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Autore: N o r a    01/06/2013    7 recensioni
È una mattina di fine ottobre quando succede, il freddo è più pungente del solito. Sherlock indossa una sciarpa blu, ma l’aria fresca gli entra in una fessura tra la sciarpa e il cappotto, facendolo rabbrividire.
Affretta il passo, di poco. Manca ancora troppo per arrivare a scuola, e Sherlock non ha intenzione di congelare prima.
All’improvviso qualcosa di caldo gli finisce addosso. Alza gli occhi al cielo: non può essere.
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Kid!lock
Genere: Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: I personaggi contenuti in questa storia non mi appartengono, e non scrivo a scopo di lucro.

 

Avvertimenti: questa storia è nata come one-shot, ma visto che ero praticamente a metà, se non meno, ho deciso di pubblicare questa prima parte in modo da non far subire 15,000 parole tutte in una volta. Se vi steste chiedendo che senso hanno i tag alla storia, sappiate che a tutto c’è uno scopo, e non sono impazzita mettendo avvertimenti a caso. XD Avviso inoltre che questo primo capitolo è da rating verde, ma il prossimo si alzerà sicuramente all’arancio, sperando di non sfociare nel rosso. Detto questo, a voi!
Un grazie speciale va alla mia beta PapySanzo89, che mi ha aiutata tanto e incoraggiata a continuare. Senza di lei, probabilmente questa non avrebbe mai visto luce. XD
E grazie anche a Cracked Actress per il supporto. Ai lov iu, girls!      

 

 

Meet me halfway

 

 

 

“Sherlock, ci trasferiamo a Londra.”

Queste sono le parole del padre, e Sherlock sbuffa, al solo ricordo della sua voce baritonale e calma.

Capisce che sarà temporanea anche questa volta, e non riesce a far tacere il suo stomaco, che si contrae nervoso, mentre disfa le valigie e sistema i suoi vestiti nell’armadio troppo grande.

Una stanza solo per lui, questo è ciò che voleva. Dividere la camera con Mycroft e i suoi libri è estenuante. Ed ora è riuscito ad ottenere quella piccola concessione, ma la stanza l’ha sempre immaginata diversa. Più piccola, sicuramente. Più “rifugio”. Invece quella ha quasi le dimensioni della camera dei suoi genitori nella vecchia casa. Il che vuol dire solo una cosa: grande. Troppo, per un bambino di undici anni e sette mesi.

Sherlock fa il suo dovere con scrupolo e precisione, ogni piccola maglietta impilata su un’altra, le camicie distanti da queste e i pantaloni appesi alle grucce. L’abbigliamento estivo sistemato con cura nella parte più lontana dell’armadio.

L’estate è quasi finita. Quest’anno frequenterà una scuola privata. Finalmente.

Non ne poteva più di tutti quei bambini normali che non facevano altro che parlare di fidanzatine e progetti per il futuro, chi voleva fare l’astronauta, chi il pittore, chi l’aviatore, chi il presidente.

Sherlock riusciva ad elencare i motivi per i quali quei sogni non potevano diventare veri, e puntualmente le persone lo additavano, lo accusavano, e lo allontanavano. A volte gli parlavano pure dietro.

« Peggio per loro. » si dice ogni volta. « Un giorno mi diranno “avevi ragione”. »

Fino quel giorno però, non avrai amici. Fa tacere la sua coscienza, ogni volta.

Lui non ha bisogno di loro. Sono stupidi.

Guarda soddisfatto la sua opera: tutti i suoi vestiti sono ora sistemati. Non ha più nulla da fare, se non posare il violino sulla scrivania e osservare compiaciuto la camera. Non è un rifugio, è più simile ad una base.

La finestra dà sulla strada, un quartiere modesto di Londra. Case eleganti come la loro nuova si alternano a casette piccole e deliziose.

Deliziose. Sherlock storce il naso a quel termine. Nota mentale: non utilizzarlo più.

Si siede sul letto a due piazze, al centro, gambe incrociate, scarpe rigorosamente tolte, e giunge le mani sotto il mento, a mo’ di preghiera.

Bizzarro, come i pensieri gli affollino il cervello proprio quando non c’è nessuno in casa.

 

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Il tragitto casa–scuola è lungo e il primo giorno sono richiesti i genitori, per questioni che Sherlock non vuole sapere. Quello che sa invece è che suo fratello, diciottenne, è lì in vece di tutore, e probabilmente sta sciorinando tutti i particolari della sua vita ai suoi professori, mentre lui aspetta comodo su una sedia.

Forse non troppo comodo.

Si è stupito che Mycroft si sia liberato, quella mattina, per lui. Dev’essere importante. Anche se Mycroft studia a casa quell’anno a Sherlock non importa il perché.

Mycroft esce dall’ufficio della preside otto minuti prima dell’inizio delle lezioni, consegnando in mano al più piccolo l’orario e la mappa della struttura.  Quest’ultima è inutile: la scuola è piccola -due piani in totale- non perdersi sarebbe stato facile come bere un bicchiere d’acqua. L’orario va dalle otto e mezzo alle quattro e mezzo. A Sherlock non serve più di una rapida lettura per memorizzarlo.

Sherlock sbuffa. « Ciao, Mycroft. » dice, incamminandosi verso la sua prima aula.

Mycroft inarca un sopracciglio. « Tutto qui? Non mi chiedi cosa ci siamo detti, io e la preside? ».

« Non ci tengo particolarmente, quindi no. » Incredibile quando Mycroft riesca ad essere noioso, con quella sua flemma che di prima mattina è più accentuata del solito.

