: «Desidero essere quanto più franco possibile, Remus: non è mia intenzione costringerti a compiere questa missione. Sei un uomo accorto e puoi valutare da te i pericoli che dovrai affrontare».
«Ce ne è uno in particolare che vorrei sottolineare, signore: Fenrir Greyback mi conosce. Sa che lavoro per lei. Sa da che parte sto».
«Naturalmente. E se non vado errato, progetta di ucciderti da quasi vent'anni» commentò con naturalezza Silente. «Ma tu sei un uomo dal cuore infinitamente migliore di quanto lui non potrà mai vantare».
«Devo confessare di non essere preoccupato del suo cuore quanto delle sue zanne, signore».

Silente lo ignorò. Spalancò la finestra con un morbido movimento della bacchetta e si appoggiò al davanzale. I suo occhi scrutavano ogni angolo dei grandi prati, le alte porte del campo da Quidditch e poi oltre, fino ai contorni delle montagne scozzesi che abbracciavano la scuola. Remus tentò di pazientare ancora, ma continuava a spostare il peso da un piede all'altro e i palmi delle mani avevano iniziato a sudare.
Devo fermare Fenrir Greyback” ripeté fra sé. “E già che sono in azione, potrei perfino eliminare la fame nel mondo e trovare il rimedio al vaiolo di drago”.
«Mi rendo conto che non è il momento più indicato per assegnarti un incarico tanto delicato e complesso» parlò ancora Silente. «La morte di Sirius è--».
«Sto bene» tagliò corto Remus con brutale franchezza. Avvertì un moto indignato risalirgli la spina dorsale. Le continue attenzioni che gli venivano dedicate da ognuno dei membri dell'Ordine diventano sempre più insopportabili. «Sirius era avventato e incauto. Avremmo dovuto aspettarci un simile errore». La sua voce era rigida e vuota. Strinse ancora i pugni delle mani, cercando invano di cacciare dalla propria mente l'immagine dell'amico che svaniva al di là del Velo. «L'amicizia fra me e Sirius è rimasta sepolta dalla polvere per troppi anni, signore. Lui non era più il ragazzino Purosangue che era stato un tempo; e io non sono più il Prefetto che chiudeva un occhio su ognuna delle sue buffonate. Non credo si sia mai potuto parlare di un'allegra rimpatriata fra vecchi amici».
Silente ruotò il capo verso di lui. Il suo sguardo brillava di rammarico. Parve imprimere alla propria voce una nota di forzati disinteresse.
«Sei sempre stato un abile bugiardo, Remus». La sua osservazione fu seguita da un lungo istante di silenzio. «Ciononostante, confido che prenderai in considerazione la mia proposta».
«Non è un ordine?».
L'anziano mago scosse mesto il capo.
«Non ne ho il diritto. Posso solo chiederti di pensarci».
«L'ho già fatto, signore» borbottò placido. «In tutta franchezza, la ritengo una follia».
«Tutta questa guerra è una follia. Lo è sempre stata». Silente intrecciò fra loro le lunghe dita e gli lanciò un ultimo sguardo imperscrutabile. «Sei l'unico che può auspicare di portare a termine un compito tanto delicato».
«Sono solo l'unico Lupo Mannaro».
«Nonché il più abile duellante dell'intero Ordine della Fenice. Dovresti riporre più fiducia nelle tue buone qualità, Remus. Posso sperare di rivederti fra qualche giorno con una risposta meglio ponderata?».
Non lo farò” pensò Remus. Eppure quando aprì la bocca disse solo: «Come vuole, signore».

*

A modo suo, Aberforth Silente era stato cortese a concedere una delle stanze superiori della Testa di Porco a Remus. Non era che un ristretto ambiente della soffitta, con il tetto basso, le minuscole finestrelle opache e le tubature arrugginite che rimbombavano dei passi di decine di ratti, ma Remus era abituato ad alloggi ben peggiori, e per quella stanzetta macilenta non avrebbe dovuto sborsare che pochi Zellini.
Aveva appoggiato qualche vecchio maglione su una sedia sbilenca abbandonata accanto al letto, ma non si era disturbato a svuotare il grosso baule incantato ricolmo delle sue centinaia di libri. Si era sfilato la camicia e si era gettato di schiena sul letto, aveva incrociato le braccia dietro la testa e si era perso a osservare i segni dei tarli e dell'umidità nel basso legno del soffitto.
Sei sempre stato un abile bugiardo, Remus”.
Era un'amara constatazione che nemmeno lui stesso avrebbe mai cercato di negare. Lo era sempre stato, dopotutto. Era una capacità che era stato costretto ad affinare con il trascorrere degli anni, fin quando le menzogne si era succedute al punto tale da diventare abitudinaria. Era la norma, era la sua vita, era la normalità con cui scuoteva il capo e diceva: “No, non sono un Lupo Mannaro”, “no, non conosco Sirius Black”, “no, non nascondo nulla”.
Balle.
Non erano nient'altro che un insieme di balle. E Silente chiedeva a lui di farsi largo fra i seguaci di Fenrir Greyback per convincerli a combattere dalla parte del Ministero della Magia. “Ma certo” pensò con un moto di piccata ironia, “dopotutto il Ministero è sempre stato così magnanimo con i Lupi Mannari”.
Fu distratto da un deciso bussare alla porta. Alzò lesto il capo dal cuscino e afferrò la bacchetta. Si fidava ciecamente di Aberforth, ma l'imprudenza era una peculiarità che aveva lasciato al se stesso diciottenne, quando si era quasi fatto ammazzare durante l'ascesa di Lord Voldemort. Si avvicinò alla porta chiusa in punta di piedi e appoggiò la mano sulla maniglia nel preciso momenti in cui la voce squillante di Tonks esclamava:
«Devo arrabattarmi per trovare una di quelle stupide domande segrete di cui si chiacchiera al Ministero o preferisci inventare una parola d'ordine? Che ne dici di “Scrimgeour puzza”?».
Remus chiuse stancamente gli occhi, si massaggiò le palpebre e aprì la porta. Tonks aveva deciso di sfoggiare una sfolgorante chioma verde acido che faceva apparire la sua carnagione ancora più pallida.
«Non hai detto “Scrimgeour puzza”» commentò con un sorriso tirato mentre entrava. Si sedette sul bordo del letto e si guardò distrattamente intorno. «Carino. Mi piace l'arredo spartano».
«Cosa ci fai qui?».
«Volevo vedere con i miei occhi cosa ci fosse di tanto bello nella Testa di Porco per fartela preferire al mio appartamento... che è altrettanto spartano, fra l'altro, quindi saresti stato a tuo agio appoggiato fra l'attaccapanni e la scarpiera».
Remus strinse le labbra e soffocò un sorriso. Tonks aveva la disarmante capacità di invadere i suoi spazi con la violenza di un Bolide senza diventare sgradevole. Durante i mesi che aveva trascorso a Grimmauld Place si era abituato alle sue incursioni improvvise. Una volta lo aveva svegliato nel cuore della notte perché non riusciva a finire il cruciverba che aveva iniziato durante il proprio turno di guardia. Quando lui le aveva fatto notare che non avrebbe dovuto distrarsi in un momento tanto pericoloso, lei gli aveva fatto una pernacchia, lo aveva colpito con un affettuoso pugno al braccio e lo aveva liquidato dicendo: “Guarda che sono fortissima, io”.
