Di pioggia, gattini e ritratti rubati.
La
pioggia a Firenze rendeva tutto buio, sapere se il mezzodì era passato o meno
dalla posizione del sole era impossibile: tutto era oscurato da un manto nero
da cui scendeva solo acqua.
La
stessa acqua aveva per un momento fatto tentennare Giuliano dal suo compito di
quella giornata: andare a rimproverare l’artista della Repubblica per non aver
portato a termine determinati lavori scaduti già da tempo; ovviamente si era
già presentato da maestro Verrocchio sollevando il
problema e questo – con le mani giunte a preghiera, sporche di carboncino,
tempera o polvere di marmo – gli chiedeva di avere pazienza, e magari di
sollevare gentilmente il problema al
da Vinci che, se avesse avuto un po’ di «sale in quella testa» avrebbe fatto
ciò che doveva. Ovviamente Giuliano si congedò con gli angoli delle labbra
elegantemente sollevati (Lorenzo sul carro del potere e Giuliano sempre dietro
a regalare sorrisi al popolo), dicendo che avrebbe seguito il suo consiglio. Ma
dopo tre giorni non ci furono cambiamenti e allora un richiamo al diretto
interessato era d’obbligo.
Ma
quella mattina il cielo era piacevolmente coperto da grandi nubi bianche dalle
sfumature grigie, di fatto il Principe non s’intendeva di clima e confidò che
il sole che si nascondeva dietro le nuvole rimanesse fino a quando non si
sarebbe mosso all’incirca nell’ora in cui Leonardo rincasava. Ma ovviamente le
sue speranze furono distrutte immediatamente quando vide Madonna Clarice rientrare dalla sua passeggiata in giardino.
Giuliano, seduto su una delle comode sedie foderate accuratamente poste nei
corridoi della villa medicea, con un panno ben pulito e morbido, lucidava la
sua spada – gentile, amava chiamarla
-, con la quale avrebbe ipoteticamente decapitato l’artista di cui tutti
parlavano.
«Giuliano,
mi sento in dovere di informarvi che piove, se non vi foste ben chiaro» annunciò
la donna, sedendosi accanto a lui con le gambe unite e le mani sulle cosce,
nella medesima posizione di sempre, studiata e perfetta. Le spalle aperte, il
collo alto, una goccia di pioggia le aveva rigato la guancia e lasciato un
sentiero umido su questa, con quella particolare illuminazione quel rigo
sembrava brillare. Qualcosa nel suo portamento curato gli dava una sensazione
di squilibrio, come se la Orsini volesse qualcosa da Giuliano che, puntualmente,
gli sfuggiva: non era un genio, lui, certe cose dovevano essere dette
chiaramente.
«Il
dovere mi chiama, Madonna» quindi si alzò e, prima che l’altra potesse tendere
la mano a prendere la sua convincendolo a restare, questo era già sparito lungo
il corridoio.
***
Il
tempo di uscire dal palazzo e sembrava di essere in quel limbo raccontato nella
Commedia: il cielo plumbeo capeggiava sul paesaggio verosimile ad una Firenze
morta, spenta, tutto il contrario di quello che era solita essere. I mendicanti
erano riparati sotto i grandi portici dei palazzi, le contadinelle o chi
abitava in periferia correva tenendo i lembi dei vestiti alzati per macchiarli
il meno possibile, le carrozze sfrecciavano accompagnando i passeggeri ai loro
alloggi il più velocemente possibile e Giuliano aspettava che le strade si
svuotassero, nel frattempo ripassava il modo più veloce per arrivare all’alloggio
di Leonardo.
Così,
quando di Firenze non rimase che lo scheletro buio e infreddolito, il Principe
iniziò a correre tra le varie vie per raggiungere la porta dell’artista.
Se
non fosse che, quando arrivò davanti alla suddetta porta, questa era chiusa e
non sembrava esserci nessuno all’interno. La pioggia gli scorreva tra i capelli
e la barba incolta, dentro i vestiti fino a penetrargli nelle ossa. Batté più
volte il pugno sul legno scuro, chiamando Leonardo con una certa fretta – per non
dire rabbia. Finalmente, ecco una luce leggera (una candela, poté constatare
guardando dalla finestra vicino all’entrata) avvicinarsi verso la sua
direzione, un rumore metallico indicò la serratura scattata e la porta si aprì
davanti ad un Giuliano fradicio. Nico lo guardava sbalordito.
