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Autore: Katekat    31/05/2013    3 recensioni
Avere come sorella Bellatrix Black non è semplice, non è piacevole.
Andromeda l'ha sperimentato sulla sua pelle. E non è mai più stata la stessa.
Genere: Angst, Dark, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Bellatrix Lestrange, Ted Tonks | Coppie: Ted/Andromeda
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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No escaping, not for free
 
 
 
 
 
 
 
 
[Andromeda Black]
 
 
 
I’ll describe the way I feel
weeping wounds that never heal
 
 
 
Andromeda ricordava perfettamente quando aveva odiato sua sorella per la prima volta – è scolpito nella sua mente, e nella sua pancia. 
Aveva sette anni e un orsacchiotto preferito che abbracciava tutte le sere sotto le coperte. Senza quel giocattolo non sarebbe riuscita a dormire: le ombre che si nascondevano negli angoli della sua stanzetta le sarebbero balzate addosso per soffocarla.
Era l’unica della sua famiglia ad avere paura del buio. 
Eppure i Black vivevano da sempre nelle tenebre. Era scritto nel loro cognome – e qualcuno le aveva detto che non si scampa al proprio destino.
 
Un giorno aveva rovistato nella cesta dei giochi alla ricerca dell’orsetto, ma non l’aveva trovato. Un presagio inquietante aveva iniziato a stringersi intorno al suo cuore. 
 
Calma, Andromeda, calma. 
Inspira, espira
Pensa a dove l’hai messo. Cerca di ricordare
 
«Cerchi questo?»
Andromeda si era voltata di scatto, con un piccolo ansito strozzato, appena percettibile, soffocato dalle pareti della sua gola improvvisamente asciutta, come cosparsa di sabbia. 
Bellatrix era sulla porta, appoggiata di spalle allo stipite dipinto di verde chiaro, un’espressione di beffarda, falsa noncuranza che le aleggiava tra gli angoli della bocca e degli occhi lucenti. 
Lo sguardo di Andromeda si era lentamente spostato in basso, dal viso inesplicabilmente trionfante della sorella maggiore alla lunga mano pallida con cui agitava quello che era stato il suo giocattolo preferito: Tripsy, l’orsetto. 
Sbrindellato, senza zampe, la pancia aperta da cui volavano nuvole di ovatta. 
Gli occhi cavati.
Era talmente devastato da essere irriconoscibile. Il che era un bene – attenuava la consapevolezza, e con essa il dolore.
Andromeda aveva fatto qualche passo in avanti meccanicamente, il cervello momentaneamente in black-out, e l’aveva preso senza dire nulla. O meglio, aveva sollevato in una muta supplica la mano e aveva atteso senza fiatare che Bellatrix glielo lasciasse cadere sul palmo – un tonfo morbido, flop – prima di voltarle le spalle, perché non vedesse il suo labbro inferiore prendere a tremare a più non posso. 
Aveva osservato Tripsy – quello che ne restava, insomma– rigirandoselo tra le mani tremanti, ed era giunta all’agghiacciante conclusione che no, quello non era il suo orsetto. Non aveva più il suo sorriso rassicurante di peluche: al suo posto, la brutalità di un coltello aveva inciso una smorfia sogghignante di mostro. La terrorizzava. La rivoltava.
L’aveva lasciato cadere a terra bruscamente, come folgorata da una consapevolezza improvvisa. Aveva alzato lo sguardo su Bellatrix, che la osservava bevendo ogni espressione sul suo volto con un’intensità morbosa che suscitava essa stessa raccapriccio – il ghigno di Bellatrix era molto simile a quello inciso sul suo orsetto, perchè se ne accorgeva solo in quel momento?
Non aveva pianto Andromeda, quella volta.
Quello fu il suo primo incontro con il Male che era veramente sua sorella, ma era troppo piccola per comprenderlo – se avesse compreso, avrebbe pianto, almeno. Ma le lacrime rimasero dentro di lei, e le illusioni anche. 
Non sapeva che la sua infanzia sarebbe finita di colpo – un filo reciso, zac – poco tempo dopo, e che a tenere le forbici in mano sarebbe stata Bellatrix in persona.  
Il giorno in cui ciò fosse accaduto, quel giorno sarebbe diventata una Black. 
Ma aveva iniziato a odiare proprio come una Black molto tempo prima di divenire tale. Grazie a Bellatrix, ovviamente: Andromeda aveva solo sette anni quando la odiò per la prima volta. 
 
***
 
«Facciamo un gioco, Meda?»
Andromeda aveva dieci anni. Avrebbe voluto dire che non le andava, che era troppo stanca per giocare, ma sapeva che Bellatrix avrebbe insistito finché non avesse ceduto. Nessuno poteva negare qualcosa a Bellatrix, tantomeno lei, la piccola, debole, mite Andromeda.
«Giochiamo a nascondino?... Inizia a contare tu.»
Inizia a contare tuSempre lei a dettare le regole. E Andromeda a subirle.
L’aveva lasciata sola nel mezzo del salone con un sorriso enigmatico ed era sparita via, neanche si fosse Smaterializzata. Senza darle il tempo di rifiutare, di controbattere. 
Andromeda, con un sospiro, si era alzata dal tappeto dove era accoccolata a leggere uno dei suoi libri preferiti e l’aveva messo da parte. Si era spolverata la lunga gonna chiara e, un’ultima occhiata al vano dell’ingresso dove aveva visto sparire la schiena di sua sorella, si era avvicinata al camino – spento, data la stagione – e aveva contato docilmente: uno, duedieci.
Quando si era voltata, un silenzioso sorriso di scherno aleggiava tra le pareti. Non si era accorta, fino a quel momento, di quanto denso e pervasivo fosse il silenzio della sua casa – si espandeva nell’ambiente come se avesse corpo e materia. Il più piccolo fruscio risuonava amplificato in un rimbombo ostile.
Andromeda si era trovata inconsapevolmente a trattenere il fiato. Se non avesse fatto rumore, non l’avrebbero scoperta. Avrebbe potuto andarsene via impunita. 
Solo dopo qualche minuto si era ricordata che nessuno la stava cercando, che anzi era lei a dover scovare Bellatrix. Ma era comunque assolutamente necessario che non facesse rumore. Doveva stare in silenzio, doveva muoversi con cautela. 
Sentiva occhi nascosti puntati addosso, mentre iniziava a cercare.
Li sentiva ridere di lei – insieme a Bellatrix, ovunque ella fosse.
 
«Bellaaaa! Dove sei?»
 
Quegli occhi invisibili la spingevano verso i bui corridoi sotterranei di casa Black, quelli da cui si teneva lontana il più possibile. 

Hai dieci anni, Meda, non sei più una mocciosa! Devi imparare ad affrontare le tue paure! Se non lo fai da sola, lo farò io… Qualche giorno di questi ti chiuderò nei sotterranei…”
 
«Bellaaaa!... Vieni fuori, avanti!»
 
Andromeda sapeva fin dall’inizio che lei si sarebbe nascosta lì.
Bellatrix voleva vincere ad ogni costo e sapeva che solo in quel luogo sua sorella non avrebbe mai avuto il coraggio di cercarla, da fifona qual era.

"Fifona, fifona! Vergognati, Meda!"
 
«Non voglio più giocare! Hai vinto tu, va bene? Ora puoi venire fuori, per favore?»
 
Che stupida… Bellatrix non aveva mai fatto qualcosa semplicemente perché qualcuno glielo aveva chiesto per favore
Dopo un po’, esasperata, Andromeda aveva smesso di cercarla.
Era tornata nell’ingresso lottando contro le lacrime – perché stava piangendo, poi? Non era ancora successo nulla – , si era accucciata spalle al muro, tenendosi le ginocchia tra le braccia, la guancia sulle ginocchia, e aveva aspettato che sua sorella uscisse allo scoperto.
 
Ma il tempo era passato e Bellatrix non si faceva vedere.
Per tutto quel tempo la piccola Andromeda non aveva staccato gli occhi umidi dal grande orologio a pendolo appeso alla parete – a ogni rintocco, che scandiva un quarto d’ora dopo l’altro, il cuore le sprofondava, sempre più pesante, in qualche meandro tra il petto e lo stomaco. 
Era ormai trascorsa un’ora quando aveva deciso di alzarsi. Si era strofinata via dalle guance, con tutte e due le mani, le rare lacrime – tutte le altre non era riuscita a cacciarle fuori –, e aveva tratto un altro lungo, tremulo respiro di rassegnazione. 
Il messaggio era fin troppo chiaro: doveva giocare alle sue regole, alle regole di Bellatrix, se voleva avere una speranza di vittoria.
Non poteva cambiarle o ribellarsi, né tantomeno - vergogna somma! - tirarsi indietro.
Bellatrix voleva che andasse a scovarla nei sotterranei, e non c’era assolutamente nulla che Andromeda potesse fare per evitarlo. 
Perché lei voleva trovarla. 
Perché dentro di sé temeva che le fosse successo qualcosa. 
Perché era sua sorella.
Anche se aveva strappato gli occhi e squartato la pancia al suo peluche preferito; anche se da allora Andromeda non era più riuscita a dormire senza risvegliarsi almeno una volta, nel corso della notte, singhiozzando e pregando invano che le ridessero il suo Tripsy… solo per un po’, il tempo di prendere sonno e poi l’avrebbe dato di nuovo via, davvero… che glielo dessero solo per cinque minuti, solo cinque
 
L’aveva fatto apposta a nascondersi lì, quando sapeva benissimo che la sua sorellina odiava a morte quel posto.
Ma Andromeda ancora pensava che, quando avrebbe trovato Bellatrix, l’incubo sarebbe cessato e tutte e due se ne sarebbero tornate, mano nella mano, alla luce e al calore di sopra.
Beh, forse non mano nella mano: Bellatrix aveva sempre odiato quel genere di cose... di sdolcinatezze - nauseanti.
Non sapeva ancora che le idee di Bellatrix erano sempre di gran lunga peggiori di quelle che la maggior parte degli esseri umani possa concepire. 
Lei stessa non era umana – a volte.
E le faceva paura – spesso.
 
Aveva imboccato a passi malfermi il corridoio in pietra, attenta a non allontanarsi troppo dal fioco bagliore che proveniva dalla cima delle scale, verso cui sempre tornavano i suoi occhi – la luce del salone e della vita, della sicurezza e del familiare, della salvezza. 
Scrutava a destra e a sinistra, la piccola Andromeda, occhi sbarrati e bocca sigillata, sperando di trovare in fretta Bellatrix, pregando che si facesse trovare, per poter andare via di lì il prima possibile.
Ma lei non era visibile da nessuna parte e Andromeda era costretta, passo dopo passo, a scivolare sempre più avanti, sempre più addentro al buio del sotterraneo, lontano dal chiarore salvifico.
Anche questo Bellatrix l’aveva accuratamente pianificato, ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
 
“… Devi imparare ad affrontare le tue paure, Meda. Se non lo farai tu, lo farò io…”

Pensava scherzasse, quando l’aveva detto – era stata stupida lei, a farsi sfuggire quel suo timore inconfessato per i sotterranei… ma Bellatrix era brava come nessuno a tirarti fuori l’anima, e le viscere –, solo che Bellatrix era mortalmente seria, anche quando scherzava. Soprattutto quando scherzava. 
 
