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Autore: Ceci Princessofbooks    03/06/2013    1 recensioni
Vi sono storie che rifiutano di morire, e si slanciano al di là del tempo. Vi sono voci che non si rassegnano a spegnersi, occhi ancora avidi di guardare, sognare, vivere. Vi sono racconti, istanti di esistenze lontane, che premono la mente per tornare a respirare: questo è il mio tentativo di permetterglielo. Una raccolta di racconti, che osserva con altri sguardi i protagonisti della Storia e del Mito. Perché gli spiriti grandi possono ancora parlarci, per rivelarci la loro anima.
(Dal Secondo capitolo): "Il vecchio sedeva sotto la quercia, al limitare del bosco.
Fiaccole ardevano intorno alla radura, sussultando come spiriti d'ambra; accanto a lui, i tratti chiari e pesanti del guerriero balenavano tra le ombre, nello scintillio opaco delle armi. Come il vecchio, la sua tunica era grezza e scura, ma il girocollo di bronzo rifulgeva,un serpente di luce. Accanto a lui aspettava il suo allievo, e i suoi occhi grigi, l'impronta degli dei che il vecchio aveva riconosciuto tanti anni prima, bruciavano di eccitazione."
Genere: Introspettivo, Slice of life, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Il suo silenzio

 

Erano pochi coloro che conoscevano il silenzio di Cicerone.

Tutta Roma riecheggiava dei suoi discorsi, ogni foro rigurgitava dei suoi periodi, qualunque schiavo o fantesca o liberto era stato almeno una volta avvinto dall'incanto di marmo e sole delle sue parole: nessun senatore, nessun servitore non conosceva il timbro coraggioso e fermo della sua voce. Ma non a tutti era concesso il privilegio del suo silenzio: non a sua moglie, dai cui sguardi doveva proteggersi con scudi di sillabe e arringhe; non a Ottaviano, e al sorriso di quegli occhi troppo giovani e troppo imbrattati di tempo. il silenzio era un piacere, un segreto sollievo che si permetteva solo con Attico, il suo segretario, il suo migliore amico, l'uomo che lo aveva visto godere nel fremito di cento applausi, e straziarsi di lacrime e di rimorsi: perché di fronte a lui, lo sapeva, le sue vesti opulente di metafore non avrebbero nascosto il corpo nudo che le aveva intessute, né l'anima profonda e vulnerabile che vi si celava. Ma non era, in verità, davvero l'unico che condividesse quel raro dono: un'altra creatura sapeva debellare le sue armate di similitudini e chiasmi, e scioglierle con accortezza, con pazienza, fino a rivelare i graffi e i dolori che proteggevano, come bende attorno a una ferita. E questa era sua figlia Tullia.

Marco Tullio si era a lungo interrogato sul perché quella bimba dai grandi occhi castani e pensosi lo dispensasse dal accendere l'aria con le sue arringhe, e sembrasse riempirla con la sola luce dei suoi sorrisi;sul perché i pomeriggi trascorsi nel verde quieto e frusciante del portico, seduto nella sua sedia preferita, mentre Tullia filava in silenzio, fossero tra i ricordi più cari e più vividi che potesse riportare alla memoria; o sul perché bastasse la risata rara e sincera di sua figlia, o le sue mani accorte nel preparare l'altare dei Penati, per smussare gli orli della sua vita, e sbiadire anche il sorriso senza pace e senza pietà di Catilina. E la risposta che aveva trovato era al tempo stesso la più scontata e la più stupefacente. Semplicemente, con lei Cicerone non doveva essere un severo censore, un fiammeggiante accusatore, un sottile difensore o un giudice implacabile, ma solo un padre, e cioè un uomo che ama al di là di ogni cesellata orazione. Il legame che lo allacciava a sua figlia, quell'intesa frammischiata di sguardi segreti e carezze discrete, somigliava al grande ulivo che sorgeva al centro del suo giardino: muto e saldo, non sfavillava di gemme e ori, ma le sue radici erano più profonde e più complesse di qualsiasi gioiello, e più forti della terra stessa. Sua moglie osservava sempre ridendo che gli dei avevano dipinto lui e sua figlia con le stesse sfumature: il bruno vivo e mobile degli occhi, i tratti incisi in una pallida argilla, i riccioli scomposti e liberi color del castagno; e simili erano anche, segretamente, le tinte dei loro spiriti. Tullia era una fanciulla gentile e pudica: la sua dolcezza era però il frutto di una saggezza preziosa, non di un animo sprovveduto, e nei suoi sguardi balenavano distanze vertiginose, vaste almeno quanto quelle che ogni giorno fissavano Cicerone dal suo specchio di bronzo. In lei, in quel giovane corpo di donna, rivivevano il suo acume e la sua malinconia, la sua speranza e il suo coraggio, come se Giove avesse intagliato il loro essere dalla stessa pietra difficile e cangiante. Lo vedeva nei gesti più quotidiani, nei dettagli più impercettibili: nel modo in cui splendeva il suo viso quando le riusciva una tessitura difficile, non diversamente da come riluceva il suo dopo un'orazione trionfante; nella passione impetuosa con cui difendeva gli schiavi ingiustamente accusati da sua madre; nella voce chiara e limpida con cui mormorava i canti antichi nei pigri pomeriggi d'estate. E, soprattutto, nel modo in cui era capace di scivolare dentro i suoi occhi, senza prepotenza, senza dolore, e vedere il cuore fiero e fragile da cui scaturivano i sortilegi di parole con cui stregava tutto il foro. Perché Tullia era la sua più grande gioia, e il suo più imprudente segreto.

