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Autore: miss potter    02/06/2013    1 recensioni
Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.
Ernesto Che Guevara
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Author's Corner

Gentile fandom,
chiedo umilmente perdono per le tempistiche da lumaca zoppa con cui sto scrivendo l'ultimo capitolo di "Dancing Star" ma sono nel pieno dei miei esami e credo di riuscire a pubblicarlo solo verso metà giugno.
Intanto presento il primo capitolo di quella che spero sia la mia prossima storia a capitoli, capitoli più brevi questa volta ma credo più intensi.
Periodo: Grande Terrore
Ambientazione: URSS, lager GULAG
Argomento, questo, che sto studiando la cui particolarità mi affascina. Il mio intento è quello di presentarvi un periodo storico parecchio buio, terribile, di cui secondo me si parla sempre troppo poco a scuola e ci tengo a precisare che assolutamente non mi voglio improvvisare storica nè esperta in materia. Per questo chiedo scusa a chi si dovesse sentire offeso e per le eventuali inesattezze. Cercherò di attenermi il più possibile alle informazioni derivatemi da appunti e due libri di 600 pagine l'uno che ho dovuto studiare.
Più che probabile presenza di OOC e di tematiche delicate. Fandom avvisato, mezzo salvato (ritenetevi liberi di farmi cambiare il rating).

miss potter



















1937.

Non proprio una bella annata, come si dice.

Fermentiamo a mollo di questi tempi duri, i miei, i nostri, tempi mordaci in cui è quasi meglio mangiarsi la lingua piuttosto che prendersi l’autorizzazione di parlare, anche perché sembra che ci sia rimasta solo quella ormai da mettere sotto i denti quando questi non battono per il fottuto freddo.

È il 1937 quando mi ritrovo seduto con le chiappe atrofizzate ficcate nella neve, la lana della divisa logora che gratta la pelle rinsecchita e giallastra, ammalata, e l’odore acre del grasso del fucile che mi brucia dentro le narici e mi sale alla testa. Quasi meglio della vodka appena distillata, calda, incandescente giù per la gola e nello stomaco, la piacevole e quasi orgasmica sensazione dell’alcol che entra in circolo così deliziosamente presto perché, da medico militare lo so, non ho mangiato niente da stamattina.

È il 1937 quando le scorte di speranza stanno finendo un po’ per tutti insieme a quelle delle patate e del liquore, ed è ancora il 1937 quando mi rendo conto che, tra una bestemmia ed un’imprecazione, sto pregando di morire adesso, in questo sputo chilometrico di terra ghiacciata, piuttosto che restare un altro secondo in più immerso in questa merda.

«Quanti?» mi chiede ad un tratto il compagno Michail seduto al mio fianco, tremando tutto mentre si strofina le grandi mani robuste inghiottite dagli spessi guanti di cuoio e pelliccia.

È un buon soldato, Michail, leale e dal temperamento mansueto, con abbastanza grasso nel ventre ed intorno al collo da farmi ben sperare per la sua incolumità anche in balia di questi trenta gradi sotto lo zero e dei proiettili vaganti. Laureati in Medicina nella stessa università, ci siamo ritrovati a fare i soldati. Non potrei fidarmi di nessun altro al campo.

Dalle sue labbra sottili e violacee fuoriesce una cortina di vapore densissimo che si disperde nell’aria gelida di questo grigio ed infausto pomeriggio di principio dicembre ed io m'incanto, osservandola sfumare tra i flutti del vento che se la porta via, lontana, tra le molecole d’ossigeno, azoto e carbone.

Chissà com'è essere vento. Chissà che sapore ha la libertà.

«Duecento unità e qualcosa» rispondo distratto, e mi sistemo il fucile sulla spalla buona per tirare fuori il mio taccuino e verificare con esattezza il numero.

All’orizzonte, oltre le alte reti di filo spinato, oltre il muricciolo appena eretto di paglia e fango, una lunga serpentina di straccioni, martoriati dal freddo, procede lenta come uno sciame di anime all’inferno, pallidi cadaveri riesumati coperti di terra e croste che marciano e marciscono a piedi nudi nella neve in fila indiana, il capo basso, piangendo silenziosamente mentre i miei uomini li tengono in riga coi calci delle armi.

Questi miscredenti, traditori, rifiuti della società si lamentano se li insultiamo, se li battiamo... Oh infelici, non ci si riconoscono affatto, loro, perché mordono i capezzoli della loro stessa Madre, e scalciano e urlano come deformi creature partorite dal grembo oscuro del Demonio, questi esseri brutali dalle mani ruvide e dal cuore troppo puro.

Devono morire, morire tutti, urla la vodka e la mia parte meno antropica mentre li guardo cadere carponi nel ghiaccio e storcersi le rotule, e scuoto il capo.

Bastardi. Meritate questo e peggio.

Odo le grida sempre più vicine dei miei sottoposti, le timide proteste dei più giovani, i pianti strazianti dei vecchi, secchi e nodosi come rami morti, che si aggrappano ai calzoni dei loro aguzzini supplicando di essere lasciati a morire nella neve ed invece vengono strattonati bruscamente per le braccia graffiate e fatti rialzare.

Probabilmente sono reduci di un viaggio in treno di qualche decina di ore e di una marcia altrettanto lunga nella steppa. Niente di che, niente di diverso dalla routine.

Nemici del Partito, li chiamano. Li chiamo. Sempre la solita storia da qui a circa dieci anni.

Che gli costa?

«Capitano» mi fa cenno col capo un giovane soldato semplice, porgendomi il saluto militare. «Il contingente.»

Tossisco un paio di volte, risvegliando i sensi intorpiditi, e mi sembra di vomitare i polmoni e il cuore tutto assieme. Mi faccio forza e, aiutato dal compagno Michail, mi rialzo da terra, barcollando.

«Sì…»

«Signore, si sente bene?»

Sembra preoccupato, il soldato. In realtà sto meglio, molto meglio di qualsiasi prigioniero costretto in piedi sotto le sferzate di questo freddo letale, in riga davanti ai miei occhi con le ginocchia sbucciate e tremanti, ma mi piace far preoccupare la gente, farla sentire inadeguata proprio come mi sento inadeguato io ogni istante in questo limbo di occhi vitrei e suppuranti paura puntati addosso sia che vegli sia che dorma, l’incredibile meraviglia di quando si è consapevoli di avere delle vite in pugno e di poterne decidere il destino.

Sì o no. Che mi costa?

«Benissimo.»

Li guardo a malapena: ai miei occhi sono tutti uguali, perché ogni volta è sempre tutto uguale, davvero. Non ce n’è mai uno di minimamente esclusivo, di più bravo, di più alto, di più basso, di più malridotto, di più… speciale.

Quindi do una rapida occhiata alle cifre del mio taccuino e scribacchio e sottoscrivo e cancello. Tutto uguale. Mediocre.

«Problemi?» chiedo al soldatino dritto davanti a me, senza guardarlo.

«Nessuno.»

Trema come una foglia, lo sento. L'odore della paura mi è stranamente familiare e me ne inebrio.

«Perdite?»

«Da duecentocinquantasei a duecentotrentotto, signore. Sette nei vagoni e undici in marcia.»

Arrotondo scribacchiando un duecentoquaranta sotto la colonna dei superstiti e no, adorato lettore, non mi sento in colpa per questo.

«Abili al lavoro?»

«Tutti, signore.»

Sorrido.

Finisco il rapporto, chiudo il quadernetto e lo consegno al compagno Michail. La Madre sarà fiera.

«Esattamente» sussurro, congedando il soldatino con un buffetto sulla spalla. «Esattamente.»
  
 

  
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