Un mostro senza nome l’aspettava in fondo al varco.
 
Se non faccio rumore, non mi troveranno...

Ma c’era anche Bellatrix, in fondo ad esso. Non poteva lasciarla sola col mostro, no?
 
“… Hai dieci anni, Meda, non sei più una mocciosa…. Se non lo farai tu, lo farò io…”

Anche se Bellatrix, a differenza di Andromeda, quel mostro non lo temeva.
 
“… qualche giorno di questi ti chiuderò nei sotterranei…”
 
Fu un attimo.
Sentì un fruscio sfiorarla appena, leggero come la carezza gelida di un vento oscuro – sottile, un brivido le si inerpicò lungo la schiena, paralizzandole le labbra in una “o” di muto, terrifico stupore. 
Una risatina le alitò all’orecchio – così vicina, così vicina... Nel buio totale in cui annaspavano i suoi sensi, un’unica sensazione, forte come non mai: il profumo di Bellatrix nelle narici, avvolto intorno a lei come una coperta stretta, soffocante.
Solo per un attimo. 
Poi uno scalpiccio precipitoso le passò accanto, echeggiando nel buio sulle fredde lastre di marmo levigato, diretto verso l’imbocco del corridoio – lontano, sempre più lontano...
Mentre la superava, lasciandosela alle spalle, sola nel buio – piccola piccola Meda – Andromeda continuò a pensare che l’unico scopo di Bellatrix fosse raggiungere l’ingresso per poter urlare “Tana!” prima di lei. 
Perché era quello che voleva, no? Voleva vincere.
 
Ma voleva anche qualcos’altro, Bellatrix.
Lei si nutriva degli incubi delle persone come fossero la sua linfa vitale.
Lei bramava la paura degli altri, così da potersi scordare della sua. 
 
Andromeda le corse dietro, ma Bellatrix era già avanti – era sempre più avanti di lei; era sempre un passo avanti a tutti… Fino all’ultimo non si preoccupò, anzi: era sollevata che fosse uscita allo scoperto, che quel gioco infernale fosse finito. Ancora pensava, fiduciosa, che Bellatrix volesse soltanto vincere quello stupido gioco e che poi, contenta di essere riuscita a metterle un po’ di paura, le avrebbe concesso la sospirata grazia di leggere in pace i suoi libri senza darle fastidio. 
Ma quando Bellatrix spinse la porta dei sotterranei, chiudendola con un tonfo a un palmo dal naso di Andromeda, e intorno alla bambina il buio cadde all’improvviso, ecco… fu allora che Andromeda imparò cosa fosse la vera paura.
Si ricordò di quella volta, tre anni prima, quando il Male le si presentato nelle vesti di sua sorella.
Ancora non aveva imparato la lezione, la piccola piccola Meda?
Aveva continuato ad illudersi che ci fosse del buono, in lei?

….

Sì, aveva continuato ad illudersi. Per tutto quel tempo
Si era sbagliata su tutto, per tutto quel tempo. 
 
 
Fu mentre piangeva disperatamente e singhiozzava e strillava senza ormai più nessuna vergogna – chi poteva mai vederla, laggiù?–, sentendo la gola andare in fiamme e il buio premerle addosso da ogni parte; fu mentre le ombre, che di giorno si nascondevano negli angoli delle enormi stanze, le balzavano addosso per soffocarla, spingendole i singhiozzi in gola, l’aria dentro al petto; fu mentre i suoi muscoli iniziavano a tremare incontrollabilmente, come se lampi di fuoco le scoppiassero a intermittenza sotto pelle, privandola del controllo del suo corpo e dei suoi movimenti; fu mentre sentiva la coscienza abbandonarla e i suoi incubi farsi realtà… fu allora che la piccola Andromeda divenne grande.
Quel giorno, la bambina che era in lei morì un altro po’. Perse un altro pezzo.
Quel giorno diventò più adulta.
 
***
 
«Dottore, la prego, mi dica la verità… Cos’è accaduto a mia figlia?»
«Signora, si calmi. Non c’è alcuna ragione di preoccuparsi, gliel’assicuro. Si fidi di me… ecco, si sieda…. Prenda un po’ d’acqua… così… Si fidi di me, sua figlia non ha niente.»
«Come non ha niente? No-non è malata?... Ma deve essere malata, deve avere qualcosa… per forza, altrimenti come spiega quello che è… quello che… Non era mai capitato prima…»
 
Voci stonate, rumori rotondi emergevano dalla superficie ovattata dei suoi pensieri addormentati, della sua mente paralizzata… Sentiva il calore soffice del materasso sotto il suo corpo, ma non sentiva il suo corpo su di esso. Non aveva nessuna sensibilità nelle sue mani, o nelle sue gambe, o nella pancia, o nei piedi, o nella testa. Niente. Solo il vuoto, denso come caramello, colla vischiosa, nella sua mente e dietro le sue palpebre, dove affogavano indistinte mezze voci e mezzi singhiozzi…
 
«…no, non era mai successo prima, ne sono sicura…»
«… è una bambina ansiosa, ma niente di che… Non ha mai dato problemi, no… non in quel senso….»
«…il fatto è che… sua sorella… Bellatrix sì, la maggiore… no, in questo momento non c’è, non so dov’è andata. Bellatrix sparisce all’improvviso, sa…»
«…mia figlia non è una bambina cattiva, dottore… è che ogni tanto esagera con Andromeda, ma non se ne rende conto… lo fa in buona fede, capisce? Capisce, dottore?»
«…Chi, Bellatrix? Ma… no, veramente io mai… non ho notato…»
«Dottore, cosa sta cercando di dirmi?»
«….epilessia?...»
«………….»
«No, non è possibile. Si sbaglia, glielo dico io. Non è possibile
 
"C’erano una volta tre sorelle… Erano le più incantevoli del reame e i loro genitori volevano loro tanto bene… di più, le adoravano… Le sorelle erano però gelose l’una dell’altra…"
 
“Uffa, non è giusto! Perché non posso fare io la parte della sorella bella? Perché devo essere sempre io la sorella brutta e povera?”
 
“Per Salazar, Meda, sei una lagna! Non potresti mai essere la sorella bella. Semplicemente, sarebbe troppo… per te.”
 
“…”
 
“Dammi la bacchetta di gomma e sta’ zitta, Meda, se vuoi continuare a giocare con me.”
 
Giochi di luce sul soffitto si confondevano tra le sue palpebre socchiuse. 
«Meda… Meda, ti sei svegliata…»
Una vocettina acuta, da bambina, da qualche parte laggiù ai piedi del letto. Doveva essere Narcissa. 
«Cissy?» La sua gola di carta vetrata raschiò fuori quella parola a fatica. Fu come un coltello incandescente fatto passare direttamente sulle pareti della sua faringe. 
Una figuretta sfocata – azzurro su giallo – campeggiò, tremolando come un miraggio, sul fondo della sua vista confusa. Un lievissimo peso esitante, delicato, le sfiorò il piede sinistro e rimase poi lì sospeso per paura di disturbarla, o farle male. 
Allungando dolorosamente i muscoli del suo corpo, Andromeda tese la mano, scivolando con le dita sulle lenzuola fresche di seta fino a incontrare un altro paio di dita, sottili e calde, attorno alle quali si strinsero, seppur debolmente.
«Mi dai dell’acqua, Cissy? Per favore…»
Sentì il calore scivolarle via dal palmo e richiuse gli occhi; le orecchie si concentrarono sul tonfo attutito di ceramica su legno, sul comodino accanto al suo letto, seguito da uno strofinio sul pavimento fino alla sponda del materasso che si piegò leggermente sotto il suo fianco sinistro, mentre due manine le accostavano una brocca smaltata di azzurro alla bocca. Anzi, più che accostargliela, nella loro premura infantile, gliela sbatterono sugli incisivi. 
Ciononostante, Andromeda schiuse le labbra e lasciò che l’acqua fredda le scivolasse giù lungo la gola, lenendo per breve tempo il bruciore e il fastidio che tutto quel gridare e quel singhiozzare avevano provocato laggiù. All’improvviso, mentre beveva, occhi chiusi, sorreggendosi su un gomito nonostante avesse dolori terribili alla testa e fitte lancinanti in tutto il corpo, si ricordò. Ricordò tutto. Tutto quello che era successo… quando? un giorno prima, un mese prima… o solo un’ora prima? Quanto, quanto tempo era passato? 
Rabbrividì. Allontanò da sé la brocca e si raggomitolò sotto le lenzuola, ma la loro inconsistenza e il loro gelo non la riscaldarono, né la rassicurarono. Aveva bisogno di qualcosa che la facesse sentire al caldo e protetta, qualcosa cui aggrapparsi, perché sentiva – temeva – che da un momento all’altro sarebbe risprofondata nel  buio, dove il mostro l’avrebbe portata e tenuta con sé, prigioniera, per sempre. E lei non si sarebbe svegliata mai più, e pur gridando nessuno l’avrebbe sentita, nel buio, nessuno le sarebbe corso in aiuto, come nessuno era corso mentre era nei sotterranei, mentre la risata di Bellatrix saliva in spirali, insieme al terrore e all’incredulità, proprio dall’altro lato della porta...
 
"Era solo un gioco, stupida!"
 
Era solo un gioco.
Tutto era sempre e solo un gioco, per lei. 
«Il dottore se n’è andato proprio adesso.” La vocina sottile di Narcissa penetrò la bruma dei suoi ricordi agitati. Non riusciva a ricordare tutto bene come avrebbe voluto, e la cosa la irritava. La faceva sentire debole, tradita. 
 