« Dovresti, dopotutto sei tu che frequenterai questa scuola per i prossimi cinque anni. [1] »

Sherlock lo fissa. « Davvero? Rimarremo qui per sempre ». Sarcasmo.

Mycroft lo guarda divertito. « “Per sempre” è un lasso di tempo troppo lungo, fratellino. Ci rimarremo finché gli affari di nostro padre lo richiederanno. »

Sherlock aggrotta la fronte, incamminandosi verso l’aula, con Mycroft al suo fianco. Inizia a non tollerare la sua presenza. « Se io volessi farmi degli amici quindi non avrei la certezza di poter rimanere a lungo per frequentarli. » Ha parlato velocemente, tra sé e sé, quasi a non voler confessare. Sospira: ormai l’ha fatto.

Mycroft si ferma e questo non è un buon segno. Sherlock si gira e lo guarda. « Sherlock, tu stai scherzando. » Non vedendo alcuna reazione passare per il volto del più piccolo, continua. « Tu non hai amici. Non ne hai mai avuti, e non perché loro non ci abbiano provato. Tu rifiuti tutti. E in tutta onestà, fratellino, fai bene. I sentimenti non sono un vantaggio. [2] »

Sherlock continua a non rispondere, ma un lampo di dolore gli passa negli gli occhi, troppo breve perché se ne accorga, sufficiente perché Mycroft se ne accorga. « Sherlock: tu non ti farai degli amici ». Sherlock lo guarda con aria di sfida. « O almeno, non te ne farai all’esterno di questa scuola. Capito? »

Sembra tanto un’intimazione, e a Sherlock non piacciono. « E se volessi? » chiede, scaltro.

Mycroft non fa una piega. « Sai bene che non puoi. Tu sei un Holmes. Sii consapevole di ciò che significa ».

« E cosa significa? »

« Non fare lo stupido, non ti si addice. Sarebbe malvisto » marca quella parola « e sai quanto a mamma non faccia piacere. Abbiamo un’etichetta da rispettare. Il fatto che tu non partecipi ancora alle serate d’elite non vuol dire che non ci sono. Si verrebbe a sapere subito, e questo non deve succedere. » continua, lentamente. « Non devi assolutamente farti degli amici al di fuori di queste mura, non credo ti sarà difficile. »

Sherlock riprende a camminare, un po’ più velocemente. « Sta per suonare la campana, Mycroft. Ci vediamo ».

« Non sfidarmi, Sherlock. Sai che posso impedirti di frequentare chi voglio. » lo minaccia.

« Non sei il Governo Inglese, Mycroft. » risponde piccato Sherlock.

« Non ancora ». Detto questo, si gira dalla parte opposta e s’incammina verso l’uscita.

Un “Sì, sì” è il borbottio che ottiene come risposta, mentre il più piccolo si avvia in classe e la campana suona.

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Il primo giorno di scuola è sempre noioso. Presentazioni, attività alternative, chiacchiericci inutili. Non hanno fatto lezione, e Sherlock si è stancato di sopportare tutto quell’inutile vociare.  

Adesso sta tornando a casa, a piedi. Sarà sempre così, teme: l’auto serve a suo padre, che lavora fino pomeriggio inoltrato, e sua madre non guida. Suo fratello sì e, di tanto in tanto, suo padre gli presta la macchina, ma è troppo pigro per muoversi. Ne è felice, l’aria Londinese è sempre benaccetta, e non è stupido, sa che camminare è importante.

Passati cinque minuti da quando ha lasciato la struttura, passa un angolo a destra del quale la scuola pubblica –che avrebbe frequentato se i suoi non fossero stati così rigidi sulle sue amicizie- si erge in tutta la sua grandezza. C’è il boom dei ragazzini che escono, probabilmente la campanella ha appena decretato la fine delle lezioni.

Sospira. Non ha alcuna intenzione di fare la strada verso casa assieme ad alcuni di loro: manca ancora mezz’ora di cammino, non potrebbe mai sopportare mezz’ora di inutile conversazione.

Accelera. Purtroppo quella è una strada principale, non riuscirà ad attraversarla ed evitare l’ondata di persone che non vede l’ora di tornare a casa. Maledizione.

E’ così intento a guardare davanti a sé che non si rende conto del ragazzo che gli arriva addosso. Infastidito, lo fulmina con un’occhiataccia, quanto basta a farlo indietreggiare spaventato, ma non abbastanza per evitargli il tedio delle sue scuse.

« Oddio, oddio scusami tanto, ero di fretta e … ».

« Certo, rifila queste cavolate a qualcun altro. » sibila Sherlock alla volta dello sconosciuto, allontanandosi a passo veloce. Le parole di suo fratello gli rimbombano nella testa.  ‘E non perché loro non ci abbiano provato’. Scuote la testa per scacciarle via. Non stava provando ad essermi amico, Mycroft.

Dopo qualche minuto si accorge che il ragazzo di prima lo sta seguendo. Perfetto.  Devono pure fare la stessa strada.

Sherlock fa del suo meglio per ignorarlo, riuscendoci alla grande. E’ solo che sente dietro la sua nuca uno sguardo perforante e gli da fastidio. Cammina più rapidamente che può.

A tre isolati da casa sua, la sensazione di essere seguito scema, e si gira a controllare. Il ragazzo non c’è più. Finalmente.

Sherlock si rilassa e cammina più lentamente ora.  

Appena varca la soglia di casa sospira. Non c’è nessuno. Sarai felice, spero. Nessun nuovo amico all’orizzonte, Myc.

