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Autore: Princess of Dark    30/05/2013    18 recensioni
1° classificata al contest "Fic...per tutti i gusti!" di valentilenaPage
3° classificata al contest "Dillo con una canzone" di Lady.EFP
3° classificata al contest "Legge di Murphy" di _An e giudicata da Mad-Fool_Hatter

Lei, che si diverte a fare la predatrice.
Adrian, nel ruolo della vittima.
Notti lunghe, intense, rinchiuse in quattro mura dalle quali Adrian non può evadere: la odia, eppure non riesce a smettere di amarla.
Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire.
-William Shakespeare
Genere: Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Quando si mangia con gusto, ci si morde.


La sua presenza era così intensa da riempire il presente e far svanire come d’incanto tutto il tempo zeppo di assenze, trascorso nell’attesa che poi lei tornasse. Mi vennero così in mente le parole di Shakespeare “vado pazzo della sua stessa assenza”.
La sua presenza illuminava quella stanza buia e riempiva l’aria del suo profumo che rimaneva costante sotto il mio naso a tormentarmi, anche quando poi andava via.
La mia vita si era limitata a quelle quattro mura di una stanza, una delle tante di quella vecchia casa a me sconosciuta.
Ero caduto nella sua trappola come un topolino ingenuo.
L’avevo vista, all’angolo della strada, con un abito azzurro che le fasciava il corpo snello e formoso e i capelli corvini che le oscuravano il volto; era da maleducati fissare così a lungo e così insistentemente una donna, ma non riuscivo a fare a meno di guardarla, incuriosito e affascinato. Poi lei si accorse del mio sguardo e alzò il capo. La prima volta che incrociò il mio sguardo sentii il cuore perdere qualche battito: aveva gli occhi così spiccatamente azzurri da far aprire il cielo sereno in pieno inverno, facendo scomparire i nuvoloni carichi di pioggia. Ciglia lunghe scandivano ogni battito e la sua pelle pallida, candida, brillava sotto il sole d’autunno. Le sue labbra si schiusero in un sorriso languido e mi guardò quasi a volermi invitare ad avvicinarmi a lei. Così feci, quasi come se fossi stato soggiogato da lei, e la seguii per quel vicoletto che - per me - poteva condurre alla felicità.
Ma la felicità è qualcosa che a noi esseri umani sfugge completamente… non è l’obiettivo, piuttosto ciò che permette di raggiungerlo.
E mi ritrovavo lì.
Ero felice?
Sì, lo ero quando tornava, ma allo stesso tempo la odiavo per avermi tagliato le ali della libertà.
Ero felice?
No, non lo ero quando se ne andava e allo stesso tempo la odiavo per avermi costretto ad amarla…
Sentivo i suoi passi: c’era un silenzio tombale intorno a me, non mi meravigliavo del fatto che avrei potuto sentire anche il suo respiro, e forse lo sentivo davvero. La immaginai sorridere, come sempre, con quell’espressione innocente dipinta sul volto come una maschera.
Si aprì la porta con un leggero scricchiolio. Dal pavimento avvertii una vibrazione che si ripercosse fin dentro le ossa, facendomi trasalire mentre un senso di angoscia e paura iniziava ad impadronirsi di me. La stessa paura che mi rendeva ogni volta felice e smanioso di rivederla. Forse sarebbe stato più opportuno chiamarla frenesia.
Non ne avevo mai abbastanza di lei e lei non ne aveva mai abbastanza di me, a tal punto che mi aveva rinchiuso lì dentro per poter essere sempre disponibile.
Ero suo in tutti i sensi.
Per qualche strano motivo ci mise più tempo del solito ad entrare: le piaceva molto prendersi gioco di me, quasi come se potesse avvertire la mia paura e sentire la mia eccitazione. Quel mostro si nutriva delle mie sensazioni, non ne avevo dubbi.
I tacchi strusciarono armoniosamente sul pavimento in legno e finalmente entrò. Fasciata da un vestito greco bianco, drappeggiato alla vita e legato con un nastrino azzurro, era bellissima. Si mosse leggiadra, voltandosi per richiudere la porta con estrema delicatezza, poi si voltò di nuovo verso di me.