Non voglio sapere cos’ha detto il dottore. Non voglio sapere che sono malata e che sto per morire. Il mostro dei sotterranei sta per uccidermi. Sta venendo a prendermi per portarmi laggiù con sé. Non mi farà più uscire. Non sono stata abbastanza silenziosa, lo sapevo lo sapevo lo sapevo. Dovevo fare meno rumore. Mi hanno scoperta. Morirò

«Cissy?»
«Sì?»
«Vuoi… vuoi venire qui con me sotto le lenzuola? Vuoi farmi un po’ di compagnia?»
Un attimo dopo, un corpo piccolo e agitato, in un tramestio di tulle e nastrini, era scivolato al suo fianco, e Andromeda aveva sentito l’odore buono di Narcissa solleticarle la faccia, insieme ai suoi capelli sottili. Vaniglia, forse… e fiori. 
«Ma tu stai male, Meda?»
Gli occhioni azzurri della bambina erano scattati in alto verso di lei, soffermandosi con attenzione sul viso che Andromeda sentiva freddo, sotto il velo di sudore che lo ricopriva. Narcissa la scrutava intensamente, profondamente interessata, le dita ripiegate a pugno e i pugni premuti sotto il mento, appoggiata sulla sua spalla sinistra. Le faceva un po’ male, ma non così tanto da dirle di spostarsi. Andromeda la voleva lì con sé, voleva il suo peso su di lei, il suo corpo accanto al suo, ne aveva bisogno come qualcosa cui aggrapparsi, perché il mostro, quando fosse tornato, non la trascinasse via. Narcissa era la sua ancora di salvezza, in quel momento. Non lo sapeva, ma lo era. Solo lei poteva tenerla lontana dal mostro. 
«Stai male, Meda?»
Non poté ignorare la sua domanda una seconda volta. Soprattutto perché la piccola continuava a fissarla come se si aspettasse dovesse cadere a pezzi sotto i suoi occhi, lì, in quel momento.
Andromeda scosse lentamente la testa. «No, Meda, ora sto bene.»
«E allora perché mamma ha chiamato il dottore? Il dottore viene solo se uno sta male, no?»
Andromeda si spostò leggermente, sotto le lenzuola, tirando di più a sé la sorellina.
«Ho avuto un… un piccolo mal di testa, Cissy, ma è passato subito. Ora sto bene. È passato, non vedi?» Cercò di sorriderle, e si rilassò quando la bambina le ricambiò il sorriso, anche se ancora un po’ esitante, come se ci fosse un’ultima cosa che desiderasse dirle, un ultimo atroce dubbio che richiedesse di essere estinto…
«Meda?»
«Sì, Cissy?»
«Allora… allora non stai per morire, vero?»
 
Calma, Andromeda. Devi stare molto calma, adesso. 
Inspira. Espira.
 
Deglutì – i muscoli della sua gola si contrassero in modo disordinato: fu come mandar giù qualcosa di duro e molto, molto grosso. Così grosso che il suo stomaco non sarebbe riuscito a contenerlo. Ma doveva. Doveva. Perché Narcissa era piccola e lei, da sorella maggiore, doveva prendersi cura di lei; rassicurarla, confortarla e prendersi cura di lei. E dirle bugie, anche – se erano per il suo bene, certo. 
 
… il mostro sta venendo a prenderti… 
 
… piccola, piccola Meda… 
 
… sei troppo incapace per fare la parte della principessa bella… 
 
… devi imparare ad affrontare le tue paure… 
 
… era solo un gioco, stupida!...
 
«No, Cissy. Nessuno sta per morire.»
 
***
 
Quando Bellatrix la chiuse nei sotterranei, scatenando il primo dei suoi attacchi di grande male (nessuno, in casa Black, osava chiamarlo per quello che era: epilessia), fu allora che Andromeda la odiò, per la seconda volta, più forte della prima.
Ma solo molto dopo avrebbe capito che non c’era nessun mostro nei sotterranei, nessuno che voleva soffocarla nel buio, e che non aveva bisogno di spegnere la luce per vedere le ombre assalirla.
Era Bellatrix il mostro. Era lei la quintessenza di tutte le ombre.
E le faceva paura, ma non abbastanza.
 
***
 
Aveva dodici anni.
Anche quella volta l’odio fu così forte che le sembrò di soffocare.
Un giorno, mentre sedeva sull’altalena nel giardino, investita da uno sfolgorante sole estivo, sfogliando pigramente – accarezzandole, di tanto in tanto – le pagine di un libro che aveva ricevuto in dono, sollevando per caso lo sguardo aveva visto qualcosa balzellare dietro un cespuglio. Incuriosita, era saltata giù dall’altalena e si era avvicinata, a passi lenti e misurati, inginocchiandosi accanto al punto in cui aveva scorto il movimento furtivo. Scostando con le mani i ciuffi d’erba, il suo sguardo si era appuntato su una pallina minuscola, bianco latte, che tremava violentemente, nonostante facesse un caldo giù quasi insostenibile – ed era appena l’inizio dell’estate! 
L’aveva preso in mano, delicatamente e con estrema attenzione, senza paura – come poteva, una cosa così piccola e miserabile, così tenera nella sua vulnerabilità, costituire un pericolo? – e si era stretta al petto quello che aveva scoperto essere un coniglietto atterrito. Piccolissimo, arruffato e indifeso come tutti i cuccioli: era stato amore a prima vista. Nemmeno per il suo gufo reale, Febo, quello che i suoi genitori avevano insistito per regalarle prima che partisse per Hogwarts, aveva mai provato un simile, innato attaccamento. D’altronde, erano stati loro a scegliere il gufo per lei – lei non lo voleva nemmeno, avrebbe preferito un gatto, ma nessuno l’aveva ascoltata–, avevano deciso tutto loro, perfino quel nome ridicolo e pretenzioso. Ma, se non aveva potuto avere un gatto, si sarebbe accontentata di un coniglio.
Era corsa dentro e l’aveva mostrato a sua madre, pregandola di poterlo tenere. Non le aveva mai chiesto niente per sé, perciò Druella Black aveva acconsentito, colta di sorpresa, prima che potesse inventarsi un pretesto per negarglielo – e di pretesti ce n’erano a centinaia, perché un coniglio era un animale sporco, e come tutti gli animali domestici richiedeva cure e attenzioni che erano solo un peso in più per tutti loro; un coniglio era stupido, e inutile… insomma, a che serviva? mangiava soltanto!... e per giunta sporco… oh sì, molto sporco… 
Ma Andromeda era scappata via prima che Druella potesse rimangiarsi la parola data. Non che sua madre avesse remore a ritirare quanto prometteva – non era un esempio di coerenza, lei –, infatti non avrebbe esitato a far sparire l’indesiderato nuovo coinquilino non appena ne avesse avuto l’occasione, se non che, da quel primo giorno, Andromeda l’aveva nascosto così accuratamente – usando un Incantesimo di Disillusione che aveva richiesto giorni e notti di studio intensivo prima che potesse padroneggiarlo con risultati appena sufficienti – che non era stato possibile, per nessuno di loro, trovarlo. Ergo, il coniglio era sopravvissuto ai truci intenti omicidi della padrona di casa, e nessuno ne aveva più parlato. Ma Andromeda aveva continuato a dargli da mangiare, a coccolarlo e giocare con lui, di nascosto, quando nessuno era in vista, per tutta l’estate. 
Ogni volta che scappava via con l’animaletto nascosto sotto i vestiti, al sicuro contro il calore della pelle, non poteva fare a meno di lanciarsi occhiate di soppiatto alle spalle. Non ne era sicura, ma avrebbe giurato, una volta, di aver sentito passi furtivi seguirla strisciando nel suo nascondiglio. Poi se n’era dimenticata completamente. Ma quando, dopo aver rimesso il coniglio al sicuro, era tornata a casa e si era seduta a cena, aveva notato una cosa, e il suo cuore aveva perso un battito: le scarpe di Bellatrix erano sporche di terra. E gli angoli della sua bocca erano più alti che mai. 
 
Stava dando delle carote al suo coniglio, quando lei era arrivata.
Subito lo aveva nascosto, impaurita.
Aveva imparato che Bellatrix adorava portarle via ciò a cui teneva di più. Andromeda era sicura che, se avesse saputo quanto si fosse affezionata al coniglio, avrebbe escogitato una delle sue per fargli del male. Come con l’orsetto di peluche, Tripsy.
Aveva capito che, se voleva salvare una cosa da sua sorella, non doveva in alcun modo mostrare quanto tenesse ad essa.
Aveva imparato la lezione, stavolta. O almeno credeva.
 
«Che stai facendo?» La sua voce l’aveva fatta sobbalzare, perché – come sempre – lei le era arrivata di soppiatto alle spalle, strappandole un grido di paura e sorpresa. 
«Niente… gioco…» aveva risposto evasiva, ma già sentiva la pelle accapponarsi sulle braccia e lungo la schiena. Un presentimento, un presentimento che non aveva avuto quel giorno, anni prima, quando lei l’aveva chiusa nei sotterranei, ma che ora montava imperioso dentro di lei, rifiutando di lasciarsi incatenare. 
«E giochi senza le tue bambole?» Bellatrix era avanzata verso di lei, muovendosi di sbilenco, con un’andatura che assomigliava assurdamente a quella di un gambero, ma, ben lungi dall’essere divertente, risultava solo inquietante. Come inquietante era il suo sorriso – il suo ghigno. Andromeda detestava quel modo che aveva di sorridere, come se godesse nel far paura alle persone e, allo stesso tempo, temesse di non fargliene abbastanza.
Era strana, sua sorella. Strana e pericolosa. 

 
Almeno io non svengo in ogni angolo della casa, solo per attirare l'attenzione…”
 
Non era carino che glielo rinfacciasse, proprio no. Soprattutto perché stava cercando con ogni sua forza di allontanare quel ricordo – ricordo che la faceva bruciare dentro, non era vero che non ricordava, anzi, forse lo avrebbe preferito... 
Mentiva, Bellatrix: dopo quel primo episodio, non ne erano capitati altri, grazie al Cielo. Non ancora. 
«Allora?» l’aveva incalzata Bellatrix, senza toglierle gli occhi di dosso. «Con cosa stai giocando, se non hai le tue bambole?»
«Gioco da sola.» Aveva scrollato le spalle, sperando se la bevesse. 
«Ah, sì? Interessante… Diventi sempre più tocca, sorellina mia.» Il ghigno di Bellatrix si era allargato: ormai gli angoli della bocca erano così sollevati che gli occhi si infossavano leggermente al di sopra degli zigomi prominenti. 
 
Inspira. Espira. 
Calma, Andromeda. 
 
Andromeda aveva stretto i denti e non aveva replicato. 
«Cos’è quella cosa che hai lì dietro?» aveva esclamato all’improvviso Bellatrix, melliflua. Come se si fosse conservata apposta quella domanda fino a quel momento. Il piatto forte, il colpo di grazia. 
Lei lo sapeva. L’aveva saputo per tutto quel tempo. 
«Niente» aveva risposto Andromeda, forse un po’ troppo precipitosamente per risultare credibile.
«Fammi vedere.» Il suo tono era autoritario, ora. Era un ordine, il suo – come quando diceva: inizia a contare tu
«Non è niente, ho detto.»
 
Inspira. Espira.
 
