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Autore: Roxar    02/06/2013    7 recensioni
E dopotutto, mentre tutto è cambiato, niente è cambiato veramente. Siamo sempre quelli di quindici anni fa: io vado a caccia, Peeta prepara il pane e Haymitch beve.
Ma no, non è vero. Adesso tutto cambierà davvero; un figlio mette tutto in una prospettiva diversa, naturalmente. Anche e soprattutto le nostre vite, la nostra quotidianità.

[Peeta/Katniss | Post-rivoluzione | OS]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mondo come lo conoscevamo non

 

 

Il mondo come lo conoscevamo non esiste più.
Panem è in pace. I distretti cooperano tra loro, gettano le basi per un'esistenza dignitosa e accettabile e, in generale, tengono Capitol City al guinzaglio, sotto stretta osservazione, nel caso che qualche manipolo di abitanti decidesse di insorgere e restaurare il precedente regime.
La Paylor, dal restaurato Palazzo di Giustizia che sorge al centro esatto del Distretto 8, tiene le redini del Paese, governando con cauta saggezza.
A piccoli passi, torno a vivere anch'io, mese dopo mese, anno dopo anno. Inanello piccoli trionfi che, poco alla volta, mi restituiscono a me stessa, mi fanno sentire più Katniss e meno Ghiandaia Imitatrice dalle ali carbonizzate.
Mi occupo della casa, spazzo i pavimenti; ogni tanto indugio sulla sedia e fisso il camino, persa tra i flutti del passato.
Scrivo molte lettere a mia madre, qualche volta le chiedo di tornare qui, a casa nostra. Non la sontuosa abitazione appollaiata nel Villaggio dei Vincitori – non esiste neppure più, quel pezzo di distretto – ma la piccola casupola fatiscente ad un tiro di schioppo dal Prato, un tempo squallido fazzoletto d'erba, oggi parco commemorativo.
Non acconsente mai, ma neppure nega. Peeta dice di essere paziente e comprensiva, che la perdita di un figlio provoca un dolore perpetuo e che quindici anni sono appena una manciata di secondi.
Mi sforzo di credergli, mi convinco che anche lei ha bisogno di procedere a piccoli passi e che le sporadiche visite a casa nostra siano un ottimo inizio per qualcosa di più tangibile e duraturo.
Vado a caccia.
Ogni sabato mattina, che Peeta dorme ancora riverso tra le coperte, scavalco la bassa staccionata di legno – dobbiamo ancora tenere lontani i predatori selvatici – e scivolo nei miei cari boschi, immutati e silenziosi come li ricordo.
Gli alberi al delimitare del distretto sono stati sradicati dieci anni fa; nessuno poteva sopportare quei tizzoni inceneriti piantati nel terreno, nessuno tollerava il memento intessuto nella corteccia nera e morta.
Al loro posto sono stati piantati piccoli arbusti che, ad oggi, mi superano di una spanna, verdi e rigogliosi.
Raggiungo il lago, anche se il peso degli anni mi preme addosso e il fiato si fa sempre più corto, faccio una nuotata veloce, il mio personale saluto a quei luoghi così amati.
La domenica accendiamo il fuoco nel camino. Peeta cuoce il suo pane, io la selvaggina fresca.
Amo Peeta.
Lo amo non del sentimento costruito e indotto che Capitol City mi aveva costretta a provare, ma di un amore trasparente e sincero.
Ci rispettiamo, ci aiutiamo a sopravvivere. Leniamo reciprocamente i nostri incubi, mi rincantuccio tra le sue braccia, il suo profumo mi aiuta a navigare in acque placide e innocue, lontano dai mari turbolenti e arrossati di sangue.
Facciamo l'amore.
Ci è voluta una sana dose di convinzione e uno stentato compromesso prima di accettare, prima di concedermi a lui.
L'apoteosi del nostro amore in cambio della promessa di non cercare figli.
È l'unica condizione che ho imposto, l'unica che, ironia della sorte, Peeta era restio ad accettare.
Da anni cerca di blandirmi, tenta di mostrarmi immagini di vita colorate di risate infantili e bambini da tenere stretti.
Non attacca.
Non voglio avere figli, non voglio dover sperimentare la delusione di un mondo nuovamente capovolto, del ripristino degli Hunger Games.
Ho ancora troppe ferite addosso, non sono pronta. Forse non lo sarò mai.
Poi però guardo Haymitch interagire con il suo bambino, accompagnarlo per il distretto, mano nella mano, e una strana forma di invidia mi pervade, risale dallo stomaco, bruciante come bile e mi chiude la gola.
