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Autore: Lollyware99    04/06/2013    2 recensioni
Romano si dissolve nei suoi pensieri, unendosi silente al cielo aranciato dello sfondo.
- Presenti riferimenti su Leopardi.
Genere: Angst, Introspettivo, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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L'infinito.

 








Così come per il famoso poeta e scrittore Leopardi c’era ad aspettarlo il suo pensatoio silenzioso situato su un colle, così Romano aveva la sua finestra.
Posta in alto, intorno a lui solo i tetti e le verdi colline all’orizzonte, più in alto il cielo cangiante che lo osservava dalle sue mille sfumature aranciate.
E allora l’italiano si perdeva anche lui nei suoi pensieri e nella loro immensità, viaggiava per ore senza smuoversi di un passo, correva nella fantasia, fra milioni di vite e possibilità mai avvenute.
Si dilungava in lunghi sproloqui e discorsi con se stesso, se la prendeva col mondo e lasciava che i suoi occhi corressero, solo per pochi attimi, sulle teste dei passanti, paragonandosi a Dio, per certi versi, e scrutando affascinato le loro vite tristemente limitate.
Pensava alle sue mani incapaci di raggrinzirsi, lanciava occhiate ossequiose al cielo limpido e atterrenti quando esso piangeva, tuonando anch’esso d’ingiustizia.
Leggeva poesie, talvolta, le sue preferite erano quelle che trattavano di amori mancati, disordinati, scarmigliati.
Amori impossibili, non ricambiati e struggenti, quelli dei quali nessuno parla mai, vergognosi, che si nascondono in quell’unica lacrima solitaria che coraggiosamente sceglie di bagnarti il volto.
Non trovava nulla di travolgente nelle storie d’amore a lieto fine, quelle tutte rose e fiori che piacevano tanto a suo fratello.
Quelle che, pur non avendo nulla a che fare con il lettore, passavano una mano di balsamo rinfrescante sull’anima, alleggerivano i pesi e facevano ancora sperare in qualcosa di buono.
Chiamarlo masochista, diciamo, non era poi troppo errato.
Era anzi piuttosto affascinato dalle emozioni umane e di come esse avessero potere sui corpi, come fossero in grado di avvizzire le anime e provocare sofferenza anche nel giorno più gaio. Si beava nei pensieri inconsci che non lo riguardavano, adorava sentire le parole sofferenti di chi non ha ricevuto abbastanza mai, sebbene carente e bisognoso più di altri.
E quando incontrava una storia, un libro, un racconto che narrava di un amore non corrisposto, una vita in cui un qualcuno veniva scartato dall’amato per inseguire sogni maggiori, per un'altra persona, anche meno meritevole di quell’amore strappatogli; allora si dispiaceva.
E non importa quanto fosse paradisiaco lo scenario, lui continuava a patteggiare per l’altro, quello rifiutato, quello di cui dopo due pagine nessuno si ricordava già più, lasciato affogare nella sua solitudine neanche presa in considerazione dallo scrittore.
Forse è così, chi non è abituato ad essere amato diventa più umano, più caritatevole, più comprensivo ed empatico nei confronti dei suoi simili.
Per questo Romano ci cadeva ogni volta, nelle vite solitarie dei personaggi usciti di scena. Si sentiva loro pari: quelli calpestati, uccisi senza rimorso, quelli che non sono mai scelti per primi, i tagliati fuori dalla foto della vita.
Perdeva il senno col suo goffo crogiolare nell’inerzia soffocante e nella tristezza delle occasioni negate, avvolto da un sottile velo di cospicua insofferenza.
Puntava gli occhi dorati verso il sole opaco, perduto in quella miriade di sentimenti contrastanti che divergevano all’unisono nella via dell’insoddisfazione.
Si abbandonava silente in quella pozza di emozioni affrante, riflettendo così sulla stupidità umana e su come le persone non si curino per niente di non ridurre in pezzi coloro che li amano.
Ci pensava disgustato, rimuginava sulla responsabilità enorme degli amati e di come loro non si accorgessero nemmeno del peso che procuravano nel cuore di quelli che spendevano notti insonni pensando ai loro occhi e ai loro gesti, anche i più piccoli e insignificanti.
Di come essi rimanessero indelebilmente scolpiti nei loro pensieri e di come non li lasciassero mai in pace, non importa la quantità di tentativi atta a dimenticare.

“Roma, io ti amo ed è colpa mia, ma tu mi hai fatto innamorare, perciò assumiti le tue responsabilità!”