La vedevo chiaramente con il bagliore della luna e delle cento candele che avevo acceso per illuminare la stanza: conservava lo stesso aspetto della prima volta che l'avevo vista, senza mutare nel corso dei giorni. A volte temevo che fosse soltanto una maschera che celava un altro volto e forse a me stava bene così.
Stessa pelle marmorea e collo perfetto.
Aveva gli stessi occhi gelidi che ti divoravano l’anima: negli occhi c’era la forza del suo carattere, erano insostenibili, bisognava guardarli sempre, ci si affogava, ci si perdeva e non si sapeva più dove si era. Erano stati la mia rovina.
E poi c’era la sua bocca, così perfetta e disegnata ad arte da due linee morbide, così rosso acceso che sembravano di sangue. Si schiudevano solo per sorridere e per sospirare o a limite per sussurrare qualche parola. Ma era quando si poggiavano sulle mie che le sue labbra mi facevano morire. Così morbide, mi trascinavano in uno stato confusionale di ebbrezza, mi sfioravano così dolcemente da desiderare di prenderle a morsi.
Aveva la bellezza e la purezza di una sposa.
I suoi capelli ondulati lunghi fino alla schiena fluttuarono dietro di lei mentre si muoveva lentamente. Indietreggiai, trascinando il sedere all’indietro e facendo leva sulle braccia: non avevo avuto il tempo per mettermi in piedi.
«Ciao», sussurrò con un sorriso. La sua voce fu melodia per le orecchie e mi fece trasalire perché mi riportò alla realtà, scacciando ogni pensiero che si trattasse soltanto di un altro sogno. Si guardò attorno, poi si avvicinò alla scrivania in legno che avevo trovato già lì quando ero venuto. Si sfilò gli orecchini di brillanti e li poggiò sul ripiano con una lentezza snervante.
Sapevo perché era venuta, sapevo cosa voleva. Quello che non sapevo era perché temporeggiava così tanto.
Era sadica, la donna più crudele di questo mondo, le piaceva vedermi straziato, distrutto, piegato dal desiderio di averla. Mi stuzzicava di continuo e poi pretendeva il massimo da me: ed io avevo sempre cercato di accontentarla.
«Fa piuttosto freddo oggi, vero?», sussurrò con indifferenza, sfregandosi le braccia con le mani. Con un fiammifero accese il fuoco del caminetto che solo una volta avevo già visto acceso. Un altro bagliore di luce inondò la stanza, rendendola nitida ai miei occhi. Ora potevo vedere bene il grosso letto sul quale dormivo, il tappeto morbido dinanzi al camino e alcuni mobili, probabilmente cristalliere, assieme a una scrivania e una sedia in legno. Feci spallucce.
«Sto tutto il giorno chiuso qua dentro: non sento nulla», borbottai amaramente. Lei mi squadrò in disappunto.
«Dovresti essermi grato»
«Non ho detto che non lo sono», sussurrai a testa bassa.
Che razza di uomo ero? In che cosa mi aveva ridotto? Io, che avevo sempre avuto il ruolo dominante in ogni relazione, ora ero il cagnolino fedele di una donna. «Ma non ho neanche detto che lo sono», aggiunsi, facendo morire il suo sorriso. Non riuscii a spegnerlo del tutto ma solo a ritardarlo, poiché tornò a incurvarle le labbra perfette. Si infilò un guanto nero e si guardò la mano, aprendola e chiudendola per far aderire meglio la stoffa.
«Lo sarai», tuonò come se fosse una cosa certa. Ne era così sicura? «Lo sei sempre, alla fine», aggiunse maliziosamente, guardandomi di nuovo. Afferrò i due calici e mi guardò sbieco.
«Vieni ad aiutarmi, per favore?», sussurrò innocentemente, porgendomi la bottiglia di champagne dopo aver tentato invano di aprirla. La guardai esitante prima di alzarmi facendo peso sui talloni e strisciando la schiena contro il muro. Un passo dopo l’altro le fui accanto e venni investito di nuovo dal suo profumo. Non lo cambiava mai, metteva sempre lo stesso, quasi come se volesse che divenisse il suo profumo. E lo era, visto che anche tra cent’anni l’avrei accostato sempre e solo a lei. Afferrai il collo della bottiglia e con un botto il tappo saltò in aria. Lei rise divertita quando la schiuma iniziò a colare giù dalla bottiglia, porgendomi i bicchieri che riempii velocemente. Si morse il labbro, fissandomi. Avevo gli occhi incatenati a lei e la seguii con lo sguardo quando protese il bicchiere in avanti e lo fece tintinnare contro il mio.