Guardo Haymitch ma vedo Peeta, sorridente e selvaggiamente felice mentre cammina al fianco di un bambino biondo come lui, con i suoi stessi occhi azzurri. In quei momenti la mia ostinazione vacilla. E prendo in considerazione, con estrema cautela, l'ipotesi di un figlio. Ma la paura è sempre più forte e prima ancora che il desiderio di paternità di Peeta possa attecchire, la visione scompare e io resto attaccata alla mia convinzione.
Qualche volta Gale torna al Distretto 12.
Non viene mai a cercarmi, se mi incontra per strada volta la testa o cambia strada.
Non provo rancore per lui; forse solo un po' di tristezza e una punta di amarezza.
Ho provato a parlargli, una volta, ad avvicinarmi, ma la sua freddezza mi è servita da monito per il futuro, per le visite a venire.
Quando l'ho raccontato a Peeta (parlo sempre di tutto, con Peeta) il suo viso si è contratto in una smorfia triste. L'ho abbracciato e l'ho baciato, assicurandogli di non avere nulla di cui sentirsi in colpa.
Mi manca Gale, mi manca perché so che non tornerà più; il cacciatore dal passo vellutato, che inveiva contro Capitol City, quello secondo cui sorridevo solo nei boschi, non esiste più. Al suo posto è rimasto solo un uomo cinico, temprato dalla ribellione, sorto dalle ceneri del Distretto 12.
Ogni giorno porto fiori sempre diversi e sempre variopinti sulla tomba di Prim.
Al delimitare del distretto è stato costruito il cimitero cittadino. A distanza di molti anni, qualcuno mi batte ancora qualche pacca sulla schiena, in segno di consolazione. Preferirei che non lo facessero, non ho più imparato ad accettare nuovamente tocchi estranei, ma almeno non scappo più né mi scosto.
Resto accovacciata sui talloni fino a che le gambe non inviano scariche di dolore, allora capisco che è ora di rincasare.
Racconto a Prim la mia vita senza di lei. Le chiedo se è felice adesso che Ranuncolo è nuovamente con lei.
Piango ancora qualche lacrima, ma sento che il dolore, lentamente, sta mutando. Non più acuto e pulsante come una bastonata, ma sordo e placido come un'emicrania. Non credo però che mi abbandonerà mai del tutto né voglio che lo faccia.
Il dolore serve a tutti noi, per ricordarci di essere migliori di quel che eravamo. Per ricordarci quanto ci è costata la libertà e non farcela più sottrarre.
Trascorro lunghi pomeriggi con la cornetta del telefono premuta contro l'orecchio, a bearmi della voce meravigliosamente viva di Cinna.
Quando ho scoperto che le fonti di Plutarch erano in errore, che lui, alla fine, si era salvato, ho provato un senso di sollievo talmente forte che ho iniziato ad emettere quei suoni orrendi, come di gemiti strozzati mischiati a singhiozzi. E quando si è presentato al Distretto 12, un po' fiaccato ma vivo, mi ci è voluto un po' per convincermi a staccarmi da lui, a slacciare le mie braccia strette attorno alla sua vita.
Parliamo di noi, delle nostre giornate; mi racconta della sua nuova vita nel Distretto 4, della sua casetta accucciata sulla spiaggia, di come l'alba e il tramonto, mitigati dal mare, sappiano ispirare il suo lavoro; dice che da tempo sta valutando l'idea di trasferirsi nel Distretto 12 perché vorrebbe avere vicino le persone che gli hanno cambiato la vita, le migliori e le più coraggiose che abbia mai conosciuto. Lo saluto ogni volta con un sorridente ciao, promettendogli di contattarlo quanto prima.
Insieme a Peeta, ceno spesso da Haymitch o è lui che viene da noi.
Parliamo tanto e mai di qualcosa di importante, perché le cose importanti, noi, stiamo cercando di mettercele dietro alle spalle, così che non possano ostacolare il nostro futuro.
Ci racconta di suo figlio, di come Effie vorrebbe trascorrere più tempo assieme a loro; ci getta occhiatine pungenti e mi domanda quando mi deciderò ad allargare la famiglia. In risposta, gli riempio il bicchiere di vino e lo invito a bere.
Haymitch ride, Peeta scuote la testa, sorridendo rassegnato. E so che il suo sorriso non è sincero, non fino in fondo.
Ogni tanto mi capita di ricevere telefonate da Annie, che mi racconta del suo bambino dagli occhi verdemare, da Johanna e del suo ruolo di governatrice del Distretto 7, da Plutarch, da molte altre persone di cui non mi importa nulla ma con le quali parlo per pura educazione.
La mia vita scorre così, placida e regolare, inestricabilmente intrecciata a quella di Peeta.