«Leonardo?»
La capacità di formulare frasi complete da parte del de’ Medici era sparita,
così come la sua pazienza e la buona volontà.
Il
ragazzo, che nel frattempo non era riuscito a lasciare Giuliano fuori
(considerando il potere che aveva e il rispetto a cui Nico portava verso tutti,
più o meno), lo fece accomodare all’entrata chiudendo frettolosamente la porta
dietro alle sue spalle, «Il maestro non c’è, è andato alla locanda per
incontrarsi con Zoroastro, doveva rincasare qualche
tempo fa ma… non si vede», parlava in modo
impacciato, come se stesse dicendo qualcosa di cui non fosse sicuro.
Ma
ormai Giuliano non rispondeva più, i suoi occhi vagavano volpini sulla sala
buia e malconcia in cui si trovava, eppure riusciva quasi a vederlo, Leonardo,
chino sul grande tavolo al centro della stanza laddove ora riposavano fogli
scarabocchiati e in un certo senso anonimi. Nico – che aveva la straordinaria
abilità di sentirsi in imbarazzo ovunque – era ancora lì, in silenzio assoluto
con le mani giunte, come se si dovesse assicurare che Giuliano non toccasse
nulla.
Quel
posto sapeva di vissuto, come se una persona ogni giorno cambiasse il suo umore
e lo gettasse là dentro, lasciando che i muri fossero saturi di quei sentimenti
e che li vomitassero insieme all’umido e alla muffa che si formava in alcuni
angoli. Giuliano improvvisamente pensò alla sua rabbia, al fatto che, se la
dovesse rappresentare, sarebbe un’ombra che sotto la pioggia di un temporale
batte con un ritmo profondo su un grosso tamburo dal suono grave: tum, tum-tum, tum. Rabbrividì
sentendo una goccia d’acqua scivolargli dall’attaccatura dei capelli fino al
collo e giù lungo la colonna vertebrale, facendosi largo tra la camicia
inzuppata attaccata alla schiena e il resto dell’acqua.
«Nico!»
La
voce dell’artista era come un volo di colombe inaspettato, come se fosse
qualcosa di troppo strano per una situazione, fuori luogo ma piacevole. Tutte
cose che Giuliano si ritrovò a pensare poi. Portò lo sguardo sulla figura di
Leonardo, non meglio conciato di lui stesso: bagnato fradicio, dall’aria
vagamente sconvolta e uno strano scintillio negli occhi. Percorse con la vista
i suoi lineamenti, i capelli attaccati al viso, il collo insolitamente scoperto
in quanto la giacca gli stava addosso come un peso morto per colpa dell’acqua,
le braccia flesse che tenevano un cesto coperto da un panno chiaro, da questo
provenivano rumori che certamente incuriosivano il ragazzo biondo e il de’
Medici.
Il
silenzio calò per pochi istanti, sia Giuliano che Nico aspettavano spiegazioni
del ritardo di Leonardo e, soprattutto, di cosa tenesse tra le braccia. Fu lui
a parlare, congedando rapidamente l’aiutante, «Nico, sii gentile e raggiungi Zoroastro alla locanda, dovete svolgere alcune faccende di
cui ti parlerà lui». Di fatto Nico afferrò il mantello di cui si era servito
per arrivare fino alla casa (ora si spiegava il motivo per cui i suoi bei
boccoli erano asciutti!) e di lui rimase solo il fantasma del tonfo grave della
porta sbattuta un po’ dal vento e un po’ dalla inadatta violenza con cui Nico
se n’era andato – forse stizzito dall’essere sempre liquidato in certe
situazioni.
«Artista,
si può sapere che diavolo avete in testa?! Il vostro ultimatum è scaduto da
quasi una settimana e―» il momento di gloria di Giuliano si dissolse
quando Leonardo, che ovviamente non aveva ascoltato una parola di quello che il
Principe ebbe detto in quel momento, poggiò con delicatezza il cesto sul tavolo
e tolse lo straccio, buttandolo incurante da qualche parte sul piano, da lì
spuntarono otto piccole teste di gattini neri, miagolanti con il pelo a
spuntoni per l’acqua.