«Cin cin», canticchiò, bevendo. La imitai poco convinto, gustandomi l’eccellente bevanda. Lei finì prima di me e posò il bicchiere sulla scrivania accanto alla bottiglia svuotata per metà. La leggera impronta del rossetto rosso segnava il punto esatto da cui aveva bevuto. Sentii la sua mano calda sulla mia e il bicchiere mi scivolò tra le mani. Trattenni il respiro quando lei si avvicinò troppo a me e fece aderire il seno al mio petto. Mi teneva stretto, afferrandomi il tessuto della camicia dalla schiena e alzò leggermente il volto per guardarmi negli occhi.
«Stavolta non sono in vena di giochetti sadici, amore mio. Baciami», sussurrò, scandendo bene le parole. Con lo sguardo fisso sulla bocca rossa, tremai.
Lei non prendeva mai nulla, ma mi ordinava di offrirglielo. Mi aveva ammaliato a tal punto che ero io a offrirglielo ancor prima che me lo chiedesse. Le poggiai le mani sulla vita e mi avvicinai alla bocca, premendo le labbra contro le sue bollenti. Si staccò bruscamente da me dopo che le nostre lingue ebbero danzato secondo la sua danza infernale e mi guardò di nuovo negli occhi, prima di iniziare a percorrere i lineamenti del mio mento e delle mascelle, finendo all’attaccatura dell’orecchio.
«Sono vestita di bianco», sussurrò. Il suo alito caldo nell' orecchio mi fece rabbrividire e trasalii. «Stasera sono la tua verginella», aggiunse divertita, infilandoci la punta della lingua. Il fiato che avevo trattenuto uscì fuori al naso sonoramente, in un sibilo tremolante. Si allontanò da me e afferrò la bottiglia di champagne, sfregandosela tra le mani mentre ne beveva un sorso dal collo. Tornò da me, infilò le mani sotto la camicia e contrassi istintivamente l’addome all’impatto con le punte gelide delle dita. Lei ridacchiò, affondando la testa nell’incavo della mia spalla, baciandomi il collo. Mi mordicchiò il lobo dell’orecchio come se fosse una caramella gommosa, facendomi ringhiare dal leggero dolore, mentre sentivo le mani percorrere i miei addominali. Avanzai e ad ogni passo che facevo in avanti lei ne faceva uno all’indietro, fino a quando non andò a sbattere con la schiena contro la parete opposta. Sussultò, senza lasciarmi andare, e con i denti mi staccò i piccoli bottoncini che tenevano chiusa la camicia. Mi liberò con facilità dell’indumento, facendo scivolare le mani contro le mie braccia, poi piegò la camicia tra le mani e la scaraventò sul letto.
Baciò e accarezzò ogni centimetro del mio corpo, succhiandomi capezzoli e solleticandomi con la lingua. Quando premette la mano lì, tra le mie gambe, ebbi la prima violenta reazione. La afferrai per le spalle, costringendola a stare immobile con la schiena al muro e feci scivolare le mani sulle spalline dell’abito candido. Il nastro non mi permise di farlo scivolare oltre l’ombelico, ma avevo comunque qualcosa a cui dedicare la mia attenzione. Aveva i seni di piccole proporzioni, pieni e sodi, e i suoi capezzoli tendevano la stoffa del reggiseno in pizzo, eccitandomi.
Volevo liberarla dal reggipetto, ma me lo impedì, afferrando le mie mani e conducendole al nastrino che teneva legato in vita. Lo sciolsi e l’abito cadde al suolo, gonfiandosi. Aveva delle belle gambe slanciate e snelle e indossava delle mutandine nere merlettate coordinate al reggiseno.