(26 Marzo, quindicesimo anno post-rivoluzione)

 

La primavera ci accoglie a braccia aperte, regalandoci lunghe giornate soleggiate e una tiepida brezza mitigata dall'effluvio dei fiori.
Con lei giungono dei piccoli, bizzarri malesseri.
Le vertigini mi colgono nei momenti più improbabili, il mio stomaco rifiuta di conservare anche i pasti più frugali.
Ho sonno e anche il più piccolo movimento mi sfianca, costringendomi al riposo forzato. Non riesco a capire cosa mi stia succedendo, mi permetto di provare piccole, paralizzanti fitte di paura, che mi avviluppano le gambe, lasciandomi immobile e fradicia al mio posto.
Penso che forse il mio corpo, più di così, non può sopportare, penso che si stia sfaldando giorno dopo giorno.
Penso che morirò.
Il mio umore è altalenante come mai lo è stato. Ho voglia di piangere, poi di ridere, quindi di piangere ancora. Mi innervosisco per un nonnulla, spesso cado preda degli eccessi di rabbia diretti a Peeta, rimproverandogli perfino le sciocchezze che, per qualche motivo, sembrano infastidirmi tanto.
Lui tace e si limita ad aggrottare un po' la fronte, come a chiedermi cosa accidenti stia accadendo, e solitamente a quel punto avvampo di vergogna, mormorando vaghe parole di scusa.
Al principio di aprile non posso più ignorare la mia situazione, qualunque essa sia. Riluttante e, sì, spaventata chiamo mia madre, elencandole tutti i piccoli malesseri che mi sovvengono, restando infine in attesa.
Il silenzio si dilata al punto che una scarica elettrostatica mi fa sobbalzare e le domando se è ancora in linea.
«Sì», replica lestamente, schiarendosi la gola, «sì, ci sono».
«Allora? Sai di cosa si potrebbe trattare?»
Silenzio. E nel suo silenzio trovo una risposta dolorosamente eloquente. Sta parlando, dice qualcosa, ma non la sto più ascoltando. Riappendo velocemente, mi sento ansimare come se avessi appena corso per chilometri, senza mai fermarmi.
Peeta, provvidenziale come sempre, compare in quel preciso istante. Dondolo instabilmente sulle gambe, sento che le ginocchia stanno per schiantarsi contro il pavimento. Mi afferra quando le mattonelle iniziano a salirmi addosso.
«Katniss? Katniss, cos'hai?»
Niente, sto per rispondere, ma il buio mi trova prima.