Eppure quel giorno avrebbe preferito non vederla. Una piccola parte di lui era pronta a sperare di non rivederla mai più, perché si era già arreso da tempo all'amara consapevolezza di essere tremendamente attratto da lei, ed ogni istante trascorso in sua compagnia era un istante infernale. Le parlava con la consueta affabilità, scherzava con lei con la stessa pacata allegria, ma per quanto si sforzasse sapeva cosa diavolo significava la sensazione di avere uno stomaco completamente svuotato. L'amore era un pericolo che era riuscito a evitare con ammirevoli risultati, ma poi era arrivata Tonks, ed era davvero arrivata con la violenza di un Bolide. Remus non aveva potuto farci niente.
«Rilassati» gli disse Tonks con una smorfia divertita. «Non sono venuta a chiederti come stai e non ho nascosto Molly sotto al mio mantello. Le sarebbe venuto un infarto a vederti senza camicia: sei magro quanto una pergamena vista di profilo».
«Non dovresti essere ancora al San Mungo?».
Tonks fece le spallucce.
«Sì? Non lo so, forse. Non mi interessa».
«Stai parlando della tua salute. Non sono dettagli che dovresti sopravvalutare».
«Sto bene» tagliò corto con serietà lei. «E ti posso garantire che fra me e te non sono io quella con la faccia da morto».
«Non accetto critiche da una che se ne va in giro con la parrucca della fatina di Peter Pan».
Tonks si finse indignata, afferrò il cuscino e glielo scagliò addosso. Remus lo afferrò al voto e ridacchiò appena. Si avvicinò al letto e si sedette accanto a lei. Profumava di fragole, di lamponi, di una diavoleria da ragazzina che Remus non riusciva a distinguere, ma qualunque essa fosse rischiava di farlo uscire di senno. Si domandò d'istinto se Tonks fosse a conoscenza delle sensazioni che era in grado di scatenare nel suo petto, e un secondo dopo aveva già affondato il quesito in un angolo remoto della sua testa.
La ragazza esalò un breve sospiro e gli rivolse un'occhiata inquisitoria.
«Cos'è successo?».
«Niente».
Tonks gli sferrò un violento pugno al braccio e Remus si lasciò scappare una roca imprecazione che la fece sogghignare come una piccola volpe.
«Voglio la verità. Nient'altro la verità. Solo e soltanto la verità. Sennò ti picchio».
«Gli interrogatori degli Auror funzionano così?».
«Sì. L'intimidazione è molto efficace e io so come far soffrire un uomo. Non sono dettagli che dovresti sottovalutare, Remus».
Lui schioccò la lingua, scosse il capo un paio di volte e iniziò a raccontarle brevemente il contenuto della conversazione che aveva avuto con Silente quella mattina. Evitò di approfondire l'argomento e si riferì al ruolo che Fenrir Greyback occupava all'interno della comunità di Lupi Mannari senza mai nominarlo, girando attorno al vero motivo alla base di ognuno dei suoi timori. Tonks lo ascoltò attentamente con un cipiglio ansioso. Quando ebbe finito di parlare, fece un profondo respiro e si grattò pensierosa la nuca.
«Gran bel problema» commentò tetra. «Cosa pensi di fare?».
«Non ne ho idea».
«Chi è l'intermediario fra Tu-Sai-Chi e i Lupi Mannari?».
Remus deglutì a stento e scosse ancora la testa.
«Non ne ho idea» ripeté, ma di fronte alla sua espressione inquisitoria non fu in grado di mentire oltre. «Fenrir Greyback».
Tonks impallidì e sgranò gli occhi. Boccheggiò per qualche istante senza riuscire a parlare, muovendo incerta il capo.
«C-Come?».
«Greyback. È lui che sta trascinando i Lupi Mannari dalla parte di Voldemort».
A Remus non passò inosservato il fatto che non avesse battuto ciglio al suono del nome di Lord Voldemort. Non riusciva ancora a pronunciarlo con impavida naturalezza, ma il modo fermo con cui ingoiava i brividi era mirabile. Nonostante la loro audacia, perfino gli Auror lo chiamavano Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, e sempre con timore quasi reverenziale. Moody aveva ragione a dirsi tanto fiero di Tonks.
«Non puoi farlo» sussurrò con voce tesa. «Ti farebbe a pezzi».
«E se dovessi?».
«Silente non può costringerti. Dannazione, non avrebbe nemmeno dovuto proporti una simile pazzia! È insana, è pericolosa, è... merda, Remus, non starai pensando davvero di accettare?».
«Nessun altro a parte me potrebbe farlo».
«Nessuno sarebbe tanto folle da farlo!».
«Non gridare» la redarguì senza energia. «È qualcosa che va fatto. E secondo Silente va fatto al più presto».
Tonks inclinò la testa, lo scrutò cauta e poi appoggiò la propria mano sulla sua. La stretta decisa delle sue dita mandò un brivido nel corpo di Remus, che trasalì stordito.
«Non lo fare. Greyback ti ammazzerà» lo scongiurò in un debole pigolio. «E se anche non dovesse ammazzarti... Remus, non puoi infiltrarti in un gruppo di Lupi Mannari. Non tu».
«Io sono un Lupo Mannaro, Ninfadora».
«No. Tu sei un mago. E per quanto tu possa continuare a ripetere di essere un Lupo Mannaro, resterà sempre il fatto che non lo sei davvero. Tu non sei come Fenrir Greyback, tu... accidenti, Remus, dovresti sapere meglio di me ciò che troverai fra i suoi seguaci. Sei mai stato nei bassifondi dove vivono?».
Lui fu costretto a negare con un cenno del capo.
«Io sono un'Auror, Remus» riprese lei con più vigore. «Te ne prego, fidati di me. Ho visto ciò che possono fare indipendentemente dal plenilunio. Tu non sei nemmeno uno spauracchio per bambini».
Forse fu la calda sensazione generata dalla sua mano, forse la nota febbrile che tremava nella sua voce... forse fu solo l'improvviso brivido che percorse la sua schiena quando le sue dita gli sfiorarono appena la mandibola. Forse non fu che un attimo di debolezza, o forse appoggiare le labbra su quelle di Tonks non fu che il primo vero gesto audace che si fosse concesso da molti anni a quella parte.
Mentre la baciava riusciva solo a pensare che in quella stanza dall'aria rarefatta dovevano essere esplose le pareti, il soffitto, il pavimento, perché non era più in grado di avvertire nient'altro che non fosse lei, le sue mani intrecciate dietro al suo collo e la consistenza vellutata della sue pelle a contatto con i propri polpastrelli.
Comprendere di non aver mai baciato davvero una donna fu devastante. Lo aveva fatto per gioco da ragazzino, per passatempo da adulto, o solo perché di tanto in tanto anche nei sobborghi popolati da reietti come lui si trovava lo spazio per dimenticare il resto del mondo. Nessuna stanza gli era mai esplosa attorno. Nessuna donna lo aveva mai fatto sentire tanto fragile e vulnerabile – ed eccola lì, l'unica che ce l'avesse fatta, un'Auror che avrebbe dovuto stanare le creature come lui, che aveva appena sfilato i pesanti scarponi, lo aveva spinto a schiena bassa sul letto e ora era semplicemente un po' dappertutto e un po' da nessuna parte.
Non lo fare, non lo fare, non lo fare...” si disse, ma le sue dita si erano già insinuate al di sotto dell'orlo della sua t-shirt, la mano di Tonks stava risalendo la sua pancia magra, carezzavano fremente il suo petto, le sue spalle. Sembrava cieca davanti alle cicatrici che dilaniavano la sua pelle.
«Resta con me». Il suo sussurro a un centimetro dalle labbra di Remus suonò come un lamento disperato. «Ti prego... non andare».