Lei si fece forza contro il muro e mi fece indietreggiare: quella posizione di sottomissione non le piaceva, doveva essere lei a dominare me. Mi fece voltare con il viso verso il fuoco e mi abbassò la zip dei jeans, sfilandomeli. La mia erezione stava già premendo contro la stoffa. Si inginocchiò all’altezza del bacino e strinse l’orlo dei miei boxer tra i denti, tirandomeli giù. Sentii le sue mani avide accarezzarmi e mi morsi il labbro quando mi accolse nella sua bocca. La mia prima reazione fu quella di lasciarmi andare e gemere ma, no, non doveva sentirmi godere, non volevo sapesse quanto piacere mi poteva dare.
Trattenni il respiro fino a quando i polmoni non mi fecero male e proprio il quel momento, giungendo al culmine, ansimai sonoramente. Sorrise compiaciuta, ciò che non volevo accadesse, e mi guardò maliziosa.
Odiavo quella sua espressione da predatrice, da donna troppo convinta di ciò che vuole. A quel punto, la ferocia che era in me emerse con così tanta violenza che la strinsi forte per i polsi e la gettai a terra, scagliandomi su di lei, desiderandola con tutto me stesso.
I suoi bracciali di vetro le scivolarono dal polso, cadendo a terra in mille frantumi. Le strappai con prepotenza il reggiseno che la copriva, impedendole di ribellarsi, sicuro che sui suoi polsi le avrei lasciato dei lividi.
«Ricordati che sono ancora vergine, devi andare piano», sussurrò eccitata, strusciando i piedi sulle mie gambe.
Cadevo sempre nella stessa trappola, lo faceva apposta a stuzzicarmi per farmi diventare una bestia. Questo animale le piaceva.
Strinsi i suoi seni perfetti tra le mani, accarezzandoli e assaggiandoli, lasciandogli piccoli baci mentre le sfilavo anche le mutandine nere elaborate. La sentii gemere quando la accarezzai con la punta delle dita; rovesciò il capo all’indietro e inarcò la schiena per concedersi meglio a me.
Fu in quel momento che la presi, a sua insaputa e sorpresa, senza un minimo di delicatezza.
In qualche modo volevo che soffrisse, che sentisse dolore almeno per metà di quanto ne avevo sentito io.
Quell’altra bestia chiamata desiderio stava crescendo dentro me, ed era impossibile controllarla ora che era uscita allo scoperto.
Adesso capivo perché le piaceva quando ansimavo, anche io stavo godendo di più ora che urlava disperatamente il mio nome. Non mi era mai piaciuto il mio nome di battesimo, ma il modo in cui pronunciava le lettere che componevano “Adrian” era sensazionale.
Ringhiai quando affondò le unghia nella pelle, graffiandomi la schiena e facendola sanguinare mentre aumentavo l’intensità delle spinte gradualmente. Avrei voluto arrivare all’orgasmo anche prima che ci arrivasse lei, per impedirle quell’ulteriore fonte di piacere.
Il fuoco scoppiettava nel camino e non si poteva dare di certo a lui la colpa se eravamo entrambi bagnati di sudore: la guardai fieramente negli occhi, osservando il bagliore delle fiamme sul suo viso che era un misto di ebbrezza e confusione. Spalancò gli occhi e avvinghiò le gambe attorno al mio bacino, gemendo più forte.
Insistetti ancora, volevo sentirla urlare.
Piacere, intenso piacere.
Di quel travolgente orgasmo, non ricordo più nulla.
Mi alzai velocemente quando ansimava ancora con il fiato corto sul tappeto persiano come se fosse una gattina, ad occhi chiusi e con un sorriso soddisfatto sul volto. Era ancora più bella dopo che avevamo fatto l’amore.
«Non ricordavo fossi così bravo», sussurrò infine, sollevandosi e riavviandosi i capelli. Le rivolsi un occhiata fulminante mentre afferravo la camicia per rivestirmi.
«Vaffanculo»
«Sei arrabbiato?», mormorò ingenuamente mentre mi veniva vicino. Non risposi, non ce n’era motivo: già sapeva cosa avrei risposto. «Adrian?»
«Non chiamarmi per nome», replicai freddamente.
«E come dovrei chiamarti?»
«Non chiamarmi». Ci fu un altro periodo di silenzio durante il quale finii di rivestirmi. Mi voltai, osservando che era rimasta nuda dinanzi a me. Le piaceva farsi guardare, soprattutto da me.