Indietreggiava spaventata contro il muro, nascondendo il coniglio dietro la schiena. Era fortunata che fosse così piccolo da poterlo tenere comodamente in un palmo, altrimenti proprio non avrebbe saputo come fare per sottrarlo alla vista di Bellatrix. 
Disperato terrore e ostentato coraggio si inseguivano negli occhi di Andromeda. Gelido vuoto e furia distaccata in quelli di sua sorella. Bellatrix aveva sempre avuto gli occhi cattivi, ma da quando erano diventati così vuoti
Andromeda non sapeva fino a quando avrebbe potuto opporsi a lei per difendere il suo animaletto. Con sua enorme sorpresa, però, Bellatrix aveva smesso di avanzare verso di lei; si era fermata lì dov’era ed era rimasta a fissarla per un po’, in silenzio, come meditando qualcosa, forse lottando con se stessa. Poi, senza dire una parola, se n’era andata. Addirittura, le aveva quasi sorriso, mentre sgusciava oltre la porta. 
Una volta sola, Andromeda aveva lasciato andare il respiro che le si era bloccato nel petto. Liberatasi i polmoni, aveva sbattuto le ciglia e scosso la testa, cercando di scacciare da sé anche la spiacevole sensazione che sempre la presenza di Bellatrix nella sua stessa stanza le appiccicava addosso. 
Aveva aperto esitante le mani e dato un’occhiata al coniglietto: tremava ancora,  tutto spaventato, tra le sue dita, come se avesse presentito il pericolo che lo aveva sfiorato.
«Non aver paura, se n’è andata» gli aveva sussurrato, le labbra a un centimetro dalle orecchiette ricoperte di pelo lanuginoso, come se potesse ascoltarla meglio, come se potesse veramente capire le sue parole rassicuranti.  Gli aveva accarezzato il morbido vello bianco, e aveva pensato che tutti i cuccioli, di tutte le specie, si somigliano tra loro: sono tutti piccoli e caldi e morbidi. Come quel coniglietto. Come il gatto della vicina. Come Cissy, anche. Siamo tutti morbidi, indifesi, senza scorza, quando siamo piccoli; è quando cresciamo che diventiamo duri e spigolosi, e con la voce grossa, e cattivi, e facciamo del male. 
«Non può più farti del male» aveva bisbigliato ancora Andromeda, prima di rimettere l’animaletto nella sua gabbia ben nascosta. 
Ma il coniglio non aveva smesso di tremare – e nemmeno le sue mani.
 
 
Avrebbe dovuto immaginare che tramava qualcosa. Non era da lei darsi per vinta, mai.
Quando, il mattino dopo, Andromeda si era svegliata e, senza nemmeno far colazione, era corsa alla gabbia del coniglio, una parte di lei sapeva già che l’avrebbe trovata vuota, ma comunque sperava di sbagliarsi. Come quando si era illusa che non era Tripsy l’orsetto fatto a pezzi, o che Bellatrix non avrebbe chiuso quella porta… E invece…
Certe lezioni sono dure da imparare.
 
La prima cosa che aveva pensato, stupidamente, era stata che non aveva avuto nemmeno il tempo di dargli un nome, a quel suo povero, sfortunato coniglio. 
Nemmeno quella volta aveva pianto, mentre scavava con le sue mani nude – che subito si erano ricoperte di graffi e sottili ferite stillanti sangue – una piccola fossa, sotto la grande quercia del giardino. L’aveva scavata pur sapendo che non c’era nessun corpo da seppellire. Non ancora.
Ma aveva imparato a conoscere appena un po’ Bellatrix. E Bellatrix non era tipo da tenere per sé le spoglie delle sue vittime; no, lei godeva nel mostrarle agli altri, nell’ostentare al mondo intero il frutto della sua malvagità sanguinaria. 
Andromeda aveva atteso. 
Dopo qualche ora, quando il sole aveva iniziato a battere particolarmente rovente sulla sua testa, si era scrollata la terra dal vestito e dalle mani ed era rincasata, cercando il fresco ristoratore delle mura di casa. Poco dopo, sua madre l’aveva chiamata a tavola. Bellatrix non le aveva rivolto la parola, mentre mangiavano; non l’aveva nemmeno guardata, nemmeno una volta. Andromeda a sua volta non aveva detto nulla. Aveva abbassato il capo sul piatto e aveva trangugiato la zuppa senza nemmeno lamentarsi che scottasse; la sua lingua non l’aveva nemmeno percepito. Quando era tornata alla sua postazione sotto la quercia, si era amaramente complimentata con se stessa per aver visto giusto: un fagotto non meglio identificato, impiastricciato di terra e di qualcosa che non voleva vedere, giaceva ai piedi dell’albero. Assomigliava terribilmente a un peluche sventrato, solo che, quando lo prese, non fu ovatta a fuoriuscire dallo squarcio, colando lenta come la morte sui suoi vestiti, macchiandoli irrimediabilmente. 
Andromeda aveva girato la testa di lato e aveva vomitato. Lì, sulle radici della vecchia quercia stanca del giardino, sotto il sole indifferente, nei suoi vestiti sporchi che parlavano per lei, si era liberata le viscere da tutto ciò che aveva mangiato appena un’ora prima. Aveva distolto lo sguardo mentre il fagotto molliccio veniva ricoperto a poco a poco di terra. 
Ma, dopo che aveva finito, che quella cosa non era più sotto i suoi occhi, la sensazione che aveva provato sulle dita, sulla pelle, tra le mani e nello stomaco non l’aveva abbandonata – anzi, se possibile era diventata più forte, più impellente. Un conato le aveva ostruito la gola all’improvviso, ma stavolta nulla era salito su dalle profondità del suo tubo digerente: tutto era già stato svuotato completamente; non aveva più nulla da rigettare, solo la sua anima. E fu quella che se ne andò via, per un poco, quando si trovò improvvisamente a terra senza sapere come ci fosse finita – senza ricordare di essere caduta –, terra in bocca, sangue in bocca – si era morsa le labbra e la lingua. Sapeva solo che la testa le pulsava come una cosa viva, viva e dolente, e che stelline bianche le si accendevano e spegnevano davanti agli occhi, contro l’azzurro cupo del cielo all’imbrunire, come a irriderla, facendole “ciao, ciao”, come strambe lucciole… solo che due di quelle lucciole emanavano una luce particolarmente vivida, e fredda – e non ammiccavano come tutte le altre, no, erano fisse immobili su di lei. 
Aveva sbattuto le palpebre, tentando precipitosamente di alzarsi quando aveva riconosciuto il volto chino su di lei. Una mano, non molto più grande della sua ma incredibilmente più forte, l’aveva tenuta ferma, nella terra, nel suo vomito e nel sangue del coniglietto sgozzato. 
«Sei caduta un’altra volta, sorellina?»
«Lasciami andare, voglio alzarmi.» Aveva lottato di nuovo, ma senza successo. Bellatrix la teneva giù senza sforzo con una sola mano. Le sue vesti le sfioravano l’orecchio. Le era così vicina che avrebbe potuto calpestarla – forse, l’avrebbe fatto. 
«Non sei arrabbiata con me, vero, Meda?»
«Vattene, Bella. Lasciami stare. Lasciami…» La voce le si era spezzata, riducendosi in un pigolio annacquato di lacrime. Le sentiva salire e riempirle gli occhi, facendole prudere il naso, sigillandole la gola, togliendole il respiro. 
Bellatrix si era abbassata ancora di più su di lei, scrutandola fisso fisso, come a voler estrarre qualche prezioso, inafferrabile segreto dal fondo dei suoi occhi disperati. Andromeda li aveva chiusi quando aveva sentito il suo respiro vagarle sulla fronte, mentre con le dita le scostava le ciocche sudate incollate sulle tempie. 
«Lo sai che non l’ho fatto apposta, vero?» Andromeda aveva iniziato a piangere, mentre glielo sussurrava all’orecchio. Aveva sentito freddo, un freddo di morte senza speranza, impadronirsi del suo corpo ancora sfiancato e intorpidito. Aveva sentito ciò che stava per arrivare; sapeva cos’avrebbe detto, stavolta. 
«Non volevo fargli del male… Volevo solo giocarci un po’ anche io.»
 
"Era solo un gioco, stupida!"
 
Conoscevi il modo in cui giocava Bella. 
 