Remus sfregò il naso con il suo collo sottile e la strinse a sé con più decisione. Le scelte non erano mai state il suo forte: era un bugiardo, lui, era uno di quegli uomini abituati ad affrontare draghi e a fuggire dall'ombra di se stessi.
«Non ne otterremo che guai».
L'indice di Tonks seguì il profilo della sua mandibola. Il sorriso sulle sue labbra sembrava quello di una ragazzina particolarmente discola.
«Non me ne frega un dannato accidente».
*

«Hai avuto modo di pensare a quanto ti ho chiesto, Remus?».
Per Remus non fu facile sollevare lo sguardo dalle mani intrecciate al volto affabile dell'anziano Preside. I suoi occhi celesti lo scrutavano enigmatici al di là delle lenti a mezzaluna e nonostante il vago sorriso sotto i baffi, la sua figura emanava un'aria di inviolabile rassegnazione.
«Sì, signore. Io...». Agitò a mezz'aria la mano destra in cerca delle parole adatte. «Io non sono la persona giusta per questo compito».
Silente annuì in modo impercettibile e rimase in silenzio qualche istante.
«Avevo immaginato che questa sarebbe stata la tua risposta. Hai sempre notevolmente sottovalutato le tue capacità».
Remus si trattene dal fargli notare che il punto della situazione era ben diverso. L'anziano mago si sollevò dalla sedia, girò attorno alla scrivania a passo lento e aprì un armadietto di legno intagliato alto e stretto accanto alla libreria.
«I Lupi Mannari non portano che guai» sbottò all'improvviso una sgradevole voce rauca al di sopra delle spalle di Remus. «Creature demoniache, sanguinare e nauseanti».
Sollevò il capo e rivolse una blanda occhiata al ritratto di Phineas Nigellus Black. Si stava lisciando il pizzetto appuntito con una luce disgustata nei piccoli occhietti dipinti.
«Aggiungerei adorabili quanto la cara Bellatrix» replicò Remus con una punta di divertimento. Le guance del ritratto si gonfiarono di stizza. «È sempre un piacere rivederla, signor Black».
Silente soffocò una leggera risatina e fece cenno al ritratto di tacere. Remus scrutò incuriosito la scatola che il Preside stringeva fra le mani. Era la stessa con le raffinate teste di drago che aveva visto qualche giorno prima. I loro occhi di giada rilucevano brillanti alle luci delle torce dell'ufficio.
«Avvicinati, Remus» gli disse Silente mentre sollevava il coperchio ed estraeva un sacchetto di stoffa porpora. «Qui, accanto al Pensatoio».
Remus inarcò un sopracciglio e fissò prima l'elegante treppiedi sul quale era appoggiato il fragile oggetto magico e poi sulle lunghe dita di Silente che stavano sciogliendo il laccio del sacchetto.
«So che hai già preso una decisione, ma è mia premura mostrarti ancora un'ultima cosa». Gli mostrò una sottile polverina celeste prima di gettarla nel Pensatoio. Sottili fiamme azzurrine si sollevarono dal bacile. «Avrei dovuto farlo molto tempo fa».
Remus era confuso, ma la fiducia che riponeva nel Preside era più forte di qualunque perplessità. Inspirò profondamente e si avvicinò al Pensatoio. Fu questione di un lampo prima di esserne catapultato all'interno. Per un attimo chiuse gli occhi e si sforzò di dimenticare la fastidiosa sensazione di vuoto nella bocca dello stomaco, ma fortunatamente i suoi piedi toccarono una superficie rigida in pochi istanti.
Quando riaprì gli occhi, si ritrovò circondato dal vociare della Sala Grande.
Gli studenti sedevano ai rispettivi tavoli e sembravano particolarmente agitati. Confabulavano e ridacchiavano fra loro, sollevavano le mani in aria per salutare.
È il primo di settembre” valutò fra sé. “La prima sera a Hogwarts dopo le vacanze estive... ma di quale anno?”.
Fu solo in quel momento che riconobbe un alto ragazzo dai lunghi capelli biondi al tavolo di Serpeverde. Sull'orlo della sua divisa spiccava la spilla da Prefetto. “Lucius Malfoy”. Arricciò pensieroso le labbra e valutò rapidamente che doveva trovarsi più o meno nel 1971. “L'anno in cui sono arrivato a Hogwarts”.
«Precisamente, Remus» commentò allegramente la voce di Silente alle proprie spalle.
Remus si voltò e mostrò i palmi delle mani.
«Perché mi ha portato qui?».
Silente sorrise placido e gli indicò la piccola schiera di ragazzini del primo anno che stava sfilando lungo la scia della professoressa McGranitt. Remus li scrutò uno a uno: qualche viso gli fu immediatamente familiare. Sorrise nostalgico nel riconoscere la chioma scarmigliata di James. Accanto a lui, Sirius teneva le mani infilate nelle tasche e scrutava il Cappello Parlante con aria infastidita. E poi vide la chioma rossa di Lily, i suoi occhi verdi che sondavano ogni angolo della Sala Granda con crescente entusiasmo – e il giovane Piton, accanto a lei, che le bisbigliava nell'orecchio. Cercò in fondo alla fila, dove ricordava di essere rimasto per tutta la durata dello Smistamento, ma non si trovò.
Scrutò perplesso Silente e domandò:
«Questo è uno di quei viaggi introspettivi in cui lei mi mostra cosa ne sarebbe stato del mondo se io non fossi mai nato?».
Silente rise brevemente e scosse il capo. I ragazzini avevano iniziato a darsi il campo sotto al Cappello Parlante. Fu divertente assistere dall'esterno allo Smistamento di Sirius e notare le espressioni sconcertate di chi conosceva la nomea dei Black. Al tavolo dei Serpeverde, la graziosa Narcissa stava boccheggiando.
«Oh, sì...» commentò Silente. «Lo Smistamento di Sirius fu davvero memorabile».
«Era Sirius a essere memorabile».
Qualche minuto dopo, la professoressa McGranitt chiamò a gran voce: «Lupin, Remus!».
Remus si mosse agitato e scrutò impaziente i ragazzini in attesa, poi spalancò incredulo la bocca. Il se stesso di quell'illusione era abbastanza alto per la sua età e camminava con aria sicura attraverso i propri coetanei. Portava i capelli chiari corti e ben pettinati e indossava una divisa nuova di zecca. Quando si issò sullo sgabello, Remus scosse il capo.
«Quello non sono io».
«No?» ribatté sarcastico Silente. «Devi ammettere che ti assomiglia».
«Io non... io non ho mai avuto i capelli così corti».
«Se lo avessi fatto, la professoressa McGranitt si sarebbe lamentata un po' meno di te».
Remus si guardò con più attenzione, mentre il ricordo del suo vero Smistamento riaffiorava nei propri ricordi. Si era avvicinato al Cappello Parlante a passi brevi, tenendo il capo chino coperto dalle ciocche di capelli e i pugni stretti. Era terrorizzato. Era certo che il Cappello avrebbe esclamato: “È un Lupo Mannaro! È un Lupo Mannaro! Cacciatelo via!”, e invece... invece dopo lunghi minuti di riflessione lo aveva Smistato a Grifondoro. “Vedo un ragazzo dotato di una mente acuta” gli aveva sussurrato nelle orecchie. “Sveglio e desideroso di imparare. Perché ti ostini a nascondere tutte le tue virtù?”.
«Corvonero!» strillò deciso il Cappello Parlante.
Remus trasalì e si fissò stupefatto mentre scivolava aggraziato dallo sgabello e trotterellava con orgoglio verso il tavolo dei Corvonero. Il piccolo professor Vitious gli rivolse un occhiolino fugace.