«Passano gli anni e tu non smetti mai di svenire, vero, dolcezza?»
Haymitch. Cautamente, affondo i palmi aperti nella morbida trapunta e mi sollevo. Sono a letto, nella nostra camera e non ricordo assolutamente quando o come ci sono finita.
Qualcuno mi accarezza la schiena; è un tocco troppo familiare perché possa sentirmene spaventata. Non lo allontano, qualcosa mi dice che è esattamente quello di cui ho bisogno per tenere insieme i pezzi di me, per non lasciarli scivolare nuovamente via.
«Cosa fai qui?» domando a Haymitch, sprofondato nella poltrona, un bicchiere di vino sollevato davanti al viso.
«Peeta» risponde laconicamente, suggendo dal suo bicchiere.
Peeta, certo. Sbuffo, gli scocco un'occhiata risentita. Peeta, che quando ha un problema, uno qualsiasi, corre da Haymitch, come se a distanza di tanti anni fosse ancora il Mentore che cerca di tenerlo in vita. Anzi, che cerca di tenere in vita me.
«Badate che non sto morendo, eh?»
Mi tiro in piedi, ma le vertigini mi ghermiscono e la mia sicurezza sfuma. Haymitch, dal suo angolo di stanza, ride.
«Katniss, onestamente, sei diventata una donna ma la tua perspicacia non si è smossa di un centimetro».
Aggrotto la fronte, lo invito tacitamente a spiegarsi.
«Lo hanno capito tutti tranne tu» continua, infierisce, arrogante. L'anzianità non gli giova affatto, devo riconoscerlo; Haymitch, se possibile, è peggiorato. Mi domando ancora come Effie abbia potuto sposarlo e mettere al mondo un figlio suo.
«Ti vuoi spiegare, per favore?» incalzo, stanca dei suoi giochetti. Peeta mi prende la mano, nei suoi occhi c'è... cosa? Gioia? Aspettativa? Impazienza?
Ho già visto quegli occhi, colmati dalle medesime emozioni. Sempre associate ad un'unica parola.
Bambino. Figlio.
«No», mi rifiuto di cedere, «no, vi sbagliate. Io non... non... Insomma, è una cosa talmente...»
Li vedo scambiarsi un'occhiata un po' esasperata.
«Non dire che non te l'avevo detto. Mi devi una bottiglia» aggiunge Haymitch rivolto a Peeta, sollevandosi sulle gambe. Barcolla, gira lentamente su se stesso come se non ricordasse più da che parte si esce. La mia perspicacia non si sarà smossa di un centimetro, ma neppure il suo debole per l'alcol ha fatto grandi passi in avanti.
E dopotutto, mentre tutto è cambiato, niente è cambiato veramente. Siamo sempre quelli di quindici anni fa: io vado a caccia, Peeta prepara il pane e Haymitch beve.
Ma no, non è vero. Adesso tutto cambierà davvero; un figlio mette tutto in una prospettiva diversa, naturalmente. Anche e soprattutto le nostre vite, la nostra quotidianità.
«Be', auguri» si congeda così, Haymitch, con un sorriso sprezzante sulle labbra lucide di vino.
Peeta si concede una risata liberatoria e io, mentre lo guardo, realizzo di non aver mai avuto meno voglia di ridere e di gioire.

