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Autore: WarHamster    03/06/2013    16 recensioni
Le mattonelle sono fredde contro la mia guancia. Mi resteranno le righe stampate sulla faccia se continuo a rimanere sdraiato qui, ma in fondo non è che me ne importi molto.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le mattonelle sono fredde contro la mia guancia. Mi resteranno le righe stampate sulla faccia se continuo a rimanere sdraiato qui, ma in fondo non è che me ne importi molto.


 

Ventuno scalini, contati in fretta mentre sollevo meccanicamente le ginocchia concentrandomi sulle mie espressioni facciali; Ezekiel alle mie calcagna, dicono che i cani sentano quando il padrone ha bisogno di loro.
“Non palesare alcuna emozione” mi ripeto lanciando qualche occhiata al muso rincagnato del botolo che mi trotterella di fianco, quella sua buffa espressione mi aiuta a non pensare a chi ho lasciato giù in cortile. Anne sta mettendo in modo la macchina, dubito che gliene importi così tanto di me da stare a fissarmi mentre rientro in casa, eppure sento il bisogno di mantenere una parvenza di lucida freddezza, di farle vedere che in fondo nemmeno io ero così legato a lei.

Falso.
Falso, falso, terribilmente falso.
Il tempo di aprire la porta e lasciare che Ez sgattaioli dentro e sento i singhiozzi risalirmi la gola come conati di vomito. Se fossi Rik non avrei fatto questa metafora, forse perché Rik sa che nella trachea ci passa solo l'aria e non il cibo; non che io non lo sappia, ma tendo a dimenticare l’anatomia quando sono disperato.
Però mi ricordo di Rik.

Crollo a terra. Non c’è più nessuna apparenza da salvare o orgoglio da preservare, sono solo io e il mio dolore.
Perché in fondo Anne l’amavo, anche se non ero sicuro di averla perdonata per avermi tradito, anche se non ero più certo di stare con lei solo in nome del nostro sentimento; la sentivo sempre più distante, annoiata, l’immagine del mio fallimento come uomo e come compagno.
Rik diceva che a diciannove anni non avrei dovuto farmi di questi problemi, che non era una relazione così importante da divorarmi il cuore fino a lasciarmi vuoto. Non so come faccia ad essere sempre così razionale, ma mai come ora mi è stato chiaro che non potrò mai essere come lui; sarà che il mio cervello non è quello di un genio, sarà che sono sempre stato un tipo un po’ sentimentale, ma mi sembra semplicemente inconcepibile pensare ad un domani senza messaggi del buongiorno, senza libri e vestiti in prestito, senza sesso in auto il sabato sera, senza quella confortevole routine.

A volte mi piacerebbe essere come Rik, e invece resto a singhiozzare sul pavimento, Ezekiel seduto a un palmo dal mio naso, non sa bene nemmeno lui che cosa debba fare, ha provato a leccare qualche lacrima ma non dev’essergli piaciuta.

 


Ed è così che comincia la mia storia, le mattonelle fredde contro la mia guancia e le righe che mi rimarranno stampate in faccia. Dalla cucina arriva qualche grugnito di Ezekiel in cerca di cibo, chi l’ha detto che i cani sanno sempre quand’è che il padrone ha bisogno di loro.

Comincia da terra, perché in una storia che si rispetti uno parte dal basso, parte da una fine, come al cinema: termina uno spettacolo e i sedili sono in caldo per la proiezione dopo.
Continua con un colpo alla porta, uno solo, secco, dato da una persona che sa bene di non dover bussare una seconda volta perché io accorra.
Prosegue con me che striscio per un po’, indeciso se le mie gambe siano seriamente in grado di reggermi.
Va avanti con il pensiero che forse se ne sia andato, seguito a ruota dalla consapevolezza che quella bussata preannuncia un individuo che non demorde così facilmente.
Da lì ogni cosa vien da sé, ci sono io che decido di potermi finalmente tirare su, ci sono le righe delle mattonelle segnate sulla mia guancia, c’è Ezekiel che sventra una torta alle fragole sul pavimento della cucina, c’è il pensiero di mia madre che ritroverà il suo sacro pavimento di cotto sin troppo simile ad una scena del crimine di C.S.I.
E infine c’è Rik, che sta dietro la porta.
E in tutto questo uno potrebbe pensare che si tratti soltanto del peggior finale di sempre, di una banale storia d’amore caduta nel nulla, ma, come ho già detto, questo è solo l’inizio.