E il pensiero di perderla, di perdere i suoi toni e i suoi agili passi di cerva, era una spina incuneata nel sangue.

Cicerone abbassò il volto, fingendo di concentrarsi sul rotolo aperto sulle sue gambe, screziato dalle ombre del giardino; ma non fu abbastanza rapido per sfuggire ad un altro sguardo.

-Padre, che cos'hai?- chiese sua figlia, con il sorriso lieve e sincero che concedeva a lui solo, le mani che danzavano sull'arcolaio. -Stai fissando quel passo da almeno mezz'ora.-.

-Oh!- borbottò Marco Tullio, aggrottando le sopracciglia -Non è niente, niente.-.

-Non sei mai stato in grado di mentirmi molto bene, padre.-.

Cicerone sollevò gli occhi, e per un attimo vide la bambina che era stata, la sua Tulliola, mentre giocava ridendo con le colombe della gabbia nel giardino, mentre si stringeva a lui di fronte ai volti severi e antichi delle statue dei fori. Quei ricordi erano tra i tasselli più splendenti e preziosi della sua esistenza, incisi nella sua mente anche a distanza di tanti anni, come le delicate volute intagliate in un capitello. -Hai ragione, non ne sono mai stato capace.- rispose con un sorriso stanco.

-Allora, cosa ti turba?- domandò Tullia, con l'espressione di impertinente trionfo che acquisiva sempre quando anticipava il suo pensiero -Non sarà forse qualcosa riguardo al mio matrimonio?-.

Marco Tullio sussultò, come quando suo padre lo coglieva a rubare le ciliegie nel loro campo: inchiodato dall'evidenza, e totalmente incapace di discolparsi. Socchiudendo un attimo le palpebre, si concesse un profondo sospiro. -Bè, penso che sarebbe piuttosto stolto negarlo, a questo punto. Stavo solo pensando a quanto sia vicino il tuo matrimonio, e a quante cose cambierà, per te, per tua madre...-la sua voce, che aveva tuonato decine di volte contro folli e assassini, si rifiutò d'improvviso di continuare senza incrinarsi.

-...E per te- completò sua figlia con pacata sicurezza; ma la stretta delle sue dita, scivolata in silenzio intorno a quella di Cicerone, era tiepida e confortante come sempre. Ricambiò quel tocco, guardando quella snella mano di fanciulla, immaginando l'istante in cui l'avrebbe guidata fino all'altare dei Penati e l'avrebbe porta ad un'altra stretta.

Scosse la testa, rivolgendo il volto al sole pomeridiano, alle scaglie di luce che piovevano tra i rami:-Oh, Tulliola, come fai a rubare le parole all'uomo che secondo tutta Roma ne è il mago?-.