«Dovremo
lavarli» sentenziò il da Vinci, guardando poi Giuliano il quale era quasi rapito
da quelle piccole bestiole: la sua concezione di animale si fermava ai maiali,
ai falconi da caccia e ai cani. I gatti erano qualcosa di troppo elegante per
uno come lui.
«Cos―
spero voi stiate scherzando»
«Affatto,
venite»
E
prima che Giuliano potesse rimproverarlo e rimproverarsi, la mano ruvida ed
esperta di Leonardo stringeva la sua, mentre con un braccio teneva il cesto
attaccato al fianco e camminava a passo svelto verso la vasca da bagno con l’entusiasmo
di un bambino, o quello di un artista pazzo quando un suo folle esperimento giungeva
al termine.
***
La
vasca era riempita molto meno della metà di acqua tiepida, i gattini furono
riposti con delicatezza dai due, procurandosi qualche leggero graffio fatto da
unghiette inesperte e agitate. La stessa agitazione fu data quando gli stessi
mici si aggrapparono morbosamente alle mani dei due toccando l’acqua. Ma alla
fine, tra lamenti degli animali e soprattutto di Giuliano, l’operazione era
stata portata a termine: gli otto cuccioli ora scorrazzavano teneramente per la
stanza, puliti, instabili sulle loro zampine nere con le code che si agitavano,
andando ora verso destra ora verso sinistra.
«Mi
sento meglio» confessò liberatorio Leonardo, asciugandosi le mani in uno
straccio che contava di usare e che invece rimase intatto, Giuliano sedeva con
la schiena contro la piccola vasca e le gambe piegate, ormai si era arreso all’evidenza:
si sarebbe preso un raffreddore, oppure una febbre, per non parlare della
broncopolmonite. Come l’avrebbe spiegata a Lorenzo? “Sono andato dal tuo
ingegnere per dirgli di sbrigarsi a fare il suo lavoro e sono finito a fare il
bagno a otto cuccioli di gatto che il suddetto ingegnere aveva con sé”.
Davvero, la cosa più idiota che avesse mai detto, e probabilmente fatto.
«Perché
li hai tu, questi gatti?» domandò, quesito del tutto plausibile dato che ormai
ci era dentro fino al collo, in quella storia.
«Non
si può lasciare che otto cuccioli di gatto muoiano sotto la pioggia, ti pare?» sorrise,
quando gli rispose. Aiutò un gattino a salire sul letto e ne approfittò per
togliersi prima gli stivali e gettarli vicino al camino, poi la giacca e
buttarla su una sedia. La camicia gli si era attaccata al torace, seguendo le
sue linee e formando molte e varie pieghe su questo, quasi studiate, perfette.
Giuliano dovette abbassare lo sguardo per non essere colto in flagrante durante
l’ammirazione del corpo dell’altro che – ora che ci pensava, assomigliava molto
al David di Verrocchio.
Si
alzò, dunque e dopo essersi rischiarito la voce con qualche colpo di tosse,
recuperò la spada che aveva abbandonato in precedenza (troppo complicato
gestirsi in movimenti quali piegarsi continuamente sulle ginocchia con quella
legata in vita) e fece per rimettersela addosso, quando si sentì
improvvisamente scosso da una sensazione non nuova, anzi, tutt’altro – fin troppo
familiare e potente.
Sentiva
gli occhi di Leonardo su di sé, un po’ dispiaciuti, un po’ desiderosi. Come se
stesse pregando che rimanesse – o meglio, come se si chiedesse il vero motivo
per cui il Principe era lì (probabilmente Leonardo non stava facendo nulla di
tutto questo, era la sua mente ed i suoi desideri a dipingerlo così). Perché nessuno
dei due ci credeva realmente al magnanimo di Giuliano, al fatto che fosse
arrivato fin lì con la pioggia e fosse rimasto per assecondare i capricci di
Leonardo per pura buona volontà. Sospirò impercettibilmente, e, raccomandandosi
l’anima al diavolo, raggiunse Leonardo, una mano si strinse attorno al suo
fianco di cui sentiva la carne tonica sotto il tessuto zuppo, l’altra si posò
sulla sua guancia ruvida e rasata probabilmente quella mattina. Un bacio li unì
e poi anche le mani dell’artista iniziarono a frugare sotto le vesti del de’
Medici, mentre i primi brividi già si mostravano non più timidi come le prime
volte, ma ardenti di desiderio e spinti dalla mancanza del corpo dell’altro.