Potrei cominciare a parlare di Rik dai tempi più remoti, dalla sua prima partita di hockey, a quattro anni, del suo primo trofeo vinto, a sei, dei suoi occhi color del ghiaccio, di quel difetto di pronuncia sulla erre che ti fa venire voglia di chiedergli in continuazione di ripetere “Rocky burst in and grinning a grin
 he said: Danny boy this is a showdown”.
Potrei soffermarmi su tutti questi particolari, in ordine cronologico, cromatico, alfabetico, potrei elencarli in mille modi diversi. Ma partirò dal vero inizio.
Rik è dietro quella porta, ha bussato una volta e non lo farà di nuovo, Rik sa che Anne mi ha piantato, sa che ho pianto e sa che non ho voglia di farmi vedere così, ma ovviamente questo non lo fermerà. Rik sa che tra quattro giorni sarà il mio compleanno e che tra dieci avremmo fatto un anno, sa che ho paura delle scadenze e degli imprevisti, se che non ho voglia di aprire quella dannata porta e che dovrebbe rispettare questo mio desiderio; questo è ciò che ci si aspetta da uno con un Q.I. di 180.
Ma a Rik non è mai importato molto di essere un genio, è sempre stato più il tipo che se ne frega: di me, degli altri, a volte dubito persino che gliene importi qualcosa di se stesso.

Comunque è dietro quella porta e comunque prima o poi io dovrei uscire.

«Ti è mai capitato di volere un frullato al mango con doppia panna anche se sai che mancano venti minuti all’ora di cena?». E non ho neanche ancora aperto, però sa che sono lì, magari nel Q.I. di 180 è compresa anche la vista bionica.
«Ti è mai capitato di pensare di avere dei gusti orrendi?».
Perché se uno può scherzare vuol dire che sta meglio, no? Lo dicono in tutti i telefilm.

«Ne ho preso anche uno al cioccolato, giusto per essere sicuro che piacesse anche a te».
Per questo potrei anche aprire la porta, non si dice di no al cioccolato, soprattutto se gratis.
«Mi devi due dollari».

 
Si potrebbe tornare indietro  flashback  si potrebbe tornare al mio primo bacio con Anne, ai due dollari spesi per il suo frullato. Me li aveva prestati Rik, anche se continuava a ripetere che non avrebbe funzionato.
Era tornato a casa da solo, non mi era neanche dispiaciuto troppo, dopotutto ero con Anne.

Non ci si aspetta che una persona come Rik sia capace di stare sullo sfondo, eppure lui è lì: bello ma freddo, geniale ma scostante, troppo ma troppo poco.
L’unico punto fermo della sua vita è l’hockey, il ghiaccio sotto le lame, il disco che sbatte sulla mazza, gli schemi che si sovrappongono fra le sue sinapsi… ora sottolineerebbe che le sinapsi sono, in effetti, dei ponti di trasmissione degli impulsi e non dei luoghi dove si visualizzino le immagini; ha sempre da ridire con le metafore.

L’hockey c’è sempre stato per Rik. Rik c’è sempre stato per me, in quel modo tutto suo. Io per Rik non sapevo nemmeno quando avrei dovuto esserci, quando stava male, quando aveva bisogno di una spalla amica su cui piangere, quando sarebbe bastata una birra in compagnia.
A volte mi chiedo se sia Rik a stare sul mio sfondo o io ad essere sul suo.

Si potrebbe andare ancora più indietro, al primo giorno alla high school, a quando ha preferito una coppia di banchi vuoti al posto libero vicino a me. Sono state ben più di una le volte in cui ha preferito la solitudine a me, le volte in cui è rimasto sullo sfondo, sempre presente, sempre distante.
Al secondo anno Kathy Cole voleva sedersi vicino a me, Rik le aveva detto di avermi già tenuto lui il posto. Non è che mi piacesse Kathy Cole, ma era una questione di principio.

 
Non sono così sicuro di voler aprire la porta.
«Ho pensato che si potrebbe andare da Davy’s al tuo compleanno».
Non è il momento migliore per prendermi in giro «Muori».