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Va avanti così per qualche settimana. Dopo i primi tre giorni, il ragazzo – biondo, Sherlock constata – smette di finirgli addosso, con enorme sollievo di Sherlock (non l’ha mai lasciato finire di dire le sue scuse, l’ha interrotto sempre a metà). La scuola è noiosa, nulla che lui non conosca già. Una ragazza gli si è avvicinata per chiedergli se avesse una matita in più, e il tono con cui gliel’ha indicata sul suo banco ha fatto sì che nessun altro osasse più rivolgergli la parola. Quello è stato l’unico contatto con una persona da quando la scuola è iniziata.

Il tragitto casa-scuola e scuola-casa è sempre silenzioso, nonostante quel ragazzo lo percorra assieme a lui – qualche passo più dietro. Sherlock gli è grato per non rivolgergli la parola. Non invade la sua privacy, quindi l’opinione che si è fatta su di lui si alza un poco.

Le giornate passano e a Londra fa sempre più freddo. A Sherlock piace l’aria mattutina, che più passa il tempo e più diviene frizzante. Ha sempre amato il freddo, lui.

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È una mattina di fine ottobre quando succede, il freddo è più pungente del solito. Sherlock indossa una sciarpa blu, ma l’aria fresca gli entra in una fessura tra la sciarpa e il cappotto, facendolo rabbrividire.

Affretta il passo, di poco. Manca ancora troppo per arrivare a scuola, e Sherlock non ha intenzione di congelare prima.

All’improvviso qualcosa di caldo gli finisce addosso. Alza gli occhi al cielo: non può essere.

« Non avevi smesso di venirmi addosso? » gli domanda a bruciapelo. Di nuovo il ragazzo.

« Scusa, scusami tanto, è che questo maledetto cappello mi impedisce di vedere bene davanti! » una piccola pausa. « Wow, questa volta mi hai lasciato finire! Come mai? » esclama, notando che per la prima volta quel bambino moro e riccio non l’ha interrotto.

L’occhiata che Sherlock gli rifila fa perdere un po’ del buonumore al biondo. « Oh, scusami. È solo che è strano riuscire a dirti una frase completa » continua. Sherlock lo guarda, ed entrambi pensano la stessa cosa: due frasi.

Sherlock si volta e torna a prestare attenzione alla strada, ma il ragazzo non sembra voler desistere, dato che riesce finalmente parlargli. « Sono John, comunque. » dice, allungandogli una mano.

Sherlock si ferma e si gira verso di lui. Il suo sguardo è curioso e la mente registra automaticamente: “John”. John sta ancora tenendo la mano in fuori, probabilmente aspettandosi che lui la stringa. Probabilmente la sua famiglia gli ha insegnato a presentarsi in quel modo: Sherlock lo trova inutile.

John va via via abbassando la mano, imbarazzato. Sherlock inclina il capo da un lato, notando l’imbarazzo. Perché? Pensa.

Oh. Ma certo. Avrebbe dovuto stringergliela anche lui, anche se non ne vedeva il motivo.

Subito alza la sua mano destra e raccoglie quella dell’altro ormai abbandonata lungo il fianco, stringendogliela.

Le guance di John si tingono di un piacevole rosa.

« Sherlock. Mi chiamo Sherlock. »

« Oh! » dopo un attimo di smarrimento, riprende « Ciao, Sherlock. Che nome strano. » butta fuori senza pensarci. La mano di Sherlock lascia la sua e il suo sguardo si fa infastidito. Torna a camminare guardando davanti a sé.

John si rende conto che probabilmente poteva essere interpretato male e subito si affretta a seguirlo. « Ehi, è bello però! » dice, sinceramente.

Sherlock non si ferma, ma John può giurare che le sue guance si siano un po’ arrossate.

Continuano la strada in silenzio, finché John non gira verso la sua scuola.

« Allora ciao. » dice quest’ultimo. Sherlock lo guarda con quei curiosi occhi azzurri.

« Ciao. » risponde. Mentre lo guarda allontanarsi, si rende conto di essersi fermato più del dovuto, e con un’occhiata veloce al cellulare si accorge di essere in ritardo. Si affretta verso la scuola.

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La giornata passa in fretta e Sherlock esce dalla classe con un sospiro sollevato, che scema appena mette piedi fuori dalla scuola. Osserva le grosse nuvole: fino dieci minuti prima non ce n’erano molte, il cielo era quasi terso –se non si contavano i sottili cirri– e adesso sembra che la giornata sia sempre stata nuvolosa. Probabilmente inizierà a piovere presto. Non che a Sherlock dispiaccia, a Londra è quasi inevitabile essere colti all’improvviso dalla pioggia, e suo fratello gli ha fatto prendere l’abitudine di portare con sé sempre un ombrello.

Si avvia verso casa. Due minuti dopo, sta già piovendo.

Arrivato all’angolo della scuola pubblica, la gente che si accalca fuori dalla struttura è praticamente il doppio del solito. I genitori vanno a prendere i figli da scuola, se piove, affinché non si bagnino, capisce. Questa gli è nuova. A lui non è mai successo.

Dopo qualche minuto, si rende conto che i passi dietro di sé sono affrettati, e si gira giusto in tempo per vedere John affrettarsi verso casa, nonostante manchi ancora poco meno di mezz’ora perché arrivino. Non ha l’ombrello, nota. Probabilmente aveva sopravvalutato la giornata e la capacità di Londra di rimanere serena per più di mezza giornata. Alza gli occhi al cielo mentre si volta: sa cosa sta per accadere.

Il tempo di quattro passi e sente una voce chiamarlo timida dietro di sé. « Sherlock? »

Gira impercettibilmente la testa verso destra. « John. Ciao. » nessun accenno a spostarsi.