 
Il dottore era tornato e se n’era andato dopo due ore buone, dopo averle somministrato un sedativo. Andromeda aveva finto di accettare di buon grado la pillola bianca ma, appena la severa schiena dell’uomo, impeccabile nel suo completo azzimato blu notte, era sparita oltre la porta che dava nel corridoio, con un “Mi raccomando, signorina. Resta a letto e fatti una bella dormita fino a domattina” bellamente ignorato, l’aveva sputata senza pensarci su due volte. Era rimasta a fissarla per qualche secondo, nel palmo della sua mano, con il disgusto che le faceva arricciare il naso, disgusto e sì, anche rabbia – perché lei non aveva bisogno di quella pillola, era perfettamente calma, cosa credeva di fare quell’arrogante di un dottore? E poi, tanto, sarebbe morta lo stesso, con o senza quella pillola. Il mostro l’aveva afferrata, appena poche ore prima, lì nel giardino di casa sua. Niente poteva fermarlo. Nessun posto era sicuro, dentro o fuori casa, non per lei, non più. A quel punto, tanto valeva andarsene. Scappare. Anche se avrebbero continuato a inseguirla ovunque fosse andata, dappertutto, senza darle respiro. Avrebbe continuato a cadere, all’improvviso, urlando e contorcendosi, risvegliandosi con un senso di malessere e spavento – e vergogna. E una di quelle volte il mostro avrebbe approfittato della sua debolezza, della sua stanchezza, del suo mal di testa, per farla a pezzi definitivamente. Ormai, non aspettava più di portarla nel buio del sotterraneo per divorarla; non avrebbe esitato a dilaniarla di giorno, alla luce del sole, ovunque si fosse trovata. 
Aveva udito il cigolio pastoso della porta che ruotava sui cardini e passi morbidi sul tappeto. Si erano fermati appena al di là del cono di luce proiettato dalla candela sul suo comodino. Nel buio appena al di là della luce, aveva percepito chiaramente la presenza di qualcuno, e udito il suo respiro regolare. Si era affrettata a nascondere la pillola nel pugno, stringendolo forte, fin quasi a frantumarla, e l’aveva ficcato sotto le lenzuola. In un primo momento aveva sforzato la vista – ancora debole, come ogni volta dopo un attacco – ma aveva rinunciato ben presto a indovinare l’identità della figura nascosta nell’ombra: le faceva troppo dolere le tempie. Anzi, il dolore ora si era espanso, avvolgendole nelle sue fauci impietose tutta la testa: era come andare in giro con un turbante particolarmente pesante che le premeva anche sugli occhi, impedendole di mettere a fuoco le cose. 
«Cissy, sei tu?» provò, e fu quasi spaventata di come la sua voce fosse appena udibile, nel silenzio ovattato della stanza. Sembrava proprio la voce di un… morente
Più che vederla, intuì la figura spostarsi nell’ombra, da destra verso sinistra, aggirando il letto e fermandosi a pochi passi dalla metà che lei occupava. La guardava e respirava. E taceva. 
«Ti ho visto, sai?» Non era Cissy, no.
Andromeda si irrigidì e le sue palpebre abbassate tremarono, quando il materasso si affossò cigolando sotto un peso di gran lunga superiore a quello irrisorio della sua sorellina minore. Il cuore prese a batterle un po’ più forte nel petto. Deglutì, come a cercare di rimetterlo al suo posto, ma era impossibile. Come aveva scoperto da parecchi anni, non aveva alcun controllo sul suo corpo. Poteva negarlo e arrabbiarsi con se stessa quanto voleva, ma niente avrebbe cambiato la realtà, e cioè che il suo corpo non le ubbidiva, tradendola anzi nei momenti meno opportuni.
Debole, era così debole… 
«Ho visto cosa hai fatto, piccola piccola Meda…» 
«Smettila di chiamarmi così.»
«Perché? Non ti piace “piccola piccola Meda”?» cantilenò ancora la voce, piovendo su di lei dall’alto, dalla sua sinistra. 
«Ti ho detto smettila. Mi fa male la testa.» Non appena lo disse, se ne pentì. 
«Oh, capisco. La malatina ha avuto un’altra delle sue crisi e ora non vuole essere disturbata. Scommetto che resterai qui tutta la notte fingendoti pazza, aspettando che tutti corrano al tuo letto a coccolarti… non è così, sorellina?»
Andromeda spalancò gli occhi, fissandola sgomenta e atterrita. Si morse il labbro inferiore per arrestarne il tremito e, raccogliendo tutta la sua forza, si tirò su a sedere sulle braccia, appoggiò la schiena alla testata del letto e ritirò le gambe al petto, allontanandosi il più possibile da Bellatrix. Ella, notandolo, rise. Rise gettando la testa indietro come faceva sempre quand’era molto divertita, o compiaciuta di se stessa. Quando riportò gli occhi nei suoi, tuttavia, era seria. Seria e gelida. 
«Non sono pazza» sussurrò Andromeda, quando i loro sguardi scivolarono l’uno nell’altro. Parlava a Bellatrix, o forse a se stessa, o con il dottore… non lo sapeva. Sapeva solo che aveva ragione lei, e che era assolutamente necessario che gli altri lo capissero. «Non sono pazza, Bellatrix. Non sono pazza…» Si interruppe perché anche le mani, come la voce, avevano ripreso a tremarle. Stirò le dita cercando di rilassare i muscoli e, così facendo, la pillola bianca che aveva tenuto nascosta per tutto quel tempo scivolò via dalla sua presa e sparì senza far rumore in un anfratto delle lenzuola, ma non abbastanza velocemente perché sfuggisse agli occhi di lince di Bellatrix. Quest'ultima si sporse in avanti – Andromeda cercò di farsi ancora più piccola contro la testata del letto – e ripescò in fretta la pillola, tenendola sospesa, con disinvoltura, tra il pollice e l’indice, entrambi innaturalmente lunghi e pallidi per appartenere a una ragazzina di quattordici anni. L’aveva osservata per un po’, studiandola in silenzio, con esagerata, ostentata attenzione, sotto gli occhi sgranati e confusi di Andromeda, che attendeva angosciata la sua prossima mossa. 
«No, non sei pazza, Meda» aveva detto a sorpresa Bellatrix, interrompendo il silenzio. Aveva ritirato lentamente la mano, nascondendo la pillola nel pugno come aveva fatto sua sorella poco prima, e si era lisciata le pieghe della gonna in un gesto di grazia femminile che stonava terribilmente, fatto da lei. 
Avrebbe dovuto provare sollievo, a quelle parole, ma tutto ciò che Andromeda aveva sentito era stato l’accrescersi della sua confusione. Non capiva se Bellatrix stesse scherzando, progettando un altro malevole tiro ai suoi danni, o se facesse sul serio. Cercò i suoi occhi – non che fosse semplice catturare da essi la verità, anzi – ma Bellatrix li teneva volti verso il basso, nascosti sotto le lunghe ciglia spesse e mobili, in un altro gesto decisamente insolito per lei… troppo discreto, troppo timido. 
«Se non sono pazza, allora perché il dottore mi dà quelle pillole?» L’indice tremante di Andromeda si era sollevato a indicare il pugno destro di Bellatrix, che ancora custodiva gelosamente il suo segreto, come una perla in un’ostrica. 
Gli occhi di Bellatrix si erano sollevati lentamente a studiarla, in silenzio. Se era meravigliata per quell’improvviso cambio di condotta nei suoi confronti – Andromeda sembrava improvvisamente aver deposto l’ascia di guerra, bisognosa di conforto, troppo stanca per continuare a combatterla – non l’aveva dato a vedere. 
«Questa, dici?» aveva schiuso lentamente il pugno, rivelando il suo tesoro. Piccola, poco più grande di un dado da gioco, solo con i bordi smussi, la pillola riluceva di un bianco innocente alla fioca fiamma della candela. Sembrava così… innocua. Eppure bastava la sola vista per ispirare un terrore panico ad Andromeda. Era spaventata, chiunque l’avrebbe capito guardandola, e voleva essere confortata. Non da uno qualsiasi; da Bellatrix. Perché Bellatrix aveva sempre ragione; perché quello che diceva Bellatrix era verità assoluta. Lei non sbagliava mai. E se lei diceva che Andromeda non era pazza, allora doveva essere effettivamente così. Andromeda non poteva non crederle. Perché Bellatrix era quella forte e invincibile, tra loro due; quella che l’aveva costretta all’angolo più volte, l’aveva terrorizzata e traumatizzata e le aveva strappato via l’ingenuità con cui una volta aveva creduto alle favole, l’aveva resa… donna, in un certo senso. Eppure, per quanto paradossale potesse sembrare, Bellatrix era la persona di cui più si fidava. Non nel senso che Andromeda sarebbe stata disponibile ad affidarle la sua vita o ciò che aveva di caro – ripensando a Tripsy e al coniglio… non era nemmeno lontanamente auspicabile –, ma nel senso che non poteva non credere a ciò che Bellatrix diceva. Tutto quello che diceva, prima o poi, si avverava. Come diavolo facesse a saperlo prima, con tale assoluta certezza, questo era parte integrante del mistero di Bellatrix, contessuto nell’aura indefinibile che avvolgeva la sua persona. 
«Questa non si dà a chi è pazzo, Meda» aveva ripreso Bellatrix, scuotendo la testa. «E’ solo una medicina che serve per far dormire le persone. Per calmarle, quando sono agitate e hanno troppi pensieri per la testa per poter prendere sonno. Mi capisci?»
Solo quando Bellatrix aveva ripetuto per la seconda volta la domanda, mettendole stavolta due dita sotto il mento e sollevandoglielo perché la guardasse negli occhi, Andromeda aveva finalmente distolto lo sguardo dalla pillola infida e, dopo qualche attimo di esitazione, aveva annuito. 
«Ti fidi di me, vero, Meda? Mi credi quando ti dico che non sei pazza?»
Andromeda aveva avuto un piccolo brivido; si era un po’ ritratta nelle spalle, strofinandosi i palmi delle mani sulle ginocchia, in un gesto assente. Ma Bellatrix le aveva impedito di sprofondare di nuovo nei suoi pensieri. L’aveva scrollata leggermente, impedendole di distogliere lo sguardo dal suo finché non le avesse dato una risposta.
«Sì, Bella. Ti credo.»
Per la prima volta – per la prima volta in tanti, tanti anni – un qualcosa di simile a una felicità buona, pulita, senza secondi fini, era apparso sul volto di Bellatrix. Andromeda l’aveva osservata trattenendo il respiro, come per timore che un qualsiasi gesto sbagliato da parte sua potesse spezzare l’incantesimo. Chi era questa creatura che sorrideva come sorridono tutte le persone normali? Dov’era finito il ghigno che le storceva le labbra e le illuminava di bagliori freddi gli occhi? In quel momento, gli occhi di sua sorella sembravano non più così vuoti… sembravano pieni di qualcosa, qualcosa che non era tanto male. Andromeda non sapeva come spiegarlo, eppure… ecco, per un momento era lì davanti a lei la Bellatrix che sarebbe potuta essere se qualcosa – ma cosa? – non fosse andato storto, tanto tempo prima. 
Se avesse saputo che bastava così poco per rendere veramente felice Bellatrix, allora, forse, si sarebbe arresa anni prima… malgrado tutto quello che una scelta simile avrebbe comportato. 
«Bene.» Gli occhi di Bellatrix sorridevano ancora, raggianti. «Sono fiera di te, sorellina… E per dimostrarti che la tua fiducia è ben riposta… ecco, guarda, guarda attentamente, così non potrai dire che Bellatrix Black è una bugiarda…»
Andromeda si era sporta in avanti con un grido soffocato, tendendo le mani verso Bellatrix per cercare di fermarla, ma era troppo tardi: Bellatrix aveva già inghiottito non solo la pillola bianca che teneva in mano, ma, balzando come un gatto verso il comodino, aveva afferrato anche l’intera boccetta che il dottore vi aveva lasciato, aveva fatto saltare via il tappo e…
«No, ti prego, Bella… che stai facendo?... Non… non…»
Ma i suoi balbettii incerti si erano zittiti in un silenzio inorridito quando Bellatrix aveva versato sul palmo della mano una manciata di pillole e le aveva inghiottite senza batter ciglio. Dopodiché, come se fosse la cosa più naturale del mondo, aveva rimesso a posto la boccetta ed era tornata a sedersi sul bordo del materasso. Era riapparso il ghigno, quando aveva notato l’espressione scioccata di Andromeda. 
«Chiudi la bocca, sorellina. Non è educato, sai, fissare la gente in quel modo…»
«Ma tu… ma tu… tu sei pazza!» era sbottata Andromeda, incapace di trovare un altro aggettivo appropriato. 
Bellatrix era scoppiata a ridere. Aveva riso così tanto che lacrime erano spuntate agli angoli dei suoi occhi e, come piccole gocce di rugiada, erano scivolate giù lungo le guance pallide, perdendosi tra le volute disordinate dei suoi capelli neri. 
«Non c’è niente da ridere, Bella! Quello che fai è… è sbagliato! E se dovessi sentirti male?»
«Non mi succederà niente, stupida.» Ecco, era ritornato il solito tono tagliente e abrasivo. La Bellatrix di sempre si era alzata dal letto, guardandola dall’alto col solito luccichio sinistro nello sguardo, la testa inclinata di lato e le mani piantate arrogantemente sui fianchi. 
«Come fai a esserne sicura? Quelle pillole potrebbero…»
«Erano solo sedativi, te l’ho già spiegato. Roba per dormire, non per ucciderti.»
«Sì, ma ne hai prese tante…»
«Non abbastanza, tranquilla. Al massimo dormirò come un ghiro per dodici ore di fila.»
Le aveva voltato le spalle, incamminandosi verso la porta, facendole capire che la loro chiacchierata era finita.
Andromeda si era sporta oltre il bordo del letto, afferrando la candela e tenendola alta per poter seguire i suoi movimenti. Quando era arrivata alla porta, una mano sulla maniglia, la testa nera di Bellatrix si era voltata verso di lei e la luce si era riflessa due volte nei suoi occhi, improvvisamente di nuovo vitrei, ed enigmatici. 
«Non dirai nulla alla mamma del coniglio, vero?» Era stato un sussurro, pronunciato a labbra strette, tra i denti serrati. Andromeda aveva percepito disprezzo, e rabbia, nella sua voce. 
Era rimasta un attimo sovrappensiero, soppesando la domanda. Alla fine, aveva sollevato gli occhi dalle ginocchia, dove con le dita si tormentava l’orlo della camicia da notte, riflettendo, e li aveva riportati nei suoi.
«No, non le dirò niente, Bella.»
Bella aveva continuato a fissarla senza mutare espressione. Anzi, il lampo di accusa nel suo sguardo si era intensificato.
«Anche se tu le dicessi qualcosa, lei non ti crederebbe comunque, Meda.»
«Lo so.»
«Se tu non le dirai del coniglio, io non le dirò che non hai preso la medicina.»
Andromeda aveva corrugato la fronte, mordendosi le labbra. Non era una richiesta equa, quella – era un ricatto, e lo sapeva –, ma cosa poteva fare? E poi, in tutta onestà, aveva un’alternativa migliore?