Erano
una cosa sola, un’armonia di due corpi che si muovevano lentamente, trattenendo
una foga ben celata dietro il cuore ogni volta che si vedevano in pubblico e
che ora si mostrava dietro carezze delicate ed estranee per entrambi, vestiti
che venivano tolti dall’altro, cinture che smettevano di tenere i pantaloni
larghi troppo in fretta. I corpi umidi dei vestiti bagnati si attaccavano tra
loro, il fastidio dello strato d’acqua veniva sostituito dal piacere del calore
e poi dalle gocce di sudore. Erano secchiate d’amore sul cuore, nervi che
vibravano come le corde del mandolino, battiti cardiaci che pulsavano nelle
orecchie come tamburi, braccia e gambe tremanti ad avvolgere ed avvolgersi,
grida soffocate per orgoglio mentre gli occhi facevano trapelare tutto quello
che era l’eros.
Era
passione, era sesso, era amore.
***
Le
cose belle erano ovunque, sostanzialmente bisognerebbe solo cercarle. E
Leonardo era bravo, a cercarle. Le vedeva anche nella morte, paradossalmente.
Sedeva
su una sedia, avvolto da una delle tre coperte con cui il suo letto era stato rifatto,
il corpo nudo smaltiva ancora la proiezione di quello che è stato il piacere
una manciata di minuti prima. Due candele ormai consumate giacevano inermi,
quasi piangenti, sul comodino di fianco al volto riposato di Giuliano, avvolto
nelle coperte come un malato si avvolge alle stesse quando ha freddo. Un
gattino nero si era addormentato sotto il suo mento, fortunatamente in modo da
non dargli fastidio – e quindi da non svegliarlo.
Giuliano
era bello, era questo a cui pensava Leonardo: Giuliano era bello. Vedeva la bellezza nei suoi capelli arruffati,
nella sua pelle un po’ olivastra, nel suo modo talvolta scontroso di fare,
forse altezzoso e orgoglioso, ma in qualche modo idoneo al suo essere. Vedeva la
bellezza in quei lineamenti riposati e sulle narici appena dilatate per
favorire il respiro tranquillo di chi è in pace solo con sé stesso, perché tutti
hanno i problemi, e Giuliano non era da meno.
Così,
dopo aver giocherellato con il carboncino ed aver studiato quella figura di per
sé semplice ma piena di emozioni, iniziò a tirare linee grossolane e poi sempre
più raffinate, andando a riprodurre Giuliano e il cucciolo che riposava vicino
a lui.
In
più doveva sbrigarsi: le candele erano quasi del tutto consumate.
Note
d’Autrice ▪ perché le cavolate le penso solo io A volte
ritornano.
Ebbene
eccomi.
Sono
tornata(?), sì. Molto più malata di prima ma, ovviamente, con lo stesso
fluff(?). In realtà, questa shot non è uscita
esattamente come volevo io, per il semplice motivo che l’ho pensata
stamattina/ieri sera e non ho potuto appuntami assolutamente nulla, e quindi mi
sono persa i pezzi per strada. Ma alla fine, penso di poter dire, il risultato
è “carino”, lontanamente carino.. sì.
Alcuni
appunti da fare sono:
1-
Giuliano viene chiamato anche “Principe
della Gioventù” (fonte: “Il Principe della Gioventù”, musical sulla Congiura
dei Pazzi e la morte di Giuliano).
2- Il
David di Verrocchio si dice abbia avuto come modello
Leonardo da giovane e fu regalato a Lorenzo e Giuliano (fonte: wikipedia).
Per il resto, dovete
prendervela con Iysse perché dopo averle raccontato la trama,
lei mi ha incitato a scriverla.
Alla prossima!~
radioactive,