La notte è gelida.
Non riesco a navigare più quelle acque basse e placide di un mondo senza sogni; gli incubi, e so perfettamente per quale motivo, sono prodotti della mia paura nuovi di zecca.
Così sogno di una piazza gremita di bambini, Effie in piedi sul palco con quella sua odiosa parrucca rosa mentre la sua mano vortica in una boccia di vetro panciuta, pescando un nome. Non lo colgo con chiarezza, ma so a chi appartiene. Vedo un bambino dai capelli biondi avanzare tremante, gli occhi azzurri sgranati verso me. Allora corro in avanti, urlo "Mi offro volontaria! Mi offro volontaria come Tributo!" ed Effie ride, Effie dice "Non puoi farlo, Katniss, non puoi prendere il posto di tuo figlio". L'ultima immagine del mondo onirico, la prima ad accompagnarmi in quello reale, è quella di un paio d'occhio azzurri lucidi e terrorizzati.
«Katniss!»
Le braccia di Peeta mi stringono con la consueta, amata solidità; devo aver urlato, forse ho scalciato, colpendolo involontariamente.
Mi aggrappo a lui come se ne andasse della mia vita, affannata ed esausta. Gli incubi si alimentano delle energie che dovrebbe restituirmi il riposo: l'ho imparato a mie spese, dopo tutti questi anni.
«Non posso, Peeta», farfuglio, scuotendo la testa per snebbiarmi il cervello, per liberarlo dal ricordo di un paio d'occhi azzurri impauriti, «non posso avere un figlio, non posso...»
«Katniss, ascoltami. Mi stai ascoltando?» chiede e mi scuote delicatamente, invitandomi a guardarlo, ad annuire.
«Il mondo che abbiamo conosciuto per metà della nostra vita non esiste più. Panem è una repubblica, Snow è morto, la Coin è morta. Gli Hunger Games non esistono più, le arene sono state distrutte, fino all'ultima pietra, albero o stagno. Soprattutto, niente di tutto quello che abbiamo passato tornerà. I distretti sono in pace e noi siamo liberi. Dobbiamo vivere, Katniss, vivere, capito? Non c'è più alcun pericolo su di noi, proprio nessuno. E questo bambino», mi sfiora la pancia che, ancora piatta, nasconde ciò che presto sarà evidente, «o bambina, non corre assolutamente alcun rischio. Lo o la proteggeremo noi, da qualsiasi cosa».
Come la mia perspicacia e il debole di Haymitch per l'alcol, neppure la diplomazia di Peeta è cambiata. Il veleno degli Aghi Inseguitori non è stato sufficiente a strappargli quell'innato talento di piegare le persone con le parole, di tranquillizzarle, fomentarle o impaurirle.
E i suoi occhi, alla luce della lampada, sono così sinceri da sprofondarmi in uno stato immediato di quiete e torpore.
Ha ragione, naturalmente. Ma la ragione – la mia – talvolta soccombe alla paura e sprofonda tutto sotto una luce cupa, insufficiente a guardare con chiarezza la realtà dei fatti.
E la realtà dei fatti è che Panem è stata radicalmente rivoluzionata e mai, mai più tornerà quella della mia infanzia e della mia adolescenza.
La realtà dei fatti è che adesso ho l'occasione di riscattarmi della morte di mia sorella, di proteggere questo bambino come non ho potuto fare con lei.
Eppure. Eppure ho paura.
Cedo alla debolezza perché, che voglia ammetterlo oppure no, talvolta ne ho bisogno anche io. Striscio su Peeta, mi abbarbico a lui, le gambe strette attorno ai suoi fianchi, le braccia rannicchiate contro il mio petto e la faccia affondata nell'incavo del suo collo.
Questo è il mio posto sicuro, Peeta è il mio posto sicuro, quello in cui voglio restare. Per sempre.
«Mi ami?» pigolo con voce da bambina, vergognandomene un po'; per qualche bizzarro motivo, ho bisogno di sentirmelo dire, mi serve per affrontare ciò che mi aspetta da domani in poi.
«Sempre», soffia sui miei capelli, baciandomi la sommità della testa, «sempre».
È qui, adesso, su questo letto, in questa posizione tutt'altro che comoda, che mi lascio finalmente scivolare nel sonno, facendomi forte delle braccia solide di Peeta che, lo so, non mi lasceranno fino a che non sarò addormentata.

 

(26 ottobre, quindicesimo anno post-rivoluzione)

 