 
Sette passi più lontano dalla porta.
Sette di giugno di due anni fa, il mio compleanno da Davy’s. Rik non si era presentato.
Era l’unico invitato, Kathy Cole si era rifiutata di venire.

Le piastrelle fredde e le righe in faccia all’improvviso non sembrano così male, Ez grugnisce la sua approvazione aggrottando il muso imbrattato di fragole, mia madre mi ucciderà, se non altro sarà una morte rapida. Con Rik sullo sfondo.

 
Si potrebbe fare un salto in avanti – flashforward – lasciare me, Ezekiel e il pavimento in pausa e guardare più in là. In un universo alternativo io e Anne avremmo festeggiato un anno di fidanzamento, il 13 di giugno, e Rik avrebbe festeggiato il suo compleanno da solo.
Otto giorni dopo di me.
Otto, come le volte che l’ho visto piangere.
Riavvolgi veloce: si è sbucciato un ginocchio all’asilo.
Ha bevuto una boccata di acqua di mare a sei anni.
Si è rotto il polso a sette.
È morto il suo pesce rosso a nove.
Ha visto “Assalto alla cavalleria” a undici.
Ha perso il suo orologio preferito a dodici.
Suo padre se n’è andato di casa a tredici.
Ho dimenticato il suo compleanno a quattordici.

L’ultima volta che Rik ha pianto è stata per me.

E non mi voleva vicino perché aveva paura di essere troppo coinvolto, e non voleva nemmeno che fossi vicino a Kathy Cole perché in fondo era geloso, e con Anne sapeva che non avrebbe funzionato perché non è normale che una persona sia completamente ossessionata da tutto ciò che abbia mai fatto o detto il suo migliore amico, ammesso che quello non si tratti soltanto del suo migliore amico.

E io sono così stupido da averci messo una vita e un quarto d’ora di pianto sul pavimento per capirlo.

 
Bussa un’altra volta.
Rik non ha mai bussato due volte.
Tutto d’un tratto mi sento importante, mi sento più di un protagonista, più di un attore, mi sento vero. Perché Rik non bussa mai due volte, lui fa il minimo indispensabile, è uno sfondo.
Ma per me, per me è diventato un protagonista.
È così che ha sempre dovuto essere, no?
Non dovevo sedermi vicino a Kathy Cole, ma vicino a lui.
Non dovevo dividere un frullato con Anne, dovevo berlo con lui.
Non dovevo festeggiare un anno di fidanzamento, dovevo solo augurargli buon compleanno.

Joyce raccontava di un uomo che si rende conto di non essere nulla per la moglie.
Io racconto di me, che pensavo di non essere nulla e invece sono tutto.
Vicino a lui.
Con lui.
Buon compleanno, Rik.

 
«Porta male augurarli prima».
La porta è ancora chiusa.
«Sai, dovresti smetterla di pensare ad alta voce».

Forse dovrei solo aprirla.
«Allora, ti sono mancato mentre cercavi te stesso là fuori?».
Fuori dalla pellicola, niente scenario, solo due protagonisti. Ce n’è voluto di tempo per capirlo.

Questa è la fine, i titoli di coda che scorrono su sfondo nero, ma io e Rik siamo ancora sulle poltroncine di velluto rosso, ci sono ancora tante altre proiezioni da restare a guardare, c’è un'altra storia da cominciare.

Scorrono ancora i titoli di coda, due attori: Me e Rik.
Comparse: Anne e Kathy Cole.
Interprete canino: Ezekiel.
Buio finale, solo più il titolo.

Epiphany.




 

Note della regia:
Partiamo dalla fine, che sarebbe il titolo: Epiphany, l'epifania, quella di Joyce, per l'appunto, quel momento in cui Gabriel si rende conto che Gretta non l'ha mai amato. Qui la situazione è ribaltata, è la consapevolezza improvvisa di un affetto fraterno di cui mai si era accorto prima. Chi? Io, il protagonista, che un nome sembra non averlo, perchè può essere ciascuno di noi.
Riguardate questo film, ditemi, ci avete visto un frammento di voi? Io si è trasformato per un attimo in "me"? Spero di sì, lo spera anche Ezekiel, spera anche che nessuno di voi pianga mai vicino a lui, non gli piacciono le lacrime.

   
 
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