John si gratta la testa imbarazzato mentre si stringe nel giubbotto. Inizia a piovere più forte. « Ciao. Ehm, Sherlock, non è che posso venire sotto con te? » gli chiede imbarazzato e rosso come un pomodoro. « Sotto l’ombrello intendo. Sai, la pioggia … » bofonchia. Diventa ancora più rosso mentre attende una risposta.

Sherlock lo fissa curiosamente, di nuovo. Ovvio che intendesse sotto l’ombrello. Cos’altro avrebbe potuto voler dire? Si accorge che il giubbotto di John va facendosi sempre più bagnato e nota che John sta tremando. Sospira. « Sì, vieni. »

Si sposta per far spazio a John che si offre di mantenere l’ombrello in quanto il più alto tra i due. Uno scambio equo, pensa Sherlock. Per la prima volta si concentra sul ragazzo. Lo osserva attentamente, dalla testa ai piedi. È più alto di lui e decisamente più corpulento – o forse è lui che è troppo magro -, biondo, occhi di una tonalità di azzurro diverso da quello di Sherlock, più scuro. Abiti non troppo nuovi, ma in buono stato. Probabilmente la sua è una famiglia media lì, a Londra. Benestante.

John si accorge che Sherlock lo sta fissando e la sua faccia si tinge lievemente di rosa. Imbarazzato.

« Quindi, Sherlock … » inizia. Probabilmente si sente obbligato a parlarmi, per cortesia, pensa Sherlock. Splendido. Reprime uno sbuffo infastidito. « Non frequenti la mia scuola … ».

« Non constatare l’ovvio. » dice rigido Sherlock.

« Come? ».

« Hai appena detto che io non frequento la tua stessa scuola, il che è ovvio.  Non farlo, mi irrita. »  risponde.

John sembra confuso. « Volevo iniziare a conversare un po’ … »

« Possiamo benissimo stare in silenzio. » risponde pronto Sherlock. Per lui andrebbe molto meglio. 

John lo fissa per un po’, fa per aprire la bocca ma poi la richiude. Torna a guardare davanti a sé.

Per qualche minuto, nulla rompe il silenzio se non lo scrosciare della pioggia, i loro passi e le auto e i taxi che passano per quelle vie. Sherlock è totalmente a suo agio e anche John riesce a notarlo. Quest’ultimo invece non riesce a capire come faccia Sherlock a non parlare per nulla, quando lui vorrebbe chiedergli tutto ciò che gli passa per la testa. Insomma, stanno tornando a casa sotto lo stesso ombrello, questo li porta ad essere conoscenti, no? E i conoscenti sanno qualcosa l’uno dell’altro.

Sorprendentemente però, è Sherlock a rompere il silenzio da lui imposto. « John, mi sto bagnando tutto. Non puoi stare più attento con questo ombrello? » gli domanda.

Oh beh, se non altro non è in silenzio.« Tu ti staresti bagnando? » risponde ironicamente. Non è che lui stia scomodo, ma se ha un’opportunità di parlarci, perché non sfruttarla al volo?

« Non capisco perché la tua voglia di parlarmi è così elevata. Seriamente, John. » replica e John arrossisce. Non ne ha idea nemmeno lui, sa solo che il silenzio lo infastidisce. Eppure, Sherlock è bizzarro. Probabilmente se fosse stato uno dei tanti energumeni che affollavano la sua, di scuola, non avrebbe disprezzato così tanto il silenzio.

« Non avevo voglia di parlare, ti ho solo fatto notare che anch’io mi sto bagnando, sai. » risponde sveglio John. O almeno, sveglio per chiunque altro.

« Non insultare la mia intelligenza. La giacca sulla tua spalla sinistra è asciutta quasi quanto la giacca sulla spalla destra, che sta sotto l’ombrello, di conseguenza non ti stai bagnando. Non eccessivamente, almeno. Quindi, perché aver risposto in quel modo? Vuoi iniziare a parlare. » decreta Sherlock, parlando rapido com’è solito fare quando spiega il modo in cui la sua mente lavora.

John lo fissa un po’ stupefatto. « Okay, mi arrendo. Sei bravo a capire le cose. Non mi trovo a mio agio nel silenzio. »

Sherlock arrossisce impercettibilmente. « Ovvio che no, si vede dal modo in cui sei teso. Ma resta il fatto che io mi sto bagnando… » sibila strattonando l’ombrello verso destra, in modo da coprirsi un po’ di più, « …e tu hai tutto l’ombrello. » finisce.

John  lo guarda con occhi ilari. « Anche io mi sto bagnando, Sherlock. » calca il nome dell’altro ragazzo con uno strattone del suo ombrello verso sinistra. Nel farlo, urta una signora che sta camminando nella direzione opposta, che li guarda di traverso borbottando imprecazioni in francese a mezza voce. « Oddio, mi scusi. » balbetta John arrossendo fino alla punta delle orecchie. Sherlock ridacchia. « Vedi cosa succede a stuzzicare me? » risponde.

John lo spintona verso destra, scherzosamente. Non si rende conto della leggerezza di Sherlock però: la spinta è più forte del necessario e Sherlock si sbilancia pericolosamente dal marciapiede. In quel momento, un taxi sta passando per la strada. Subito John tira Sherlock verso di sé, prima che possa perdere l’equilibrio. Non importa più l’ombrello caduto ormai a terra, la pioggia, i passanti. Esistono solo le dita di John premute fortemente  contro le braccia di Sherlock, e gli occhi di entrambi colmi di terrore e sollievo. Il cuore di Sherlock batte ad un ritmo assurdo, John lo riesce quasi a percepire dalla stretta sulle braccia.

« Mio Dio, stai bene? » è tutto ciò che riesce a chiedere John, lo shock ancora presente tra loro.