Qualcosa mi strappa alla mia pennichella pomeridiana.
Da quando il bambino (o bambina) ha iniziato a crescere sotto la mia pelle la mia scorta di energie si è come drasticamente ridotta, costringendomi a schiacciare pisolini nel cuore del pomeriggio e a non compiere sforzi che prevedano qualcosa di più del sollevare un vaso di fiori.
Non che abbia poi molta scelta; Peeta sorveglia attentamente ogni mio movimento, premurandosi sempre che io abbia quello di cui ho bisogno. I suoi giorni sono diventati un'ininterrotta spola tra la panetteria e la nostra casa perché, come ribadisce orgogliosamente a tutti, sua moglie è incinta e deve badare a lei e al loro bambino.
Neppure le battutine di Haymitch riescono a scalfire il suo quasi irritante buon umore, ma in compenso ci riescono eccellentemente con il mio che, sommate agli squittii deliziati di Effie e del mio vecchio staff di Preparatori, mi spingono ad isolarmi dal mondo, anche solo per godere di qualche attimo di silenzio e pace.
Mia madre viene a trovarmi ogni due settimane circa; se Peeta bada alla soddisfazione dei miei bisogni, lei si occupa del lato medico della faccenda, assicurandosi che tutto proceda per il verso giusto. Quattro mesi fa ci ha chiesto se fossimo interessati al sesso del bambino e io e Peeta abbiamo prontamente negato; se dobbiamo iniziare a vivere, a vivere davvero, vogliamo anche goderci queste piccole, meravigliose sorprese.
Non lo dico a Peeta, ma in cuor mio sono quasi certa di stare aspettando una bambina. La notizia potrebbe solo fargli piacere, perché neppure lui lo dice, ma è chiaramente esaltato all'idea di avere una figlia femmina.
Sbatto le palpebre, cerco di capire cosa mi ha ridestata dal sonno leggero, qui su questa sedia a dondolo piazzata sul patio ancora fresco di vernice che Peeta e qualche suo amico hanno costruito di sana pianta qualche mese fa, per allietare i miei giorni di riposo forzato.
Apparentemente, non c'è nulla di inconsueto, tranne forse quel piccolo uccello bianco e nero appollaiato sulla staccionata di casa nostra che riproduce il cinguettio degli altri suoi simili, personalizzandolo e arricchendolo di note armoniose.
Curioso come le Ghiandaie Imitatrici non mi abbiano mai abbandonata.
Resto in attesa e poi lo sento. Ogni pelo si rizza mentre la paura, forte e soffocante, mi serpeggia addosso, scivolandomi sulla schiena.
Un movimento piccolo, goffo e lento, che proviene direttamente dal mio ventre arrotondato. Con dita tremanti, scosto la soffice coperta recapitatami da Cinna (costituita da un materiale innovativo, che trattiene meravigliosamente bene il calore) e sollevo l'orlo del maglioncino azzurro, scoprendo la pancia.
Mi sfugge un urletto rauco. Non è un'impressione e neppure uno scherzo ottico: c'è davvero un piccolissimo, appena accennato gomito che sporge, fasciato dalla pelle.
Non ho mai provato nulla di così destabilizzante ed emozionante al tempo stesso.
Sento una paura quasi animale, antica come la vita stessa, saldamente intrecciata ad una gioia impaziente, che rischierebbe di sopraffarmi se la paura non la tenesse a freno.
Con la punta delle dita sfioro quel piccolo gomito, che si ritrae lentamente, come una di quelle piante carnivore che ho visto nel Distretto 11.
Sento il bambino muoversi piano, alla ricerca forse di una posizione comoda.
Mi spaventa, mi terrorizza e lui sembra intuirlo, perché smette di agitarsi e tutto, fuori e dentro me, torna immobile.
Vorrei chiamare Peeta, farmi abbracciare, eppure so che non capirebbe la mia paura, perché, dopotutto, non la capisco neppure io.
D'altra parte, però, nessuno mi ha mai avvertita di questo, dell'eventualità di veder affiorare il gomito di mio figlio da sotto la mia pelle.
Mi alzo lentamente, muovendomi lentamente in circolo, la schiena inarcata all'indietro e le mani sui fianchi.
Cerco di mettere in prospettiva quello che ho appena vissuto, di scrollarmi di dosso, passo dopo passo, quest'assurda paura.
Mi fa sentire sciocca. Paura di mio figlio? Di un piccolo bambino indifeso, da proteggere?
Sorrido piano, scuotendo la testa. E adesso vorrei quasi che mio figlio tornasse a far sporgere il gomito, per godermi quel piccolo gesto senza l'influsso della paura.
E, timidamente, mio figlio mi ascolta e mi accontenta.

 

(Primo gennaio, sedicesimo anno post-rivoluzione)

 