«C-Corvonero?».
Silente gli appoggiò una mano sulla spalla. C'era un sorriso di profondo divertimento al di sotto della lunga barba bianca.
«A volte la vita sa essere davvero buffa, non credi?».
«Ma io non sono un Corvonero» replicò piccato Remus. Non riusciva a capire per quale motivo si sentisse tanto infastidito. «Io sono un Grifondoro».
Negli occhi di Silente brillò una luce fiera.
«Oh, sì... lo sei decisamente. Ma non qui».
Mentre pronunciava quelle parole, una vaga nube grigiastra aveva iniziato a sollevarsi intorno a loro. Prima ancora che Remus riuscisse a rendersene conto, la Sala Grande era già svanita.

*

L'improvviso scoppio di luce lo costrinse a stringere con forza le palpebre. Si coprì la fronte con una mano, mentre il vociare allegro dei ragazzi attorno a lui si faceva di secondo in secondo sempre più limpido. Remus si guardò attorno: era a pochi passi dalla riva del Lago Nero. Silente era ancora al suo fianco e stava scrutando con un sorriso spensierato il cielo azzurro.
«Cos'altro dovrei--?».
Si interruppe di colpo quando un adolescente dalla folta chioma scura gli sfrecciò a pochi centimetri dal braccio, seguito da un secondo giovane con i capelli lunghi. Remus avrebbe riconosciuto le loro risate fra mille altre, ma riascoltarle dopo una vita intera fu un po' come beccarsi una pugnalata nei reni.
Sirius e James continuarono a spintonarsi per gioco. Nello stomaco di Remus era appena precipitato un doloroso macigno di pietra. Realizzare di non essere un Malandrino, di essere lontano da James e Sirius, era sconcertante.
Scosse la testa e si passò stancamente una mano fra i capelli.
«È necessario, professore?».
«No, ma mi auguro sia edificante».
«Expelliarmus!» risuonò la voce esaltata di James.
Remus spostò lo sguardo dal viso del Preside al piccolo gruppetto di adolescenti che circondavano il vecchio faggio. Peter non c'era. Inarcò un sopracciglio e lo fece notare anche a Silente, ma l'anziano mago si limitò ad alzare mollemente le spalle.
«Temo di non poterlo sapere, Remus. Questo tempo è ignoto a me quanto a te».
«Cosa spera di ottenere?» chiese nervoso. «Mostrarmi il ragazzo che sarei potuto essere non cambierà l'uomo che sono diventato».
«Né io vorrei che accadesse. A costo di apparire un insegnante immodesto, Remus, confesso di essere piuttosto fiero dell'uomo che sei diventato».
L'inaspettato complimento di Silente lo fece arrossire. Sentendosi improvvisamente a disagio, spostò lesto l'attenzione sulla scena che stava prendendo luogo sotto le fronde del faggio: nonostante si discostasse per parecchi particolari dal quella reale, Remus la ricordava ancora con vivida chiarezza.
«Che cosa farai, Mocciosus?» stava dicendo Sirius in tono freddo. «Ci userai per soffiarci il naso?».
«Faresti meglio a lavarti la bocca» gli fece eco James. «Gratta e netta».
«Lasciatelo stare!».
Remus trasalì. “Lily” ricordò d'istinto, mentre guardava il ragazzino biondo che tanto gli assomigliava sfrecciare verso il gruppo a passo deciso. “Era stata Lily a fermare James e Sirius. Era Lily”. Ma non era Lily quella che stava agitando la bacchetta per interrompere l'incantesimo scagliato su Severus: era lui, solo che non era lui. Si avvicinò senza nemmeno rendersene conto.
«Inaccettabile. Crudele. Sleale» scandì la sua voce. «Il vostro atteggiamento è così poco nobile che mi domando come possiate sfoggiare con tanto orgoglio i colori di Grifondoro».
Le gote di Sirius si tinsero di una rabbiosa tonalità rosata. James schioccò altezzoso la lingua e mostrò i palmi.
«Per la barba di Merlino, Lupin... ci stavamo solo divertendo».
Negli occhi del giovane Remus si accese una luce di profondo disprezzo.
«Il problema è proprio questo, Potter: vi stavate divertendo».
«Senti, Lupin, non--».
«Dieci punti in meno a Grifondoro».
«Cosa?».
«A testa» chiarì con eloquenza Remus, mentre aiutava Severus a rimettersi in piedi. «E ora vogliate scusarmi, ma credo che la professoressa McGranitt sarà lieta di sapere quali eroiche prodezze vanno compiendo i suoi fieri studenti».
Voltò loro le spalle e tese una mano a Severus. Il ragazzo gli rivolse un'occhiata imperscrutabile, ma poi afferrò la sua mano e si rialzò in piedi. Guardò con disprezzo i due Grifondoro, scosse la testa e si rivolse a Remus.
«Non avevo bisogno del tuo aiuto».
«Non sei obbligato ad accettarlo» replicò secco. «Ma io sono un Prefetto ed ero obbligato a offrirtelo».
Remus – quello adulto, quello vero – emise un verso vagamente sarcastico.
«Sarei diventato un Corvonero più coraggioso di quanto non mi sono dimostrato come Grifondoro».
«Non ne sarei così sicuro».
A Remus non fu dato sapere cosa sarebbe accaduto in seguito. I contorni degli adolescenti e del faggio si distorsero in una nube indefinita, e lui e Silente si ritrovarono di nuovo nell'ufficio del Preside. Lieto che quell'assurdo vagabondare magico fosse terminato, Remus sbuffò, si avvicinò alla finestra che si affacciava sul Lago Nero e fece per appoggiarsi al davanzale, ma la sua mano attraversò la pietra come se fosse fatta di fumo.
«Ma che...?».
La porta si spalancò di colpo. Albus Silente entrò nella stanza con passo agitato, seguito da Minerva McGrannitt e Alastor Moody, ma quello non era Silente. Silente era dall'altra parte dell'ufficio, intento a guardare con aria curiosa l'altro se stesso che prendeva posto alla scrivania.
«Ho l'impressione che il nostro viaggio non sia ancora terminato» esordì l'anziano mago con un sorriso placido.
Remus gli rispose con un sospiro affranto e incrociò le braccia al petto.
«Per amor di Godric, Albus...» iniziò la McGranitt con voce ansiosa. «Che cosa facciamo ora?».
«Non possiamo arrenderci. Deve esserci un modo per fermarlo» incalzò Moody. Aveva entrambi gli occhi, entrambe le gambe e il naso intero, ma sembrava molto più vecchio e sciupato di quanto Remus non ricordasse.
Silente intrecciò le lunghe dita davanti al viso.
«Temo non ci resti che attendere».
«Attendere?» ripeté Moody. «Attendere cosa? Attendere che i Mangiamorte ci trovino uno a uno?».
L'anziano Preside sollevò lo sguardo grave su di lui e tacque. Remus intuì il peso di quel silenzio senza che ci fosse bisogno di aggiungere nulla. “Buon Dio, è esattamente quello che attende”. Guardò Silente – l'altro – e disse:
«Professore, cosa significa?».
«È davvero finita, Albus?» esalò accorata la McGranitt. «È davvero questa, la fine della storia?».
«Professore?» ripeté con veemenza Remus. «Cosa vuol dire?».
«Tu non sei mai diventato amico di James Potter» mormorò tristemente. «Lui e Sirius Black non ti hanno mai conosciuto davvero. Non sono diventati Animagi. Non hanno mai potuto imparare l'importanza di compiere dei sacrifici per il bene del prossimo. E così, temo che Lily Evans...». Si fermò per concedersi un debole sorriso. «Temo che Lily Evans non abbia avuto modo di vedere ciò che di buono James Potter avrebbe potuto offrire. Lei non si è mai innamorata di lui. Non lo ha mai sposato».