Una minuscola palla di pelo le attraversò la mente.
Un orsacchiotto di peluche sul davanzale della finestra.
Un coniglio morto.
Un orsacchiotto stracciato.
Il buio.
Il cielo sopra la sua testa.
Inizia a contare tu.
La mano che la tiene premuta a terra.
Volevo giocarci un po’ anche io.
La cascata di pillole bianche che spariva nella gola di Bellatrix.
Ti fidi di me, vero, Meda?

«D’accordo. Affare fatto.»
Bellatrix restava sulla porta, apparentemente scettica della sua promessa. Ora, era lei a non fidarsi di sua sorella. 
Andromeda aveva sentito l’impazienza farsi strada nello spavento e nella confusione che provava. 
«Avanti, Bella, ho detto di sì. Non glielo dirò e tu non glielo dirai. È tutto a posto…. O vuoi sancire il patto con il sangue?» aveva tentato di scherzare, ma le parole le erano morte in gola quando aveva scorto il lampo di eccitazione negli occhi di Bellatrix. Per un attimo, aveva avuto paura che la prendesse sul serio e si era affrettata a mettere in chiaro le sue intenzioni. 
«Vai a dormire, Bella. Anche io dormirò un po’, ora… Sono ancora stanca…»
«Ma se sei rimasta svenuta per un’ora!» aveva sputato Bella con sdegno. Scrollando le spalle, senza aggiungere altro, era scivolata fuori dalla stanza, rapida e silenziosa come un’ombra. 
Andromeda era rimasta a fissare ancora a lungo la porta chiusa, finchè non era stata distolta dalla sua trance da un dolore improvviso che le aveva bruciato la mano sinistra: una goccia di cera fusa, bollente, le era caduta sul pollice, rigandole il polso. Aveva rimesso in fretta la candela ormai morente sul comodino e si era appallottolata sotto le lenzuola, scoccando un’ultima occhiata furtiva verso la boccetta di pillole. Sembrava ancora abbastanza piena; non si vedeva che ne mancavano parecchie. Ma se qualcuno avesse contato… Se il dottore fosse tornato l’indomani…

Calma, Adromeda.
Inspira, espira. 
Non sei pazza e non stai per morire. Nemmeno Bellatrix sta per morire.
È tutto a posto. 
Tutto meravigliosamente, incredibilmente a posto
 
 
***
 
Aveva quindici anni quando conobbe Ted.
Si erano scontrati in biblioteca: Andromeda camminava reggendo una pila di libri alta quanto la propria testa che le impediva di vedere davanti e, voltando un angolo, gli era finita rovinosamente addosso.
«Oh, Merlino! Scusa, scusa, sono una sbadata. Scusami tanto.»
Visto che lui non apriva bocca ma restava lì a fissarla e basta, aveva sentito un certo imbarazzo iniziare a serpeggiarle dentro, man mano che i minuti si prolungavano e nulla accadeva. Alla fine, girando di qua e di là la testa, constatando che i danni non erano stati poi così terribili, aveva alzato le spalle con espressione buffa e  aveva soggiunto, un po’ incerta: «Ehm… non ti sei fatto male, vero?» 
Un ampio sorriso aveva disegnato fossette sulle guance e sul mento del ragazzo sconosciuto. «Direi proprio di no.»
«Splendido. Possiamo anche smetterla di pulire il pavimento, allora?»
«Ottima idea.»
Lui si era alzato per primo, porgendole una mano e aiutandola a rimettersi in piedi a sua volta.
Mentre raccoglieva uno per uno i volumi da terra – battendone il dorso per togliere la polvere e lisciandone le copertine - Andromeda aveva notato le sue dita, non particolarmente lunghe, non particolarmente aggraziate, ma forti, rassicuranti; mentre glieli rimetteva in braccio, uno per uno, le aveva fatto un sorriso come mai nessuno prima.
Mentre Andromeda si perdeva nelle minuscole rughe di gioia sotto i suoi occhi, aveva pensato: “E’ bello.” E, subito dopo averlo pensato, si era arrabbiata con se stessa perché non avrebbe dovuto pensarci, e non sapeva neppure lei bene perché non avrebbe dovuto. Un’ondata di emozioni contrastanti le aveva fatto sudare i palmi – meraviglia, confusione, indignazione – e, terrorizzata che lui potesse abbassare lo sguardo e scorgere la patina di sudore sulla superficie dei libri che con tale zelo aveva spolverato, aveva messo un’urgenza inesistente nelle sue parole e nei suoi gesti, diventati improvvisamente sconnessi e sgraziati. 
Stupida, stupida Meda. Stai facendo la figura della scema
«Ehm… ci vediamo, allora...»
Non ti viene in mente proprio nient’altro? Oh, Salazar… 
«Sì.» Il ragazzo sconosciuto aveva continuato a sorridere, calmo, e Andromeda si era chiesta in questo preciso ordine: a. come diavolo facesse a sorridere per venti minuti di seguito senza stirarsi i muscoli facciali, b. perché non ci desse un taglio, adesso, iniziava a diventare inquietante e c. se non la stesse per caso prendendo in giro. 
«Sì» aveva ripetuto lei, sentendosi sempre più scema un minuto dopo l’altro. «Allora io vado.»
«E stai attenta con quei libri. Il prossimo malcapitato potrebbe non avere la pellaccia dura come la mia.»
Ah, ah. Simpatico
L’aveva pensato con ironia, ma non aveva potuto fare a meno di crederci veramente, dentro di sé. Era più forte di lei. Lo trovava simpatico, davvero
«Starò più attenta. Promesso.»
«Medaaa! Siamo in ritardo per Trasfigurazione!» Si era voltata al suono del suo nome e aveva visto le sue compagne di corso sbracciarsi dal fondo del corridoio, facendole segno di sbrigarsi. Per un attimo si era ritrovata a sbattere la palpebre, cercando di ricordarsi cosa stesse facendo prima di entrare in biblioteca e andare a sbattere contro il ragazzo gentile. Chi era lei, prima di conoscere il ragazzo gentile. Chiunque fosse stata, quella ragazza non esisteva più: ora era un’altra persona, ed era qui, con il ragazzo biondo davanti a lei che continuava, per Salazar, a mostrarle le fossette come se avessero tutto il tempo del mondo – e davvero nemmeno tutto il tempo del mondo sarebbe bastato per rimirare quelle fossette, no, certo, lei non se ne sarebbe stancata nemmeno se… Ma che accidenti sto dicendo? Ma che mi prende? Per Salazar, per Salazar… chissà cosa avrà pensato di me
Ma cosa le importava di cosa pensasse lui di lei, poi? Non l’avrebbe rivisto mai più…
Basta, era ora di tornare coi piedi per terra: la realtà chiamava, anzi strillava a pieni polmoni...
«Medaaaa! Muoviti, o non ti aspettiamo più!»
«Arrivo! Arrivo!» Si era voltata affannata verso il ragazzo, scostandosi nervosamente una ciocca di capelli dagli occhi e appuntandosela dietro l’orecchio. «Scusa ancora, eh, ma ora devo proprio andare. Devo.»
Il ragazzo aveva annuito, serio. Con suo sollievo – e un pizzico di delusione – Andromeda aveva notato che aveva smesso di sorridere, e che il sorriso era stato rimpiazzato da un’espressione quasi triste, depressa. Si era rifiutata di soffermarsi a indagarne la ragione: davvero, era molto in ritardo per Trasfigurazione, e non aveva molta voglia di farsi mettere in punizione nell’anno dei G.U.F.O..  
 «Allora io vado… Ciao ciao…»
Si era allontanata stringendosi i libri al petto – solo un paio, il resto li aveva riposti negli scaffali –, facendosi forza per non girarsi a verificare se il ragazzo sconosciuto fosse ancora lì – perché tutto poteva essere stato benissimo un sogno, per quanto ne sapeva lei – e, soprattutto, se la stesse guardando. Automaticamente, senza pensarci davvero, aveva impresso alla sua andatura un movimento più fluido – prima i fianchi, poi le spalle, il resto viene da sé – e raddrizzato la schiena, sentendo i muscoli tendersi sotto la camicia.
Si era data immediatamente della stupida: non si era mai comportata così, prima, mai in modo così frivolo. Lei era una Black, che diamine: aveva una dignità. 
Ma allora perché aveva la sensazione di camminare a un palmo da terra? 
 
 
Solo un mese dopo lui avrebbe scoperto il suo cognome. 