Mi sento fluttuare in un mondo che non mi appartiene, vittima di un limbo indefinito e nebuloso, dove sono sola e non c'è niente, né dolore, né paura, né ansia. Mi sento vuota, meravigliosamente vuota.
È una sensazione che sento di dover conoscere. Riconoscere.
Morfamina, sussurra una voce lontana nella mia testa. Dovrei ripescare qualche ricordo legato a questa parola, ma non ne ho voglia. Non ho voglia di fare alcunché, in effetti.
Si sta così bene, qui. Un po' come essere tra le braccia di Peeta.
Peeta. Un flash di forme e colori. Peeta in piedi accanto a me. La sua mano nella mia, strette convulsamente.
Mia madre davanti a me che, gioiosa, mi urla qualcosa. Davanti a me... perché? Mi sta aiutando.
Mi sta aiutando a far venire alla luce...
«Il mio bambino» sussurro, ritrovando le palpebre e la facoltà di sollevarle. Nessuno mi ascolta, però. Non ho parlato abbastanza forte.
Ripiombo in questo mondo reale fatto di lenzuola sudate e sgualcite, lampade accese e un forte odore metallico.
Ma c'è qualcosa che mi distrae da tutto, perfino da Peeta che, adesso lo vedo, è accovacciato accanto a me e il suo braccio è piegato sulla mia testa.
Un pianto. Un pianto di bambino. No, di un infante. Di un neonato.
«Peeta» mi sforzo di gridare, ma dalla mia gola esce un gracidio sofferente e non posso fare altro che sollevare la fronte e incontrare il palmo della mano di Peeta.
Lo vedo sobbalzare e rivolgermi poi un sorriso un po' intontito.
«È una bambina» mi sussurra, concitato, come se faticasse per trattenersi, per non urlare.
«Lo so» ribatto, chiedendo quindi che mi venga portata mia figlia. All'improvviso, sento un assoluto bisogno di averla tra le braccia, di proteggerla come il mio corpo ha fatto per nove mesi.
Secondo al bisogno, la preoccupazione per l'assenza del dolore. Ma poi ricordo quel limbo brumoso e so di essere ancora sotto l'influsso della morfamina.
Lentamente, inizio a ricordare. I crampi violenti al basso ventre, la sensazione di essere sul punto di spaccarmi in due metà perfette, qualcosa che strattona violentemente tutti gli organi immediatamente sotto ai fianchi, l'emicrania sferzante e poi il buio, accompagnato solo dal pianto disperato di una voce stridula che non conosco. Deve essere stato in quel momento che mia madre mi ha sprofondata nel mondo farmacologico.
Mentre ricollego gli ultimi eventi, mi accorgo a malapena del piccolo fagotto spugnoso che viene delicatamente adagiato tra le mie braccia.
Ora come allora, guardo mia figlia e mi sento morire di paura.
Penso. Penso a cosa farò adesso, all'eventualità di non saperla proteggere, a come dovrò comportarmi...
«Ha i tuoi capelli» dice Peeta, lasciando che la neonata gli stringa debolmente l'indice. Non ho mai visto il suo viso così trasfigurato dalla gioia, neppure nel giorno del nostro matrimonio.
«Sicuramente avrà i tuoi occhi, però» aggiungo.
Ho solo il tempo di baciare la piccola testa ancora umida e sorprendentemente calda prima di sprofondare nuovamente nel sonno, la testa posata nell'incavo del gomito di Peeta.
Mi lascio cullare dal torpore e penso che questo è il posto dove voglio stare, tra mio marito e mia figlia.
Tra tutto quello che credevo di non poter mai avere e che adesso invece mi appartiene, fino all'ultimo, fino alla fine.

 

_____

 

NdA: Torno ad esplorare questi lidi dopo mesi di assenza, molto fico.
Il fatto è che sto rileggendo la trilogia e, uhm, come mi succede sempre, è tornata anche la voglia di scrivere su Hunger Games.
Non sarà forse un capolavoro (decisamente no), ma scriverla mi è servito a svagarmi un po', quindi va bene così.
Un paio di appunti circa Haymitch e Cinna: essendo una fan sfegatata della Haymitch/Effie non ho saputo resistere e ho volutamente inserito l'accenno Hayffie, perché, be', sono adorabili, insieme; Cinna lo sappiamo morto, secondo le fonti di Plutarch. Io però, che non credo sia davvero dipartito e mi attacco a quel "le fonti di Plutarch ritengono che...", ho preferito inserirlo nella storia vivo e vegeto, sperando sempre che le fonti si siano sbagliate.
Vi sembrerà strano, poi, che il gomito di un bambino possa sporgere ma, ve lo assicuro, succede.
Il titolo, oh be', interpretatelo come preferite, date a quel "aggrappati" il valore che più vi piace: è valido in entrambi i casi, comunque.
Infine, grazie per aver letto. *inchino*

Passo e chiudo.





   
 
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