Sherlock annuisce e basta, lentamente, gli occhi spalancati. Se stesse bene risponderebbe  acidamente, pensa John. Nota che Sherlock sta leggermente tremando.

« Dio mio, cosa ho fatto. Scusami Sherlock, scusami davvero! » dice in fretta, sincerandosi delle condizioni fisiche dell’altro, non appena riesce a muoversi di nuovo. Lo tasta sulle braccia, dietro la schiena, controlla il retro della nuca, con occhi ansiosi. Dio, se gli avesse fatto male …

Sherlock si scosta da John, imbarazzato, andando a recuperare l’ombrello da terra. « Sto bene, non è successo niente. » risponde. John è ancora fermo lì, sembra essersi pietrificato di nuovo. Sherlock, raccolto l’ombrello – magicamente intatto: nessuno deve avergli camminato sopra – torna vicino John.

Lo osserva. John sta visibilmente tremando, gli occhi grandi e colmi di dispiacere, paura. Si morde il labbro inferiore convulsamente, e Sherlock spera davvero non stia per mettersi a piangere. Gli allunga la mano con l’ombrello, una tacita richiesta.

“Grazie” dice quel gesto. “Per non avermi fatto cadere”. E ancora: “Puoi tenere l’ombrello. Mi fido di te”.

John lo accetta silenzioso, prendendolo lentamente, per poi scrollarlo e tornando a coprire entrambi al di sotto. Ora non bisticciano più. John tiene i tre quarti dell’ombrello a coprire Sherlock, mentre lui si bagna quasi completamente. Riprendono a camminare.

« Accidenti, adesso sei tutto bagnato. Non è valso poi a molto. » dice John, osservando quanto si sia bagnato il più piccolo. Non fa caso a sé stesso.

« Lo sei anche tu. » ribatte Sherlock. Ci pensa un attimo. « Non dovresti tenere l’ombrello così tanto sopra di me, ti bagnerai più di quanto non lo sei già. » conclude, arrossendo appena. Da dove usciva quest’improvvisa gentilezza? Probabilmente l’adrenalina l’aveva scioccato e doveva ancora riprendersi del tutto.

« Io sto bene. » risponde John, notando il lieve imbarazzo di Sherlock, guardando altrove subito dopo. Non vuole fargli perdere la pazienza già subito.

« No, non è vero. » afferma Sherlock. Ne è convinto. « Prima non lo tenevi in questo modo. E poi guardati la manica sinistra: è completamente zuppa. » finisce. Non vedendo John muoversi, prende il manico dell’ombrello, avvolgendo la sua mano sopra quella di John, e gentilmente lo sposta un po’ verso sinistra. Sherlock non vuole vedere quello sguardo colpevole sul viso di John. Per la miseria, già è difficile parlare con altre persone normalmente, in più devono pure farti sentire in colpa? Colpa che, tra l’altro, adesso sta completamente divorando John, specie dopo che ha visto quel gesto da parte dell’altro. John non se lo aspettava. Forse ha semplicemente sbagliato a inquadrarlo, forse non è così scontroso con gli altri, magari solamente timido.

« Oh andiamo, la smetti di avere quell’aria da torturato? Non sei stato tu ad essere stato quasi investito! » sbotta Sherlock, allontanando la mano dal manico dell’ombrello.

Come non detto.

John si volta verso di lui, riluttante. L’espressione sul suo viso ancora più triste. « Ti ho già chiesto scusa, Sherlock. » quasi geme John, chiedendosi perché diamine ha dovuto fare tanto lo stupido.

« Ed io ti ho risposto che sto bene e non fa niente. » dice limpido Sherlock, guardandolo negli occhi. John distoglie lo sguardo e resta in silenzio. Sherlock sbuffa infastidito. « D’accordo, passiamo il resto del tempo in silenzio, come vuoi. Era pure ciò che volevo io ». Si gira davanti e cammina deciso, aumentando leggermente il passo.

John ci riflette qualche istante. « No, hai ragione! » si passa la mano sinistra sul viso. Sente Sherlock borbottare un “Come sempre” ma lo ignora, almeno per il momento. « È vero, perché stare giù quando è passato? » conclude, più allegro. Sherlock non risponde, fisso ancora nel suo broncio.

John lo fissa curioso e osserva il viso di Sherlock farsi sempre più rosso. Oh, adora farlo arrossire. « Ma cos’hai da fissare? » esclama all’improvviso Sherlock, arrossendo ancora di più.

John ride. Sherlock non trova la risata sgradevole. È un passo avanti. « Perché cambi umore così spesso! » risponde John, sorridendo – Sherlock può sentirlo sorridere. « Sei proprio strano. » continua, pensieroso. Non ci sono tracce di amarezza, o cattiveria, nella sua voce, quindi Sherlock non la prende male. Non può fare a meno di rispondergli « Lo so. », comunque.

A John piace stuzzicarlo, se ne è appena reso conto. Non può impedirselo, quindi. « Allora, Sherlock. Di cosa volevi parlare, dato che insistevi così tanto che io mi togliessi “quell’aria da torturato” » Fa un’imitazione della voce di Sherlock e poi continua « dalla faccia? » chiede, immaginando la reazione dell’altro.

L’immagine della mente di John non le rende giustizia. Sherlock spalanca gli occhi, si volta a guardarlo con occhi lucidi pronti ad uccidere, e risponde subito un « Io lo facevo per te! » quasi urlato. Non appena si rende conto di ciò che ha detto, cerca di rimediare. « No, cioè, intendevo… » ma viene fermato dalla risata fragorosa di John.