Remus aprì la bocca per parlare, ma aveva la gola secca. Silente lo fissò per un lungo istante. Anche i personaggi di quel futuro distorto tacevano. La McGranitt si era lasciata cadere su una sedia e piangeva senza emettere rumore. Moody fissava il pavimento, ma i suoi occhi ardevano di dolore.
«Non può essere vero» sussurrò Remus.
«Lo è, Remus» annuì brevemente Silente. «Harry non è mai nato».

*

Era seduto su una panchina che costeggiava una strada di provincia deserta, ma non aveva idea di come l'avesse raggiunta. Silente era accanto a lui, con le mani abbandonate sul grembo e lo sguardo vivace al di là delle lenti degli occhiali. Remus teneva il capo chino. Non riusciva a capacitarsi di quanto avesse appena visto. “Non è vero”, continuava a ripetersi con forza. “Quello non era vero. Niente di tutto questo è vero”. Era una situazione fin troppo surreale. Era tutto semplicemente troppo.
«Dove siamo ora?».
«A giudicare dal nome scritto sulla cassetta per le lettere, davanti alla tua casa».
Remus alzò lo sguardo. Le villette che si estendevano dall'altra parte della strada erano raffinate ed eleganti, con i cancelli ornati e le soffitte dai piccoli tetti spioventi. I giardini erano ampi e ben curati, e l'atmosfera sembrava paradisiaca, eppure Remus si sentiva soffocare.
«Dove siamo?».
«Non saprei» rispose lentamente Silente, alzando un indice. «Ma ti suggerisco di guardare bene laggiù».
Remus seguì la direzione del suo dito e si fece sfuggire una grossolana imprecazione. Un bambino dai capelli biondicci sedeva a gambe incrociate sotto una tettoia di legno e giocava con un mazzo di carte. Si alzò dalla panchina, attraversò la strada e si appoggiò al cancelletto.
«Mi faccia indovinare: quello è mio figlio». La sua voce suonò cinica, ma sentiva lo stomaco in subbuglio. “Mio figlio... che diavolo”.
«John!» ruggì una voce imperiosa dalla porta. Sulla soglia stava un uomo sulla trentina, con folti capelli chiari e un costoso completo da mago. “Oh, per Godric”, pensò Remus. «John, torna in casa. Il coprifuoco sta per scattare».
Remus avvertì un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Suo malgrado, si ritrovò a osservare ogni dettaglio dell'uomo che sarebbe potuto diventare. Quel Remus Lupin indossava abiti di sartoria e aveva l'aria giovane e sana. Non c'erano né occhiaie né cicatrici sul suo volto, ed era decisamente meno magro e misero.
«Credo di essere morto» commentò con blanda naturalezza Silente. «Voldemort deve aver vinto la guerra».
«Io sono vivo».
«Un Corvonero molto furbo, direi. A giudicare dal buon gusto degli abiti, hai fatto carriera».
«In un paese che vive sotto la dittatura di Voldemort?».
«John, non farmelo ripetere» gridò ancora l'uomo.
Remus storse il naso. Una risatina perfida risalì la sua gola.
«Ho chiamato mio figlio con il nome di mio padre» commentò con pungente sarcasmo. «Questa non è la Gran Bretagna... questa è l'Isola-Che-Non-C'è».
Silente ridacchiò a sua volta, ma nella sua voce non c'era la minima traccia di allegria.
«Beh, Remus... questa vita è diversa da quella che conosciamo».
«E dovrebbe piacermi? Dovrei detestarla? Dovrebbe farmi capire quanto sono fortunato?» domandò con aria incredula. Scosse la testa e aggiunse con più forza: «Sinceramente, Preside... perché siamo qui? Tutto questo... Hogwarts, James e Sirius, la guerra perduta... non ha senso. Niente di tutto questo può cambiare la realtà. Io sono un Lupo Mannaro. Non un umano, non un Corvonero, non un ridicolo impiegato ministeriale: sono solo un Lupo Mannaro. Mi faccia vedere anche il giorno in cui morirò vecchio e decrepito in un letto del San Mungo... non cambierà nulla. Io resterò comunque un Lupo Mannaro».
«Non è un Lupo Mannaro quello che ti ho mostrato».
«È un uomo che non sono io».
«È un uomo peggiore di quello che sei diventato. E tu lo sai».
Remus rimase interdetto e distolse nervosamente lo sguardo. Affondò con stizza le mani nelle tasche e prese a camminare lungo il marciapiede. Avvertiva la presenza di Silente seguire ognuno dei suoi passi. Si fermò di colpo, si voltò e gli rivolse un'occhiata pungente.
«Se voleva davvero che scendessi nei bassifondi insieme a Fenrir Greyback, perché non me l'ha semplicemente detto? Bastava poco. “Remus, devi andarci. Devi farlo”. E lo avrei fatto. Lei sa che lo avrei fatto. Ho sempre fatto tutto quello che mi ha ordinato». Si interruppe e si passò una mano fra i capelli, esasperato. Quella situazione frustrante stava sfuggendo al suo controllo. «A che scopo trascinarmi in questa follia? Me lo ordini e basta. Lo farò».
Silente socchiuse gli occhi addolorato ed emise un gemito roco.
«No, Remus... non è questo ciò che desidero».
«E cosa desidera che faccia?».
«Voglio che tu riesca finalmente a renderti conto che sei uno degli uomini più straordinari che io abbia mai conosciuto. La commiserazione che nutri verso te stesso è rivolta a una persona che non esiste davvero. Biasimi il Lupo Mannaro da così tanto tempo che ora non riesci a vedere quanto dovresti essergli grato».
Remus era senza parole. “Sta scherzando”. Sgranò gli occhi e alzò le mani in segno di resa, muovendo impercettibilmente il capo con espressione sconvolta.
«Grato?» sibilò come un colpo di frusta. «Io devo essere grato a Fenrir Greyback? Ha distrutto la mia vita, ha distrutto la mia famiglia... e lei osa parlare di gratitudine?».
«Non parlavo di Greyback. Parlavo di te».
Non riusciva a capire.
«Parlavo di chi sei riuscito a diventare» riprese in un soffio gentile l'anziano mago. Indicò brevemente la villetta che si era lasciati alle spalle. «Ecco, Remus: quella è la persona che avresti potuto essere. Un uomo indubbiamente colto e di buon gusto, abbastanza scaltro da adattarsi agli imprevisti della vita pur di sopravvivere. Non credo che quel mago fermo sui gradini abbia mai estratto la bacchetta per difendere una folla di Babbani dai Mangiamorte, mentre tu... tu lo hai fatto a soli diciassette anni. Ricordi?».
«Questo non ha niente a che vedere con--».
«Ha tutto a che vedere con te. Vorrei solo che riuscissi a vederlo anche tu, ragazzo mio». Gli appoggiò una mano sulla spalla sinistra e gli rivolse un mezzo sorriso. «Non puoi dimenticare di essere un Lupo Mannaro, non puoi dimenticare di essere un Grifondoro, un uomo, un mago – un grande mago. È parte di te. Vive in te. Nasconderlo nella profondità del tuo animo non ti aiuterà a capire quanto di buono puoi fare per il mondo».
Remus rimase in silenzio qualche istante, poi soffiò ironico.
«C'è una notevole differenza fra parlare di un Lupo Mannaro ed essere uno di loro».