-Posso farlo perché le donne osservano, padre, oltre che ascoltare; e sanno che, come nel tessere una trama, anche nella vita i gesti possono rendere una tela meravigliosa, o orribile. Semplicemente, dopo tanto tempo mi basta vederti serrare le labbra e tormentarti le mani in quel modo per sapere che qualcosa ti ha scosso: e visto che non c'è nessuna orazione da preparare a breve e non abbiamo altre preoccupazioni, ho dedotto che il problema dovesse essere il mio matrimonio.-

Questa volta la risata di Cicerone fu sincera:-Figlia mia, te lo giuro, tremerei ad averti contro in un tribunale!-.

Tullia sorrise a sua volta, senza lasciare la sua mano; un vento leggero, impregnato di primavera e di terra, le agitò le pieghe dell'ampio peplo bianco:-Sai bene che sarei sempre dalla tua parte, padre. E che lo sarò anche dopo essermi sposata.-

Si scambiarono uno sguardo, uno sguardo di memorie profumate e giornate di sole, e per Cicerone quello divenne uno dei momenti che riponeva sul cuore, come un gioiello.

-Lo so, bambina mia- sospirò -è solo che la nostra casa sarà terribilmente vuota quando te ne andrai, e temo di diventare ancor più...ecco, diciamo puntiglioso, di prima-.

Sua figlia rise, una bassa risata dorata che risuonò sotto le volte affrescate del portico:-Diciamo piuttosto che i tuoi borbottii si sentiranno da qui a Pompei. Attico sarà disperato-.

-Va bene, ti concedo questa impertinenza, signorinella- replicò Cicerone, tentando vanamente di acquisire un' espressione severa -che tempi stiamo vivendo, se anche le caste fanciulle si permettono simili libertà con il proprio padre!-

Tullia levò gli occhi chiari al cielo: -Ah, ecco che comincia l'arringa...-.

L'avvocato rise a sua volta: amava quegli scherzi, quei duelli di parole più veri e più innocenti di molti affrontati nel foro; ne traeva il piacere fresco e ingenuo di un atleta dopo una prova difficile. Si adagiò più comodamente sulla sedia, osservando tra le palpebre le danze dei passeri sul vecchio olmo, scivolando nel tempo lento e scandito dell'arcolaio di Tullia; e ancora una volta, il silenzio con lei non fu un peso, ma una ricompensa segreta. E in quello stesso istante, Cicerone ne capì il motivo.

La ragione non era la confidenza, né l'affetto, né la tranquillità della casa: era sua figlia stessa. Era lei a colmare quei silenzi di ricordi e di speranze, di tutti i sogni e le mete che si sprigionavano dalla sua bellezza di donna discreta e dai suoi occhi di giovane uomo ambizioso; perché se lui possedeva il dono di intarsiare il silenzio di parole, lei aveva ricevuto quello di intesserlo di luci e di vita, con la pazienza con cui intrecciava la lana dei mantelli, con la facilità con cui mormorava tra sé i ritmi di qualche carme. Lui innalzava torri lucenti e palazzi lastricati di marmo, plasmando con la sua voce il vuoto dell'aria; lei lo irradiava della sua dolcezza, e lo trasformava in gioia. E il pensiero di aver generato una creatura con un simile potere, era al contempo splendido e spaventoso.

Fu allora che sentì il brivido.

D'improvviso si tese in avanti, catturando di nuovo la mano della figlia, sorpreso lui stesso dal proprio gesto: ma per un attimo, sua figlia era divenuta un'ombra argentea, un soffio pallido sul punto di svanire di fronte a lui; e sebbene la carne sotto le sue dita fosse calda, un gelo che non voleva riconoscerò sussurrò ancora un momento nel suo sangue, come un monito, come un presagio.

Tullia, la sua gentile, acuta Tullia, lo vide.

-Padre, non devi preoccuparti così, davvero: sto per sposarmi, non per andare nei Campi Elisi. Vivrò appena a qualche isolato di distanza, e tanto verrò qui ad aiutare la mamma.- ricambiò ancora la stretta, posando un lieve bacio sulle mani contratte di Cicerone -non ti lascerò davvero.-.

-Lo spero, bambina mia- sussurrò -lo spero davvero.-.

Poi Tullia cominciò a mormorare un canto, un motivo lento e leggero, mite come il cielo di primavera; e nel silenzio fiorirono le visioni del suo futuro, dei suoi desideri, della sua forza.

E Cicerone pensò che l'avrebbe preferito a qualsiasi orazione. 

   
 
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