 
La terza dote che aveva scoperto di Ted, mentre passeggiavano sulla riva del lago, osservando la mole madreperlacea della piovra gigante pigramente, seducentemente esposta al sole, con lui che le parlava dei suoi sogni, era stata: “E’ intelligente.”
Per Salazar, sembrava troppo per essere vero. Troppo perfetto per essere reale. 
Aveva cercato i difetti dietro i pregi, i vizi dietro le virtù, le pecche dietro le doti che così brillantemente saltavano all’occhio. I suoi occhi l’avevano seguito mentre se ne andava in giro, parlando con le persone o camminando da solo nel parco; l’aveva osservato in silenzio mentre studiava in biblioteca o faceva colazione al tavolo dei Tassorosso, tra lo schiamazzo dei gufi postini e il tintinnio delle stoviglie presto ripulite. Se Ted non smetteva mai di sorridere, Andromeda non cessava mai di guardarlo – e più lo guardava, più si meravigliava di cogliere mille piccoli particolari di lui che le piacevano e mai la annoiavano o la contrariavano, ma soprattutto la riempiva di stupore la tenacia e l’assoluta sincerità con cui lui mostrava di tenere a lei. Cosa poteva mai volere da lei che non potesse trovare in centinaia di altre ragazze? Ecco, quello Andromeda proprio non riusciva a capirlo. E, non capendo, non riusciva a lasciarsi andare, a fidarsi. Si allontanava da lui, ma non faceva mai molti passi più in là prima che lui la riacchiappasse e la riconducesse a sé. 
 
Andromeda non era stata per niente una preda facile, per Ted. Ma Ted non andava in cerca di prede, non gli piaceva nemmeno fare il cacciatore: semplicemente era capitato che, un giorno, una meravigliosa ragazza Serpeverde gli finisse dritta dritta tra le braccia – insieme a una tonnellata piuttosto dolorosa di libri, ma quelli erano particolari irrilevanti –, e da quando aveva posato gli occhi su di lei si era reso conto di non desiderare più null’altro. 
Quando era finito in infermeria per un “incidente” con un gruppo di Serpeverde che lo aveva reso inservibile per una settimana – nonostante l’abilità comprovata di Madama Chips nel sanare pressoché qualsiasi tipo di ferita o maleficio magico – Andromeda era andata a trovarlo. Esitante, quasi timorosa – eppure così fiera, e così bella, nel rossore che cercava di nascondere distogliendo lo sguardo, e nel nervosismo che cercava di mascherare parlando di tutto e di niente, e stringendosi le mani in grembo perché lui non si accorgesse che tremavano. 
Gli fece una tenerezza infinita – e una paura immensa, perché Godric! avrebbe pagato fior di galeoni, in quel momento, perché qualcuno gli insegnasse come mettere a suo agio una ragazza, come farla rilassare e sentire al sicuro. Perché di questo, soprattutto, Andromeda aveva bisogno: di essere al sicuro con qualcuno – al sicuro da che cosa, ancora non lo sapeva. Alla fine, preso dalla disperazione anche lui, aveva iniziato a fare battute per cancellarle dalla faccia quell’espressione angosciata che aveva assunto di fronte alle ferite e ai lividi che gli costellavano il viso e le braccia. 
Ma, inspiegabilmente, più lui si sforzava di farla ridere, più il volto di lei si aggrottava, lo sguardo si incupiva, le labbra tremavano, curvandosi verso il basso. Alla fine, Ted era rimasto zitto, consapevole soltanto del penoso silenzio che si allungava tra loro, dividendoli, e della barriera di pensieri ed emozioni represse che lei gli opponeva, tenendolo con quella a distanza. 
«Meda, che c’è?»
Lei aveva avuto uno scatto. Aveva accennato il gesto di alzarsi dalla sedia, ma si era paralizzata a metà del movimento ed era poi ricaduta sconfitta al suo posto, scuotendo la testa.
«Non chiamarmi Meda, per favore. Se proprio devi usare un diminutivo… preferisco Dromeda.» 
L’aveva mormorato a testa bassa, strofinandosi le mani sulle ginocchia, una nell’altra. 
Ted aveva osservato i suoi gesti senza commentare, anzi, con tono di voce leggero aveva detto:
«D’accordo, Dromeda. Ma… perché non ti piace “Meda”? Io lo trovo…»
«Troppa gente mi chiama così» l’aveva interrotto lei, accompagnandosi con un gesto della mano che voleva spiegare tante cose, senza riuscirci. Ted stava ancora metabolizzando le sue parole, quando lei aveva sollevato improvvisamente lo sguardo, trafiggendolo quasi, e gli aveva detto chiaro e tondo: «So cos’è successo veramente, Ted. So chi ti ha fatto questo.»
Beh, a quel punto era stato Ted a rimanere senza parole. Aveva spalancato la bocca, tentando più volte di parlare, di dire qualcosa, ma non ci era riuscito. Cosa poteva mai dirle? E a che pro continuare a negare la verità? Mentirle non era quello che voleva. Fare finta di nulla, allora? Beh, più facile a dirsi che a farsi. 
«Ted…» In un altro dei suoi gesti istintivi, fulminei, lei si era allungata verso di lui, quasi cadendo dalla sedia, e gli aveva stretto la mano tra le sue così forte che Ted aveva sentito distintamente lo scricchiolio delle giunture. «Ted, mi dispiace, davvero. Non avrei mai voluto che… Vorrei che non succedesse mai più…»
Le aveva detto che era tutto a posto, che andava bene così, che lui stava bene – o meglio, sarebbe stato bene; un altro paio di giorni e sarebbe tornato come nuovo, non doveva rattristarsi per una sciocchezza simile… 
«Tu pensi che…» aveva ripreso Andromeda esitante. « Pensi che l’abbia… l’abbiano fatto perché sanno che tu ed io…»
«Tu ed io cosa, Dromeda? Tu ed io siamo amici?» Il modo in cui aveva pronunciato l’ultima parola l’aveva fatta arrossire furiosamente, ma con fierezza aveva continuato a guardarlo negli occhi, senza abbassare la testa. Aveva solo annuito, silenziosamente.
«No, Dromeda. Non l’hanno fatto per quello. Non conoscono nemmeno il mio nome. Ero solo…» Ted si era interrotto all’improvviso, un grumo di amarezza che gli serrava la glottide. Credeva di averlo superato, di aver imparato a convivere con quella roba, ma dirlo davanti ad Andromeda rendeva tutto mille volte peggiore. «Ero solo il primo Babbano che passava per di là. Mi hanno visto e hanno deciso che potevano divertirsi un po’ con me… Sono stato sfortunato, ecco tutto. Tu non hai nessuna colpa, non c’entri nulla con quei malvagi Serpeverde.»
«Ma-ma io sono una Serpeverde, Ted. E il mio nome è Andromeda Bl-»
«Tu sei diversa da loro. Tu sei diversa da tua sorella, Dromeda. Credimi. Fidati di me.»

Fidati di me
 
Ti fidi di me, vero, Meda?
 
Andromeda annaspava, sentendosi improvvisamente in trappola, racchiusa nella morsa di un qualcosa molto più grande di lei. Le sembrava che lì, ai piedi di quel letto, con le mani in quelle di un Tassorosso – Babbano - che conosceva solo da poco, si dovesse decidere una parte importantissima del suo futuro. Non sapeva da cosa scaturisse quella sensazione, ma c’era – ed era forte e dura come granito. 
Le aveva chiesto di fidarsi di lui. Le stava implicitamente dicendo che non era costretta a diventare come sua sorella; che non per forza si diventa ciò che si è: che anche una Black, se vuole, può diventare qualcos’altro. Una persona, non più un nome. Una persona buona, una persona compassionevole, una persona che conoscesse il valore della vita umana aldilà del sangue. Tutto ciò che un Black non era. 
 
Fidati di me.
 
L’unica persona delle cui parole era sempre stata fermamente convinta era stata proprio Bellatrix. Una volta Bellatrix aveva rischiato addirittura di ammazzarsi per dimostrarle che poteva – che doveva – fidarsi di lei. Perché, se non si fidava di lei, lei non aveva alcun potere sulla piccola piccola Meda. Andromeda aveva sempre creduto a ogni parola che uscisse dalla bocca di sua sorella. Suonavano quasi come profezie, alle sue orecchie di bambina. Ma ora non era più una bambina, aveva quasi sedici anni, era cresciuta. Bellatrix stessa aveva sradicato la bambina e, da ciò che era rimasto nella terra, stava venendo su qualcos’altro – qualcosa che poteva essere buono, dopotutto, che non doveva essere per forza malvagio, come diceva Ted. 
Non era più una bambina. Eppure, era così maledettamente difficile diventare grandi. Osare. Lasciare il terreno familiare, mandare al diavolo i punti di riferimento, le piccole certezze, avventurarsi oltre, abbattere il muro invisibile, vedere quanto e cosa si potesse diventare. Maledettamente difficile. Il coraggio… C’era più di un motivo perché il Cappello non l’aveva smistata a Grifondoro – Salazar ne scampi! La sua famiglia l’avrebbe cacciata di casa… 
«Signorina Black, l’orario di visite è terminato.» Madama Chips si era materializzata al loro fianco come un’ombra dal terreno, il solito viso arcigno, le mani sui fianchi e uno sguardo più che eloquente verso la porta. 
Andromeda aveva voltato la testa a guardarla, indecisa se considerarla il suo angelo salvatore o la casualità che le aveva impedito di abbracciare il suo destino. Si era girata di nuovo verso Ted, non sapendo che fare. Lui aveva gettato un’occhiata alla Chips da sopra la sua spalla, poi aveva guardato di nuovo lei, e infine aveva sorriso, anche se con fatica. 
«Vai, Dromeda. Madama Chips ha ragione, si è fatto tardi. Ci vediamo… domani?»
L’aveva detto con tono basso, un velo di supplica, un pizzico di paura, un guizzo di speranza nella voce. Si era aggrappato alla sua risposta come se da essa dipendesse la sua vita. Un solo gesto, una sola sillaba, e lui sarebbe stato salvo. O sarebbe affondato.

Tu sei diversa da loro…. 
 
Io posso essere migliore di loro
 
«Sì, ci vediamo domani, Ted.»
Le fossette erano tornate sul suo viso, e così anche le piccole rughe intorno agli occhi. 
«Mi ha fatto tanto, tanto piacere la tua compagnia, Dromeda. Grazie per essere venuta a trovarmi, non lo dimenticherò mai.» 
Sulla porta, Andromeda si era girata a sorridergli. Le fossette le avevano dato l’ultimo saluto da quel letto troppo grande di infermeria e lei si era sentita rimescolare. 
Aveva sorriso, senza un perché, per tutto il viaggio di ritorno fino al suo dormitorio. 
 
***
 
La prima volta che, in un corridoio al Settimo Piano, mentre tornavano dal Club degli Incantesimi, Ted all’improvviso l’aveva tirata a sé e baciata contro il muro – staccandosi solo per dirle, senza fiato: «Io ti sposo» –, Andromeda aveva pensato: “Io lo amo.”
Era la prima volta che lo ammetteva a se stessa, e forse non l’avrebbe mai fatto se Ted non avesse raccolto il coraggio, dopo mesi, per baciarla.
Ma doveva aspettarselo che non sarebbe filato tutto liscio.
 