«Sì, e sarei grato se tu finalmente te ne rendessi conto» replicò con un guizzo vivace il vecchio. «Tu parli di un Lupo Mannaro che non esiste. E ogni volta che commetti quell'errore, Remus, dimentichi di non essere uno di loro. Dimentichi di non essere Fenrir Greyback. Dimentichi di non essere un mostro. E così dimentichi anche di essere un brav'uomo». Sollevò un indice sottile e lo puntò ancora una volta in direzione della villetta. «Quello non sei tu: quello è un mago del tutto ordinario che non potrebbe mai competere con l'uomo eccezionale che ho di fronte. Eppure tu sei il Lupo Mannaro, mentre lui è l'umano. E ora, Remus, dimmi: preferiresti davvero essere lui?».
Silente arricciò la bocca in un sorriso enigmatico. Remus non disse nulla. Fissò per qualche istante gli occhi celesti dell'anziano Preside, poi alzò lo sguardo sul giardino ordinato, sui cancelli tutti uguali, su ogni angolo di quel tranquillo quartiere di periferia. “Lo preferirei?”. Avrebbe potuto vivere una vita normale – Silente l'aveva definita ordinaria, ma la normalità era davvero un fattore ordinario? Per lui avrebbe potuto essere straordinariamente meravigliosa. Avrebbe vissuto una vita tranquilla, senza problemi, senza difficoltà. Avrebbero sofferto solo degli sconosciuti Babbani o Nati Babbani, dopotutto... a lui non sarebbe importato. Non avrebbe mai davvero sofferto.
Lo preferirei sul serio?” si ripeté ancora. Cercò di rievocare il volto del bambino con i capelli biondi che giocava nel cortile, ma nella sua mente riaffiorò un ragazzino ben diverso, con folti capelli neri e un paio di occhialini rotondi calati sul naso lungo. Ed eccolo di nuovo lì, scolpito nei suoi ricordi più limpidi al fianco di James: il volto aristocratico di Sirius, il braccio attorno al collo dell'amico e un sorriso sfrontato sulle labbra.
E poi pensò a sua madre, dai fianchi esili ma dall'animo vigoroso, con una sigaretta mezza spenta fra le dita e l'accento irlandese, mentre allungava una mano sulla sua testa e gli scompigliava i capelli troppo lunghi. “Quando il mondo cerca di morderti, Remus, ricordati che tu sai mordere più forte”.
E Lily... Lily che giocava a scacchi con lui, Lily che rideva giorno dopo giorno, con il pancione sempre più gonfio e rotondo, Lily che gli baciava la guancia e gli stringeva le mani, che continuava a ripetergli di non arrendersi. “Sei il mio amico più caro, Remus... non posso sopportare di vederti piegato a queste sciocche ingiustizie. Tu sei meraviglioso”. Ed Harry aveva i suoi stessi occhi verdi e determinati, la stessa inclinazione a combattere con ferocia per i propri ideali, la stessa prontezza a cadere per ciò che era giusto. Harry che sveniva sull'Espresso di Hogwarts a causa dei Dissennatori, che evocava il suo primo Patrono, che fissava entusiasta le creature magiche nel suo ufficio... Harry che gridava il nome di Sirius, che si dimenava disperato fra le sua braccia... come aveva fatto Remus a trattenerlo quando lui per primo avrebbe voluto gettarsi oltre quel dannato Velo?
Gli parve di risentire sulle labbra il sapore del bacio di Tonks.
Rivisse in un istante ognuno dei suoi gesti, i suoi anfibi gettati dall'altra parte della stanza, i suoi fianchi morbidi, le spalle candide, la risata cristallina, le imprecazioni volgari. “Resta con me” lo aveva pregato. “Ti prego, resta con me”.
Era innamorato di lei? Oh, sì... lo avrebbe negato ancora e ancora e ancora, ma al cospetto di se stesso non poteva mentire. Se ne sarebbe andato? Avrebbe ignorato la promessa che le aveva fatto fra i baci e le carezze? Se ne rendeva conto solo in quel momento, ma conosceva la risposta da ben prima che lei sfondasse le porte della sua vita.
Chi era quel mago fermo sulla soglia? Nient'altro che un uomo che aveva controllato che il mondo non cadesse troppo vicino a lui. Un uomo che aveva saputo abituarsi a un futuro in cui esisteva qualcosa come un coprifuoco, che aveva un figlio, una ricca casa, dei bei vestiti... cos'aveva lui, Remus, quello vero, da offrire in cambio?
Preferiresti davvero essere lui?”.
«No».
Silente sorrise amabilmente, ma non aggiunse altro.

*

Bussò una volta, due volte, tre volte, senza lasciarle nemmeno il tempo di realizzare che c'era qualcuno alla porta. Bussò con insistenza fino a quando la voce di Tonks non si levò trillante dall'altra parte.
«Conterò fino a uno» la sentì minacciare con decisione. «E se non capisco chi diavolo tu sia, giuro che ti faccio esplodere la testa».
«Sono Remus». Scavò rapidamente nella propria memoria e aggiunse: «La scorsa vigilia di Natale i tuoi capelli erano verdi e il tuo vestito rosso. Ti dissi che avremmo potuto appenderti nell'ingresso di Grimmauld Place al posto dell'agrifoglio e tu mi calciasti lo stinco sinistro. È stata la prima volta in cui mi hai sentito imprecare».
Si udirono i suoni meccanici di diversi catenacci che scattavano, poi Tonks aprì un modesto spiraglio e lo guardò con un sopracciglio inarcato.
«Dicesti proprio “cazzo”» replicò con un mezzo sogghigno. «Non credevo nemmeno sapessi cosa fosse, un cazzo».
Remus non riuscì a ridere alla sua provocazione, e Tonks se ne accorse. Lo fece entrare in fretta e gli afferrò il braccio.
«È successo qualcosa?» s'informò con urgenza. «C'è stato un attacco dei--».
«No» la rassicurò lestamente lui. «No, Tonks, non è successo niente. Non sono qui a portare brutte notizie».
«Mi hai fatto venire un infarto. Mi ero appisolata sul divano e c'è mancato poco che ci morissi sopra, porca puttana. Ti pare l'ora di fare irruzione a casa mia? È notte fonda e...» si fermò e restò per qualche istante con le labbra dischiuse. Poi domandò piano: «Che ci fai qui? Perché ho come l'impressione che tu non sia passato solo perché ti mancavo?».
Remus si umettò le labbra e infilò le mani nelle tasche con aria colpevole. Sollevò lo sguardo su di lei, ma non riuscì a trovare le parole con cui introdurre tutto il discorso che si era alacremente preparato.
Lo aveva scordato.
Tonks era in biancheria intima. Indossava un paio di mutandine verdi, un top dal taglio sportivo nero e due calzettoni arancioni arrotolati all'altezza delle caviglie. Aveva i capelli rosa scompigliati e gli occhi ancora un poco assonnati. Ed era semplicemente meravigliosa e lui si era scordato per quale motivo fosse davvero in piedi nel suo ingresso.
«Remus...?».
«Ho parlato di nuovo con Silente. Sto seriamente valutando la possibilità di scendere nei bassifondi».
Fra di loro piombò un gelo insalubre. La ragazza sgranò gli occhi e lo fissò come se non riuscisse a credere a quanto aveva appena sentito.
«Cosa?» sussurrò febbrile. «T-tu... cosa?».
«È la cosa migliore che potrei fare».
«E la più stupida, Remus. Hai dimenticato che è pure la più stupida».