«Mi usi come se fossi un pupazzo», la accusai infine. Lei aggrottò le sopracciglia.
«Faccio qualcosa che va contro la tua volontà?». Odiavo il suo tono ingenuo, per lei era tutto così naturale!
«Contro la mia volontà?! Mi tieni rinchiuso qua dentro da giorni! L’unica cosa che faccio è sesso, sesso e ancora sesso!», le urlai contro, furioso. «Dovrei chiamare la polizia e farti arrestare!»
«Non faccio niente che tu non voglia, amore mio. Mi è parso che anche tu goda nei nostri rapporti», disse canzonatoria e notai anche un lieve cenno di irritazione nel suo tono di voce.
«Mi metti in condizioni tali da non poter far altro che scoparti. Ti piace provocarmi. E sono un uomo, è ovvio che poi non riesca a resisterti». Mi venne vicino e mi poggiò le mani al petto, baciandomi il collo con dolcezza, mentre i suoi seni mi solleticavano.
«Scusami. Mi perdoni?». Mi strinse le mani teneramente ed io la guardai.
Mi persi in quegli occhi, dal sapore di infinito.
Desiderio, fremiti, emozioni che si attraggono come calamite.
Una danza di fuoco che ti sfiora, maliziosa e provocante.
E infine, fatalmente, cedi ad essa, scivolando in un brivido di passione e in nuovo sentimento.
Il sentimento dell’amore.
Abbassai il capo in segno di arresa, sospirai e infine sorrisi con amarezza.
«Magari potremmo vivere una vita più normale… del tipo che mi restituisci la libertà e ci comportiamo da normali… amanti. Potremmo fare una passeggiata insieme, andare al cinema, guardare un tramonto, una cena sul lungomare… questo mi sembra più reale». Il mio tono di voce non era per niente convincente, forse perché non ne ero convinto neanche io, ma era sicuramente quello che pensavo.
Sorrise e i suoi occhi brillarono come due stelle. Mi stampò un bacio sulle labbra e scomparve, lasciandomi di nuovo solo a struggermi nel dubbio: cosa aveva in mente di fare ora?
Il senso di colpa mi stava dilaniando l'anima. Mi sentivo colpevole di tutto quello che stava succedendo, colpevole di aver condizionato in quel modo la mia vita, colpevole di essermi arreso senza neanche lottare.
Mi chiesi se avevo sbagliato a perdonarla: perdonare incessantemente chi ti ferisce sempre allo stesso modo, consapevole che mai smetterà, significa volersi suicidare.


Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo avesse come orizzonte il tuo volto.
E se così fosse, mille volte vorrei nascere per mille volte ancor morire.
-William Shakespeare



Mi auguro che abbiate speso piacevolmente il vostro tempo nella lettura!
Credo che non ci sia bisogno di un'ulteriore spiegazione della storia perché è abbastanza evidente ciò che succede, tuttavia volevo aprire una piccola parentesi sui personaggi perché qualcuno è rimasto un po' confuso ;)
Innanzitutto la storia l'ho voluta avvolgere un po' in una nuvoletta di mistero e confusione di proposito: come ci è finito Adrian lì dentro? Da quanto tempo è rinchiuso? Quanto tempo starà ancora lì dentro?
Non ho cercato di dare spiegazioni per vari motivi e uno di questi è proprio l'alone di mistero che, diciamolo, non guasta! ;)
Il personaggio della donna, senza nome, che indossa le vesti della predatrice, non l'ho descritta interiormente ma piuttosto mi sono soffermata sull'aspetto esteriore: è grazie ai pensieri di Adrian che si può intuire la sua perversa persona interiore.
Per quanto riguarda Adrian, il personaggio che risulta più confuso, ripeto che è stata una scelta voluta quella di non fornire molte informazioni su di lui: ho voluto renderlo un personaggio debole se non addirittura inutile, che cede facilmente alle tentazioni, senza capacità di difendersi e privo di autostima. Anche se può sembrare il protagonista della storia, in realtà non è altro che una pedina del gioco della donna, un minuscolo insetto da spiaccicare.
Spero di essere stata un po' più chiara, per qualsiasi cosa chiedete!
  
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