***
 
«Cissy mi ha detto che ti vedi con un Tassorosso.»
Il cuore di Andromeda si era contratto dolorosamente, come un elastico teso al limite, e lei aveva sbarrato gli occhi, irrigidendosi immediatamente a quelle parole.
Cercando di mantenere le apparenze, aveva lentamente abbassato il manuale di Antiche Rune che stava consultando, acciambellata in poltrona davanti al fuoco scoppiettante del salone, e aveva lanciato uno sguardo neutro a Cissy. Ma quest'ultima non l’aveva ricambiato, fingendosi concentrata sulla partita a scacchi che stava facendo con Regulus, distesi sul tappeto davanti al caminetto. Non era però sfuggito ad Andromeda il rossore che  aveva tinto all’improvviso le guance color crema della sorella più piccola – era bastato quello, e il gesto colpevole con cui aveva piegato la testa sulle spalle e incurvato le spalle in avanti, per smascherarla.
Si era sentita tradita, in quel momento? La piccola, ingenua, dolce Cissy, la bambina che le aveva dato dell’acqua quando stava male, che si addormentava al suo fianco, che ascoltava le sue favole… anche lei era cambiata? 
No, non si era sentita tradita. Non in quel momento, almeno. In un certo qual modo, si era aspettata anche quello – che Cissy la tradisse. Anche quello faceva parte del prezzo da pagare per il passaggio all’età adulta. 
Lentamente, aveva alzato lo sguardo su Bellatrix, che la fissava in piedi dall’altro capo della stanza, appoggiata di schiena al muro, giocherellando con la sua bacchetta. Aveva solo diciott’anni, ma in quel momento sua sorella le era sembrata più grande e più spaventosa che mai, molto più dei loro genitori o di chiunque avesse mai conosciuto.
Bellatrix la fissava. Non le levava di dosso i suoi accusatori occhi neri. Non erano più vuoti come erano soliti essere in passato: un nuovo fuoco aveva preso a bruciare in essi, consumandoli. Non era più la stessa Bellatrix di prima – era molto, molto peggio di prima. 
«I Tassorosso sono un branco di mollaccioni, non ti vergogni a frequentare uno di loro?»
Andromeda non aveva risposto nulla. Si era concentrata sulla copertina istoriata che teneva tra le mani, passando i polpastrelli sulle lettere in rilievo che per la prima volta non le dicevano assolutamente nulla – e pensare che lei era una delle migliori, al corso di Antiche Rune. Aveva cercato di distrarsi – per non tradirsi –, ma alle sue orecchie non sfuggiva una sola parola di quelle che uscivano dalle labbra crudeli di Bellatrix.
«Cissy mi ha detto pure un’altra cosa… vuoi saperla, Meda?»
Aveva sentito i passi di Bellatrix premere decisi sulla moquette scura, fermarsi dietro lo schienale del divano di fronte a lei. Aveva guardato, come ipnotizzata, le sue lunghe dita pallide – le stesse dita che avevano afferrato con leggerezza una pillola bianca, anni prima, spingendosela tra la labbra ghignanti – afferrare il velluto con forza minacciosa. Le aveva immaginate stringersi allo stesso modo intorno al suo collo, togliendole la vita. E guardarla, nel frattempo, mentre lo faceva – mentre la uccideva. Bellatrix avrebbe potuto farlo, oh sì. 
Andromeda aveva continuato a evitare il suo sguardo, cercando di non assumere un’espressione colpevole, ma la sua stessa evasività la tradiva.
E Bellatrix l’aveva fiutata subito. Aveva un talento naturale per la Legilimanzia, sua sorella. Andromeda sospettava addirittura che la sapesse utilizzare, inconsapevolmente forse, fin da quando erano piccole. Come altrimenti avrebbe saputo quali erano i suoi incubi peggiori, ai quali attingere per distruggerla? Come faceva a sapere sempre tutto? Come?
«Non lo vuoi sapere, Meda?» La sua voce caustica l’aveva riportata alla realtà con violenza. «Bene, te lo dirò lo stesso… mi ha detto che quel Tassorosso non è solo uno sfigato inetto buono a nulla, ma è anche… è anche…» Sembrava non riuscisse a dire la parola, tanto le faceva ribrezzo. «… uno schifoso Babbano
L’atmosfera nella stanza si era raggelata all’istante. Il sangue nelle vene di Andromeda era diventato esso stesso ghiaccio. Aveva sentito Cissy e Reg trattenere rumorosamente il respiro – già da qualche tempo non sentiva più il rumore delle pedine sulla scacchiera, comunque –, e ora la guardavano tutti e due: due paia di occhioni spalancati, uno azzurro cielo, l’altro nero antracite – lo stesso sguardo orripilato.
Si aspettavano che facesse qualcosa, che dicesse qualcosa. Ma cosa? 
Le dita di Andromeda avevano continuato a muoversi senza senso, tracciando le lettere sulla copertina del libro – cercando la risposta al suo affannoso interrogativo: cosa devo fare ora? Cosa è meglio che faccia?
Si era aggrappata a quel libro come si sarebbe aggrappata a Ted, se fosse stato lì presente – come a uno scoglio contro il terrore che minacciava di travolgerla, sprigionando come fuoco nero dagli occhi truci di sua sorella. Quegli occhi avevano sempre avuto il potere di terrorizzarla. 
Non aveva risposto – consapevole che il suo silenzio era più eloquente di mille parole.
«Ti ricordi di Tripsy?» 
Un sussurro. Un ricordo. 
Le era entrato dentro come una stilettata, rubandole il respiro. 
Andromeda l’aveva guardata all’improvviso - senza difese, come allora.
«Ti ricordi che fine fece il tuo orsetto?»
Era assurdo, lo sapeva, eppure le sembrava di non sentire più il proprio cuore battere; le pupille liquide di Bellatrix la avvinghiavano, trascinandola nel vortice di terrore del passato, dei ricordi – facendole dimenticare addirittura come si facesse a vivere.
«Sai perché Tripsy perse le zampe? Lo sai, su… solo che non vuoi dirlo… Le perse perché la sua padrona era cattiva. Non mi faceva giocare con le sue bambole. Le voleva tutte per sé.»
Gli occhi di Narcissa scivolavano costernati fra Andromeda e Bellatrix, atterrita ma suo malgrado affascinata da quel dialogo improbabile e assurdo che sapeva di cose lontane ma mai dimenticate – nemmeno lei, la piccola Cissy, le aveva del tutto dimenticate, anche se la sua memoria era piuttosto confusa al riguardo. 
E Andromeda… Andromeda stessa non riusciva – non voleva – afferrare completamente il senso di ciò che veniva detto. Davvero Bellatrix stava parlando solo dell’orsetto?
«E quel coniglio?... Me lo ricordo, sai. Anche lui fu punito per le colpe della sua padrona. Lei me lo tenne nascosto, non volle condividerlo con me. Lei non si fidava di me, capisci?...»
No, decisamente non stava parlando solo del coniglio, stavolta. 
Bellatrix si era avvicinata lentamente, minacciosamente. Non aveva più il passo sbilenco da gambero di quand’era piccola; ora avanzava fiera e feroce come un incendio, devastando tutto ciò che aveva la sfortuna di incrociare il suo cammino, fosse esso un coniglietto innocente o un… "uno sporco, schifoso, inutile Babbano"
Si era chinata leggermente su di lei, guardandola con disgusto da sotto le palpebre dischiuse. Si rigirava nervosamente e senza sosta la bacchetta tra le dita della mano destra, come a saggiarne la consistenza, la prontezza
«Bella, smettila. Stai spaventando Reg e Cissy.»
Bellatrix non aveva nemmeno spostato gli occhi; non si era mossa di un millimetro, come se non l’avesse sentita affatto. E il miserevole tentativo di Andromeda di mostrarsi forte, di conservare la propria dignità, di non lasciarsi calpestare, di nuovo, era stato spazzato via in un niente. 
Andromeda l’aveva guardata, impotente, incombere su di lei. Era come vedere una tromba d’aria arrivare da lontano e non poter far nulla per fermarla. Nulla poteva fermare Bellatrix e la sua furia ferina. 
Aveva cercato di non rabbrividire quando lei si era chinata ancora di più in avanti, afferrando  i braccioli della poltrona, il viso a un soffio dal suo, gli occhi perfettamente in linea con i suoi. Aveva tutta l’intenzione di darle una lezione di quelle che non avrebbe scordato difficilmente, a quanto pareva. 
«Proprio sciocca la sua padrona, eh?» Andromeda aveva fissato le labbra di Bellatrix aprirsi e soffiare fuori il loro veleno, impietrita. «Forse ancora non ha imparato che tutto quello che è suo è anche mio. E che cercare di nasconderlo, o di negarlo, non può che farmi arrabbiare. E se mi arrabbio, potrei fare delle brutte cose.»
Andromeda continuava a non rispondere. Si era abituata a tacere quando Bellatrix la minacciava, quando le portava via le bambole, quando la faceva piangere nel cuore della notte, quando la sfidava a raccontare tutto ai loro genitori, come se fosse valso a qualcosa, poi… – "anche se le dicessi qualcosa, lei non ti crederebbe comunque, Meda"… - perchè Bellatrix sapeva raggirarli e circuirli senza che nemmeno se ne accorgessero. Non avrebbero mai dato ascolto ad Andromeda.
Aveva ragione, Bellatrix… aveva sempre avuto ragione – su tutto. 
Le aveva messo l’indice sotto il mento, facendole sollevare la testa, malgrado opponesse ancora una qualche resistenza.
Quando il viso di Andromeda era stato illuminato dai bagliori del fuoco, c’erano lacrime silenziose nei suoi occhi. 
Non aveva mai saputo dar voce al dolore che Bellatrix le causava. Era sempre rimasto intrappolato dentro di lei, chiuso a chiave, logorandola dall’interno.
Ma quella volta era affiorato in parte ai suoi occhi, mentre perdeva anche l’ultimo brandello di fanciulla illusione che le rimaneva.

Pensavi fosse cambiata, Meda? Pensavi ci fosse rimasto del buono, in lei? Una Black non può diventare nulla di buono, Ted si sbaglia. 
Ted si sbaglia, Bella ha ragione.
 
«Mi hai capito, Meda?»
«Sì.»
 
 

Ferite che non guariranno. Mai.





Gravity, no escaping
not for free


Placebo, Special K 




Fine 





Nota: la canzone dei Placebo non c'entra nulla con il significato della storia - ma siano lodati lo stesso, per essere una continua, contorta, seducentemente Dark fonte di ispirazione.
Scritta a tempo di record, senza pretese, senza rifiniture, volutamente esagerando e calcando la mano a più non posso... sì, Emerlith, questa è per te. Perchè adoro farti delle (brutte) sorprese. 
  
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