Il tono accusatorio di Tonks lo punse sul vivo. Scrollò nervoso la testa e replicò stizzito:
«È quello che devo fare. Ognuno di noi deve fare la sua parte e questa è la mia. Non c'è nessun altro che possa eseguire questo compito».
«È pericoloso».
«Io sono pericoloso» la corresse con enfasi Remus. Non riusciva a capire a cosa fosse dovuto quel suo improvviso scatto di nervi. «Sono un Lupo Mannaro. Non ho bisogno della tua improvvisa inclinazione a farmi da bambinaia per--».
«Della mia... cosa?» esclamò rabbiosa lei. «La bambinaia? È questo, quello che pensi che io faccia con te? La bambinaia!?».
«Io--».
«No, tu: vaffanculo».
Si avviò verso un piccolo corridoio nella penombra senza dire niente di più. Remus la seguì con lo sguardo, ma quando sentì la porta della sua camera da letto sbattere con furia si diede mentalmente dell'idiota. Stava per chiamarla quando Tonks fece nuovamente la sua comparsa: si era infilata una dismessa t-shirt dei Black Sabbath di diverse misure più grandi che arrivava quasi a sfiorarle le ginocchia.
«Perdonami, Peter Pan, ma stasera la tua bambinaia cagna non vuole farsi vedere nuda» gli disse con ferocia.
«Tonks...».
Lei sollevò il dito medio e fece per allontanarsi di nuovo, ma il suo piede rimase incastrato nel tappetto e sarebbe sicuramente franata sul pavimento, se solo Remus non avesse avuto la prontezza di afferrarla per i fianchi. Tonks si liberò rapida dalla sua stretta e gli rivolse un'occhiata indignata.
«Che diavolo ci fai qui? Cosa sei venuto a dirmi? “Ehi, guarda, fare sesso con te è stato divertente, ma non me ne frega un dannato accidente”. Molto gentile da parte tua, Remus».
Remus tacque. Tonks lo scrutò inviperita per un lungo istante e si avviò verso l'ingresso, ma l'improvvisa risposta dell'uomo la pietrificò di colpo.
«Non era sesso».
Le spalle della ragazza si piegarono verso il basso. Incrociò le braccia al petto, si voltò e inclinò interrogativa il capo.
«Davvero?». La rabbia nella sua voce aveva lasciato lo spazio a una penosa nota addolorata. «Ma pensa un po'... e io che credevo di aver fatto sesso con te. Chissà con chi ti ho confuso, eh?».
«Ninfadora, non--».
«Non chiamarmi così» sibilò tremante con un palmo sollevato a mezz'aria. «Ti prego, Remus, non farlo. Non dire niente. Apri la porta e vattene. Non posso sopportare di essere presa in giro come una sedicenne alla prima cotta».
«Io non ti sto prendendo in giro».
«Sì, invece. Ma io ti prenderò a calci in culo ben prima che tu possa farlo con il mio orgoglio, perciò vattene».
Remus la ignorò, si appoggiò con la schiena alla parete e affondò il viso fra le mani. Respirò profondamente un paio di volte, cercando disperatamente di trovare in sé tutto il rinomato ardimento con cui i Grifondoro amavano far vanto. Non ne trovò molto e quello che uscì dalla sua bocca non fu che un roco mormorio sconnesso.
«Mi sono innamorato di te». Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e aggiunse fra i denti: «Cazzo, cazzo, cazzo».
Tonks non fu in grado a camuffare il proprio sbigottimento. Restò per qualche momento impalata a tre o quattro metri da lui, con le labbra dischiuse e il pallido viso confuso.
«Beh... questa è sicuramente la dichiarazione d'amore più originale che mi abbiano mai fatto. “Sono innamorato di te, cazzo, cazzo, cazzo”. Carina. Potevi aggiungerci anche un “fottiti”, già che eri in vena di fare del dramma».
«Questo sarcasmo pungente durerà ancora per molto?» chiese brusco.
«Sono furiosa, Remus. Mi sto trattenendo dall'impulso di prenderti a sberle. Dovresti ringraziare la buon anima di Tosca Tassorosso» replicò con altrettanta schiettezza. Si avvicinò a lui e serrò le labbra in una linea sottile. «Vieni a letto con me, mi prometti di restare, poi irrompi nel cuore della notte a casa mia, mi scarichi come un'idiota e poi dici di essere innamorato di me. Capisci che tutto questo casino mi fa incazzare, vero? Mi fa incazzare un sacco, Remus. Mi fa incazzare più di quanto non mi abbia mai fatto incazzare qualunque altra cosa».
James Potter aveva sempre sostenuto che non c'era niente di più bello dell'espressione arrabbiata di Lily. Remus non sapeva come avesse potuto tornargli in mente quel vecchio particolare, ma mentre guardava gli occhi di Tonks brillare di delusione, si ritrovò a pensare che non c'era niente di vero. “Non è più bella, è solo più arrabbiata. E fa più male”.
«Sei mai stato innamorato, Remus?».
La sua domanda lo prese in contropiede. Sbatté un paio di volte le palpebre, si umettò le labbra e negò lentamente con un cenno del capo.
«Chissà... magari il problema è proprio questo» mormorò lei con una smorfia beffarda. «Non sai cosa vuol dire».
«Mi farei ammazzare per te».
Tonks trasalì e per un attimo parve incapace di replicare a quell'ammissione tanto genuina e diretta. Ma poi agitò una mano e aggiunse con più dolcezza:
«Tu sei un Grifondoro. Ti faresti ammazzare per un sacco di persone».
«Tu non sei un sacco di persone». Le strinse il polso e la fissò intensamente negli occhi. «Tu sei la donna più sconvolgente che io abbia mai avuto la sfortuna di incontrare».
«La sfortuna?» ribatté offesa, cercando invano di divincolarsi dalla sua presa. «Io sarei la--».
«Non posso farlo».
L'irruenza della ragazza parve spegnersi come la fiamma di una candela. Smise di lottare e restò con le labbra appena dischiuse in un'esclamazione muta e il fiato corto. Remus deglutì a fatica e si passò una mano fra i capelli.
«Tu non capisci. Tu non vedi, tu... tu non hai idea di cosa esploda nella mia testa quando sono con te. Mi hai fatto impazzire, Tonks. Sei piombata nella mia vita come uragano, e già prima la mia vita era... era assurda, era difficile, e tu... tu sei la cosa più straordinaria che mi sia mai capitata. Sì, hai ragione, io non ho mai amato nessuna donna. Ho letto romanzi d'amore, ho sentito discorsi ricchi d'amore, ho visto gente morire per amore, ma no... non avevo mai amato. E il problema non dipende dal fatto che io non sappia cosa voglia dire. Il problema dipende unicamente dal fatto che so cosa non posso fare. Cosa non devo fare. E tu... tu, dannazione, sei rimasta l'unico modo che ho per sentirmi vivo, ma non posso. Lo capisci? Io non posso farlo».
Lei aveva gli occhi lucidi, ma non piangeva. Nella gola di Remus c'era un groppo insidioso che non riusciva a mandare nello stomaco, laddove il peso di ognuna delle sue parole aveva appena iniziato a disfargli le viscere. Il silenzio nel corridoio gli perforava le orecchie, gli penetrava nel cervello, lo stava mettendo in crisi più di quanto non stesse facendo il volto inespressivo di Tonks. Poi lei alzò appena la mano, gli sfiorò leggermente la mandibola, sfiorò le sue labbra con il polpastrello del pollice con un triste sorriso appena accennato.
«Sì che potresti».