Indispettito e umiliato, si volta in avanti, rosso fino alla punta di ogni capello, e bofonchia qualcosa che John non riesce proprio a capire. Quando si calma un po’ dalle risate, riesce a farfugliare una mezza frase senza che il suo stomaco faccia male. « Sei così buffo! Adoro quelle facciotte che fai. »

Sherlock decide di ignorare categoricamente ogni provocazione da parte di John. È un grosso sforzo farlo con l’ultima, ma ce la può fare. Si impone di resistere.

John si accorge del tentativo di ignorarlo da parte dell’altro, e proprio mentre sta per rifilargli un’altra battutina sulle abilità del suo viso di mutare colore, si accorge che è arrivato all’angolo dove le loro strade si separavano. Si ferma, e Sherlock lo nota subito: deve andare.

« Okay, io giro qui. È stato bello, pomodoro! » lo prende in giro. Vede Sherlock soffocare uno sguardo truce, e ride di nuovo. Senza pensare, alza la mano sinistra sui ricci dell’amico, e gli scompiglia i capelli. Sherlock diventa ancora più rosso di prima – e John non sa davvero come sia possibile – e si scosta. John sorride a trentasei denti, e porge l’ombrello a Sherlock, che lo prende senza pensare. « Ci vediamo domani. Grazie per l’ombrello, e scusa per prima! » gli dice, prima di voltarsi e iniziare a correre, senza aspettare una risposta.

Occhio a non scivolare, sta ancora piovendo, si ritrova a pensare Sherlock. Non sa perché. Forse quel ragazzo è diverso dagli altri che lo chiamano strambo. Scuote la testa e torna a camminare per la sua strada, la mano stretta attorno l’ombrello dove prima c’era quella di John. Il calore del manico è piacevole, in mezzo tutto quel freddo a causa della pioggia.

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Da quella volta, si parlano ogni giorno.

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Le settimane passano, il tempo si fa sempre peggiore, e a volte è talmente brutto da far sentire Mycroft obbligato ad accompagnare Sherlock a scuola. Il padre è d’accordo: nelle giornate particolarmente fredde lascia l’auto al figlio maggiore, mentre lui si fa accompagnare da un suo amico che passa davanti casa loro per andare al lavoro. Quando succede, Sherlock è intrattabile. Per quanto si ostini a dirgli di no, suo fratello è irremovibile. Non che abbia scoperto di John: rimane sempre suo fratello, dopotutto. È troppo impegnato a studiare per accorgersi che suo fratello è sempre di buon umore quando torna a casa, che suo fratello la mattina si prepara con impazienza, per andare a scuola.

O forse, se ne è accorto e non gli importa. Magari pensa che gli interessi la scuola. Sherlock sorride, ogni volta che riflette sul fatto che Mycroft possa credere una cosa simile. La sua apatia verso gli argomenti spiegati e gli obblighi scolastici è rimasta invariata. È solo che si trova bene a parlare con John.

È l’unico che riesce a restare nelle sue vicinanze per più di due minuti.

Quindi no, Mycroft non ne è a conoscenza, altrimenti avrebbe provveduto a pagare qualcuno come tassista fisso. Semplicemente, non vuole che il suo fratellino si prenda un raffreddore.

Buffo, pensa Sherlock. Suo fratello si preoccupa per lui. Ne avrebbe volentieri fatto a meno.

Nei giorni in cui Mycroft lo accompagna, sa che John rimane da solo sotto l’acquazzone, o sotto la neve, o sotto il vento che fa rabbrividire sin dentro le ossa.

E si sente in colpa ogni volta.

Vorrebbe chiedere a Mycroft di lasciarlo stare, per favore, e lasciarlo andare a scuola a piedi. Vorrebbe chiedere lui di portare pure John, per favore, prenderà freddo, e non può permettersi di avere il miglior dottore di Londra come noi, sai, non è così ricco, ma poi si ricorda della felice intimazione di suo fratello di non farsi amici, e sta zitto.

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Un giorno, Sherlock sta guardando fuori dal finestrino della macchina, quando lo vede.

Sono tre giorni che il tempo è terribile e Sherlock va a scuola e torna accompagnato in macchina. Il tragitto è sempre lo stesso, ma è diverso da quello che fanno lui e John a piedi – alcuni divieti d’accesso fanno in modo che ci sia un altro percorso più breve se fatto in auto.

Oggi la strada è bloccata a causa di lavori – evidentemente la pioggia ha fatto saltare qualche tombino – noioso, non degno di nota – e Mycroft è costretto a prendere la via più lunga.

John è quasi arrivato, mancano una decina di metri perché si confonda con le altre persone davanti la sua scuola. È stretto nel suo giubbotto, e stringe l’ombrello con entrambe le mani, lottando contro il vento e la pioggia. Le nocche sono più bianche del solito, e il naso rosso a malapena visibile. È affondato nel giubbotto sin sotto il naso, ha un cappello di lana che gli copre i capelli e lascia liberi gli occhi a fatica.

È quasi irriconoscibile, ad un occhio non allenato. Sherlock riconosce la sua camminata un po’ frettolosa, il suo giubbotto e l’ombrello – da quel giorno, l’ha portato ogni volta.

John non lo riconosce perché, il tempo di qualche secondo, e Sherlock è già lontano.

Sherlock vorrebbe scendere e riscaldarlo. Con una coperta, con un po’ di fuoco. Magari abbracciandolo. Non appena pensa ciò, però, spalanca gli occhi e scuote la testa. Da dove diamine mi è uscito? L’arrivo a scuola riesce a distrarlo abbastanza da fargli dimenticare di cancellare quel pensiero dalla sua mente.

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Quel giorno, il tempo migliora.