«Meriti di meglio...» mormorò tremante, abbassando le palpebre e beandosi del tocco amabile delle sue dita sulla pelle. «Meriti un intero universo di cose migliori di quelle che io non potrò mai offrirti. Sono troppo vecchio per te...». Tonks iniziò a giocherellare vaga con il nodo della sua cravatta. «Sono troppo povero...». Gli fece scivolare il mantello dalle spalle e lo lasciò cadere sul pavimento. Lui fermò le sue mani. «Sono troppo pericoloso».
Lei si alzò sulle punte dei piedi e affondò il viso nell'incavo del suo collo, artigliandosi disperata alla sua camicia.
«A me non importa». La sua voce era poco più di un sussurro al suo orecchio. «E se non importa a me... ti prego, non lasciare che importi a te».
Remus appoggiò il palmo della mano sulla sua nuca e la baciò. Non pensò nemmeno per un istante che fosse la cosa sbagliata – era giusto, era talmente giusto che si era mosso ancora prima di rendersene conto. Sentì i denti di Tonks piantarsi lievi nel suo labbro inferiore e sorrise contro di lei, mentre la sua mano carezzava le sue spalle, il suo braccio e si fermava sulla schiena.
Amava il modo in cui lei lo baciava. Aveva l'impudenza curiosa di un'adolescente nascosta in un corpo da donna, il tocco esuberante che ancora conservava un accenno di incertezza. Era come baciare una boccata d'aria fresca, come credere di essere ancora giovane e immortale. Lei lo costrinse ad attraversare il corridoio, e mentre camminava indietro senza sciogliersi dal suo abbraccio rischiò di inciampare almeno un paio di volte, ma la mano di Remus era ancora saldamente ferma alla base della sua schiena. Tonks cercò la maniglia della porta della propria camera ed entrambi si trascinarono frenetici fino ai bordi del letto. La sua t-shirt dei Black Sabbath era svanita prima ancora che i polpacci di Tonks cozzassero contro il materasso.
Remus si appoggiò al gomito destro e si stese su di lei, fremendo silenziosamente mentre la sua mano si appoggiava al suo fianco nudo. Le baciò la linea della mascella, il collo, la clavicola, le sfiorò un seno quasi distrattamente e credette di morire al suono del suo piacevole mormorio di consenso. La sua pelle era fresca e liscia – era frizzante, maledizione, era come lo scoppio di un fuoco d'artificio. La aiutò a sfilarsi il top sportivo e rimase a osservare il suo corpo mezzo nudo per qualche secondo. Era difficile capacitarsi di come una donna talmente sensuale potesse stare fra le sua braccia. Coprì il suo seno sinistro con la mano, accarezzò delicato il suo capezzolo e lei trattenne il fiato, affondando di nuovo le dita fra i suoi capelli e alzando la testa per baciarlo con più desiderio.
«Ti amo» gli mormorò a fior di labbra.
Remus si sentì attraversato da una scarica elettrica e si irrigidì di colpo.
Non era giusto.
La guardò di nuovo, magra e nuda fra le proprie braccia, e riuscì finalmente a vederla per davvero: una ragazzina sensuale, una droga inebriante con il corpo di una donna.
Tu non sei che uno spauracchio per bambini”.
Cosa ne sapeva, lei, di licantropi e bambini spaventati? Cosa mai aveva visto di così tremendo da poter distinguere con chiarezza ciò che era innocuo da ciò che era pericoloso? Lui era un Lupo Mannaro. Era il lupo delle favole con il quale le madri ammoniscono i figli più discoli. “Un Lupo Mannaro addomesticato”.
Non lo era. Non lo era mai stato.
Non era umano – e se lo fosse stato, sarebbe stato un uomo con il quale difficilmente sarebbe andato d'accordo. Era un Lupo Mannaro da così tanto tempo che talvolta stentava a credere di essere stato un bambino normale. Non ricordava di esserlo mai stato. Non era normale. Non era giusto.
Tonks si accorse della sua improvvisa tensione e piegò circospetta il capo.
«Remus?».
Lui si sollevò di colpo, si sedette sul bordo del letto senza risponderle e si riabbottonò lestamente i primi tre bottoni della camicia.
«Che diavolo stai...? Remus?».
«Almeno uno di noi due deve mantenere la ragione, Tonks» le rispose schietto. «Perdonami, ma non possiamo farlo. Sarebbe un errore dal quale non riusciremmo più a districarci».
Si alzò in piedi e uscì dalla camera senza trovare la forza di guardarla un'ultima volta. Lei imprecò con incredibile volgarità e piombò nell'ingresso nello stesso momento in cui lui abbassava la maniglia. Era praticamente nuda, aveva le gote arrossate e l'espressione furibonda, eppure era Remus a sentirsi spoglio sotto i suoi occhi incendiari.
«Se te ne vai ora, non azzardarti a tornare indietro».
Lui chiuse gli occhi amareggiato e serrò fra loro le labbra. Non riusciva a cancellare il sapore dei suo baci e stentava a sopportare la vista della sua pelle candida. “Resta” risuonò nella sua testa. “Resta qui. Resta con lei. Resta e manda al diavolo tutto il resto del mondo”.
«Non tornerò».
Varcò la soglia prima che lei potesse tentare di fermarlo. Scese le scale saltando i gradini, con la mente ben poco lucida e lo stomaco stretto in una morsa dolorosa, e si precipitò rapidamente in strada. Non c'era nessuno a inseguirlo. Sapeva che Tonks non l'avrebbe mai rincorso. Lei non era il tipo di donna che piangeva lacrime d'amore addosso agli uomini: lei era una di quelle che li prendeva a calci e che forse fra un calcio e l'altro avrebbe trovato il tempo per piangere.
Si sentiva l'essere più inutile e vuoto del mondo.
Sollevò il cappuccio del mantello, infilò le mani nelle tasche e si incamminò a passi rapidi e nervosi in uno stretto vicolo nel quale sperava di riuscire a Smaterializzarsi lontano da occhi indiscreti. Sentiva ancora il sangue pompare adrenalina nelle vene, e l'aria fresca non aveva ancora placato la sensazione di essere precipitato nella bocca di un vulcano.
Preferiresti davvero essere lui?”.
Si appoggiò con la schiena e la nuca a un muro dall'intonaco scrostato e sollevò lo sguardo al cielo. Le luci rosse di Londra celavano qualunque stella. Una sirena dell'ambulanza squarciò il silenzio della notte, un gatto randagio balzò fuori da un cassonetto e gli rivolse un'occhiata curiosa, ma Remus restò immobile, distante miglia e miglia da qualunque cosa animasse quella città.
Preferiresti davvero essere lui?”.
Se non fosse stato un Lupo Mannaro, non sarebbe stato un uomo di cui andare particolarmente fieri. Ma lui era un Lupo Mannaro, e non era fiero nemmeno di quello. Si passò una mano sul volto stanco e soffocò un gemito disperato.
Non aveva idea di chi fosse e non aveva idea di chi avrebbe voluto essere, ma credeva di sapere qual era il proprio posto. Estrasse la bacchetta dal mantello e la agitò debolmente davanti a sé. Evocare il proprio Patrono non si era mai rivelato tanto difficile. Fu costretto ad aggrapparsi con disperazione alla propria memoria per evitare di affogare nel recente ricordo di Tonks nuda fra le sue braccia, Tonks che imprecava, che lo malediva, che lo fissava con odio feroce – e tutto quell'odio faceva male.
Il suo sparviero argentato spalancò le grandi ali e si librò pigramente sopra la sua testa. Remus fece un respiro profondo.
«Va' a Hogwarts» mormorò con voce rotta. «Di' ad Albus Silente che partirò domani».

   
 
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