Uscendo da scuola, Sherlock non trova l’auto di Mycroft ad aspettarlo, e sorride, ringraziando mentalmente il fratello per la sua pigrizia.

Sta camminando da qualche minuto, quando si accorge di non avere l’ombrello in borsa. L’ha tolto due giorni prima, quando Mycroft l’ha avvisato che sarebbe passato anche al ritorno, e da allora non l’ha più rimesso in borsa. Una terribile mancanza. Sherlock si insulta mentalmente per un po’, prima di crearsi un promemoria mentale.

Non fa in tempo a finire, però, che una voce familiare lo distoglie dai suoi pensieri.

« Dopo due mesi, ti sei già stufato di me? » gli chiede John, sorridendo. Sherlock può sentirlo sorridere. La voce proviene dalle sue spalle, e Sherlock torna immediatamente coi piedi per terra. Si ferma subito sul posto, e si volta. Di solito è lui ad aspettarlo all’uscita, oggi invece è passato davanti ad essa senza neanche accorgersene.

Sherlock sorride. « Accidenti, mi hai scoperto! Come farò ora? » risponde, scherzando. La felicità è palpabile nella sua voce.

John sorride a trentasei denti e accelera il passo per raggiungerlo.

Arrivato di fianco a Sherlock, gli tira una leggera spallata. Gli piace, quando l’altro sorride. « Allora, che fine avevi fatto? » gli chiede, iniziando ad incamminarsi con lui.

Sherlock si imbroncia. « Mio fratello » dice solo.

John, sentita quella risposta, si incuriosisce, e lo fissa intensamente, la domanda “Hai un fratello?” lampante nei suoi occhi. Se è stato suo fratello a fare qualsiasi cosa abbia fatto, non poteva essere più piccolo di lui. Cerca di immaginarsi una versione verosimile del fratello: immagina uno Sherlock più grande, con gli occhi azzurri, i capelli ricci e neri, il viso più grande e il carattere bellicoso e imprevedibile accentuato dall’adolescenza. L’immagine mentale gli fa spalancare gli occhi e scuotere la testa velocemente. Oh Dio, poveri genitori, pensa John.

Sherlock, come al solito, riesce sempre ad intuire ciò che pensa. Infatti ridacchia. « Sì, ho un fratello, e no, non è adolescente. È molto più grande di me. » risponde Sherlock alle domande implicite di John.

A quel punto, nella testa di John si forma da sola l’immagine successiva. Vede Sherlock da adulto, alto e magro, capelli ricci e neri, e occhi indagatrici. Vede un uomo impossibile, capriccioso e bambino, che riesce a dirti tutto ciò che ti passa per la testa.
E la cosa che lo fa restare a bocca aperta è che l’immagine gli piace.

« John? » lo chiama Sherlock, qualche passo più avanti. John trasale a malapena, e mette subito a fuoco Sherlock, tornando a Londra col pensiero. Non si è accorto di essersi fermato.

« È più grande di me solo sette anni, non così tanto. » continua il moro, pensando di aver esagerato nell’aumentare l’età di Mycroft. Sherlock questa volta non ha capito cosa stia pensando John. E quest’ultimo non può esserne che felice, e sospira sollevato, avanzando.

« Oh. Wow. » John non riesce a tirare fuori nulla di meglio. Poi però ripensa all’argomento principale: il fratello di Sherlock ha fatto qualcosa che non li ha fatti vedere per tre giorni. « Cosa ha fatto? » chiede.

Sherlock aggrotta le sopracciglia, nervoso. « Dato che c’era maltempo ha voluto accompagnarmi a scuola, e pure riprendermi. Come se fossi un bambino! » esclama, risentito.

John non può fare a meno di ridere a quell’affermazione, facendo imbronciare Sherlock. « Oh certo, non sei un bambino! » concorda John, ancora ridendo. Vede Sherlock girarsi dall’altra parte, come ogni volta che è arrabbiato – fintamente – con lui, o come quando è imbarazzato, o come quando vuole trattenersi: in effetti, lo fa spesso.

« Ma certo che no, Sherl. Ci mancherebbe! Hai già undici anni! » ironizza John, e ricomincia a ridere, godendosi le guance di Sherlock di colore rosa scuro. Gli era mancato in quei tre giorni.

« Non prendermi in giro! » sbotta Sherlock, alzando la voce. « Anche tu hai solo tredici anni! » finisce.

« Infatti io non ho mai detto nulla. » risponde calmo John, sorridendo. Guarda Sherlock: è così piccolo e magro, gracile, nonostante il suo carattere compensi la costituzione fisica. John teme quasi che possa spezzarsi in ogni momento.

Sherlock si accorge di essere guardato, ma invece di innervosirsi come al solito, osserva John a sua volta. John pare star riflettendo, quindi decide di vendicarsi in quel modo. « Cosa hai di così importante su cui riflettere, John? » chiede, d’un tratto interessatissimo. « È un evento più unico che raro, non posso perdermelo! » finisce.

John lo spinge debolmente – si ricorda ancora della prima volta che l’ha fatto e non ci tiene a ripetere l’esperienza, tante grazie – esclamando un “ehi!” alla direzione di Sherlock. Quest’ultimo si gira e gli fa la linguaccia. John scuote la testa, divertito.

Subito dopo torna serio. « Pensavo a tuo fratello. In realtà ha fatto bene » inizia. Sherlock lo fissa sbigottito, pronto a ribattere, ma John è più veloce di lui. « Guardati, Sherlock. Sei così piccolo, ho l’impressione che non ci voglia molto a farti ammalare. Per cui sì, appoggio la decisione di tuo fratello di accompagnarti, quando c’è brutto tempo. » finisce orgoglioso di se stesso.

Sherlock non può credere alle sue orecchie. « John, tutto questo non ha alcun senso. Tu vai ogni volta a piedi, eppure eccoti qui, ancora sano come un pesce. Magari infreddolito, ma nulla di ché. Non capisco come mai tutti pensino che io non sia in grado di reggere qualche grado in meno e un po’ di pioggia! » esclama, rabbuiandosi.

John capisce che questa volta non scherza. Sospira. « Sherlock, non puoi paragonare la mia costituzione con la tua. Io sono più robusto, so sopportare il freddo, ma tu sembri così delicato e … » non fa in tempo a finire che Sherlock lo interrompe.

« Delicato! Non sono una femmina! So quanto riesco a sopportare e so quanto tu » calca bene il pronome « puoi sopportare. Ti ho visto questa mattina, eri tutto stretto nel tuo giubbotto e tremavi. Ti erano sbiancate le mani dal freddo. Quindi non venirmi a dire che … ».

Adesso è il turno di John di interromperlo. « Genio, se io stavo così, figurati tu! Ho più muscoli di te e tuttavia stavo in quello stato. Come ti saresti sentito tu? » chiede, alzando la voce anche lui. « E poi, ho detto che approvo la scelta di tuo fratello, non che mi piace, né tantomeno che l’ho incoraggiata o cose simili. Perché te la prendi con me? » chiede, sull’orlo delle lacrime.

Sherlock le nota, ma decide di ignorarle. « Perché io sono fatto così! » esclama, punto sul vivo. È questo che le persone vedono in lui: un bambinetto capriccioso che addita e insulta gli altri senza apparente motivo. E a quanto pare, anche John lo fa.

« Allora dovresti cambiare un po’, sai! » sbotta John. Si pente subito di quelle parole, però, notando un luccichio sottilissimo sotto gli occhi di Sherlock, prima che questi si giri e si passi la mano sul viso velocemente.

Va per scusarsi, ma Sherlock è più veloce di lui. « Impossibile, scusa per non essere la persona normale con cui pensavi di parlare! » dice, accelerando il passo. Si intravede già l’angolo dove girerà John.

John, da parte sua, non riesce a tirare fuori niente di tutto quello che sta pensando. Se solo Sherlock lo guardasse negli occhi, riuscirebbe a vedere le scuse dietro di essi.

Ma lui non lo fa.

Anche John aumenta il passo, cercando di stare dietro a Sherlock. Non vedendolo fermare, prova a chiamarlo « Sherlock … ». Nessuna risposta. « Sherlock, ti prego, girati, non intendevo dire quello. » cerca di scusarsi, ma Sherlock non ne vuole sapere e rimane avanti a lui, camminando velocemente. Tra un po’ si separeranno e non è questo il modo in cui John voleva che andassero le cose.

Fa un ultimo tentativo, prima che la strada li divida. Lo affianca e lo prende per una spalla. « Sherlock, per favore. » tenta di farlo girare. Sherlock si libera con uno strattone, e nel farlo si gira parzialmente – involontariamente – verso John. Dura una frazione di secondo, ma John metterebbe la mano sul fuoco: Sherlock stava piangendo.

Lo stomaco di John fa un piccolo balzo, mentre sta per dire qualcosa e Sherlock lo precede. « Non toccarmi, John ». E detto ciò, si allontana, lasciando John immobilizzato sul posto.

In quel momento, inizia a piovere.

John aspetta con impazienza il momento in cui Sherlock tirerà fuori l’ombrello ma, quando questo non accade, si inizia a preoccupare. Non ha l’ombrello. E se distasse molto da casa? Non può davvero lasciarlo stare. Senza pensarci, inizia a correre verso di lui, avvicinandoglisi abbastanza, gli dice « Sherlock, prendi il mio ombrello, ti bagnerai tutto! ».

Sherlock si volta di scatto e inizia a parlare a raffica. « Non seguirmi più fino qui, John. Parlo seriamente. Non mi interessa se c’è neve, fulmini, tempesta o altro. Non. Devi. Seguirmi » sibila. Si guarda alle spalle e poi torna a voltarsi verso John. « Non dire a nessuno di essermi amico, neanche ai tuoi. Promettilo. » dice, urgente.

John, rincuorato dal fatto che Sherlock sembrasse più preoccupato per quella “segretezza” che per la loro litigata e dal fatto che avesse usato “essermi amico” invece di “essermi stato amico”, e dal fatto che gli avesse chiesto di promettergli qualcosa, sorride. « Te lo prometto. Ma perché … » non fa in tempo a finire che Sherlock si è già voltato e sta già camminando a grandi passi verso casa sua. John ci rimane un po’ male – non si è preso neanche l’ombrello – ma perlomeno non si sono salutati da litigati.

Sospirando, si gira e si avvia verso casa, quando all’improvviso un luccichio gli cattura lo sguardo. Non fa in tempo a metterlo a fuoco, però, che è sparito.

John pensa di esserselo immaginato, e, scrollando le spalle, se ne dimentica.
Si appunta mentalmente di chiedergli il perché del motivo di tanta segretezza, l’indomani.

Peccato che il maltempo non permetterà loro di vedersi per un bel po’.

 

 

  

 

 

 

 

 

[1] In Inghilterra il sistema scolastico è diverso da quello italiano: lì i ragazzi, dopo aver terminato la Primary Education, che va dai cinque anni di età agli undici, frequentano la Secondary Education, dagli undici ai sedici anni. Dai sedici ai diciotto anni c’è la Tertiary education, facoltativa, al termine della quale ci si iscrive all’università.

[2] Citazione 2x01, A scandal in Belgravia.

 

 

 

                                                                                                                                                                                                 

   
 
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