Gli balenò in mente la frase che gli aveva urlato una mattina una persona da lui conosciuta fin troppo bene.
Spiegò le labbra in un sorriso placido e rilassato, osservando il lento e danzante calar del sole dietro le colline.
Romano l’aveva fatto arrabbiare per qualche leggera idiozia, qualche screzio irrilevante, qualche parola che troppo spesso era solito dimenticare.
Lui era sempre stato piuttosto allergico all’amore e ancor di più ad una sua qualunque manifestazione tangibile.
Da quando aveva ghermito per la prima volta le pene di un’anima rifiutata, si era sempre nascosto il più profondamente possibile dalla luce delle emozioni, costruendosi una spessa gabbia e costringendosi ad una forzata astinenza da aspettative traditrici.
Aveva presto imparato a non aspettarsi nulla poiché tutto poteva essergli sottratto, e a volte, anche più di tutto.
Erano riusciti a sottrargli cose che non pensava neanche di possedere e cose che effettivamente non aveva mai posseduto, ma che, una volta privato di esse, scoprì importanti come un qualunque organo vitale del suo corpo.
Ne erano prova lampante suo nonno e suo fratello.
Giustamente -si ritrovava a rimuginare suo malgrado- chiunque desidera una relazione sana, con una persona la cui perizia psichiatrica non sia da film horror, ed era anche ben consapevole di quanto Antonio avesse pienamente sbagliato mira scegliendo proprio lui.
Un buco nell’acqua, totalmente.
E se ne accorgeva anche l’italiano, sapeva perfettamente cosa fare, conosceva a memoria le lezioni per essere affabili, dolci e comprensivi.
Aveva una conoscenza teorica da centodieci e lode, ne era certo; eppure così, messo a nudo davanti alle emozioni, non riusciva a muovere un muscolo, a spiccicare una sola parola.
Si trovava impotente e disarmato davanti a se stesso e ai suoi blocchi, alle sue lacune immense di umanità e calore umano.
Avevano dato fondo al suo amore, glielo avevano strappato di mano così brutalmente che ormai dentro di lui era presente solo un’infinita voragine di vuoto, di sentimenti rifiutati e di delusione. E i suoi occhi si aprirono alla cruda e matematica realtà di come non ci si potesse aspettare davvero nulla da chi non ha più nulla da dare.
Arrivava dunque al fondo dei suoi malinconici pensieri, sempre gli stessi, facendo triste esperienza delle parole dello spagnolo e osservando la loro veridicità palesarsi davanti ai suoi occhi.
Romano amava Antonio, ed era solo colpa sua, colpa della sua debolezza, e Antonio si era lasciato amare, colpevole ugualmente, regalandogli sorrisi e baci, facendolo sentire stupidamente degno di stargli al fianco e scegliendolo ogni singolo giorno, nonostante il resto.
Perché è così che lo amava lo spagnolo: lo amava nonostante. Lo amava nonostante il suo caratteraccio e la sua voglia irragionevole di attenzioni, nonostante le sue cicatrici e le sue ferite ancora sanguinanti. Lo sceglieva al mattino, al pomeriggio e alla sera. Lo sceglieva quando stava male e lo sceglieva quando lo faceva stare male, nonostante la frustrazione, la rabbia e il pentimento, nonostante la lontananza e il tempo. 
E Romano, appollaiato sul suo pensatoio improvvisato, ricordò di Giacomo, quel ragazzo ormai sigillato nel passato che ci vedeva lontano già allora, l’aveva capito a prima vista.
Ricordò le sue parole, e le opere da lui scritte, lasciò che ognuna di esse gli sfilasse davanti agli occhi indisturbata e fece scivolare lo sguardo sulle colline verdi, sul suo personale ultimo orizzonte.
Osservò il cielo spruzzato di fresche nuvole, la brezza, i tetti rossicci e scintillanti e sentì scorrere dentro tutto il pezzo di mondo che riusciva a scorgere da lì; era vita pulsante, quella, era infinito, ed era la sua terra immemore, quella che scrutava da innumerevoli secoli  sempre con lo stesso sguardo pregno d’amore e delicata dedizione.
E immaginò vividi nei suoi ricordi i campi di grano, gli imponenti castelli medioevali, le distese d’erba bagnata e il burrascoso mare cristallino, agitato dai venti del nord, o sommerso nella candida luce dell’aurora, dolce letto per le barche dei pescatori sempre indaffarati.
Gli incalcolabili volti che aveva visto di sfuggita, conosciuto e ammirato nell’arco della sua vita gli danzavano davanti agli occhi semi aperti, si sovrapponevano ai mari e ai cieli stellati, componendo una sinfonia di vita passata, presente e futura; vite, paesaggi e sensazioni che perdurano nel tempo, nonostante tutto, che vanno a perdersi dove si perdono tutte le cose, a prescindere dalla loro effimera bellezza o devastante cattiveria.
E allora sbarrava gli occhi, Romano, ormai inglobato da quel vortice di sentimenti contrastanti che si facevano piacevolmente guerra fra loro, tra la leggerezza dell’attesa e la sospensione di quel fievole attimo sul filo di un rasoio.
E si accorse di trovarsi solo fisicamente seduto su quella finestra, sentiva in vento che gli lambiva la pelle ma lui era in un altro luogo, in un posto al di là di tutto e al di là del tutto. 
Diede un’ultima occhiata al cielo che cominciava ad imbrunirsi e scese dal suo piccolo buco nel mondo, affrettandosi a chiudere le imposte marroncine e rovinate dal tempo.
 “Dopotutto, caro Giacomino, questi “spazi interminati” che tanto decanti mi fanno solo soffrire di vertigini.” Sibilò fra sé e sé, ridacchiando pensoso, udendo la voce chiassosa dello spagnolo appena rientrato in casa e lasciandosi scappare un lieve sorriso pregno di tenerezza.
Una dolce e scomoda arrendevolezza lo pervase, sua costante e immensa condanna: l’unico infinito di cui aveva davvero bisogno si trovava solo negli occhi di Antonio.

  
 
 
“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.”










 

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Eccomi qua, ancora a tormentare il mondo. Yay! :D
Piccolo e dolcioso svarione di un Romano pensoso, diciamo. 
Ovviamente il "Giacomino" di cui si parla è Leopardi (Il mio professore si diverte ad apostrofarlo in tal modo, è un burloncello lui.) e la poesia citata è per l'appunto "L'infinito" dello stesso. 
A mio parere decisamente una composizione toccante, che ti lascia veramente qualcosa impresso dentro. 
E niente, fatemi sapere che ne pensate se vi capita! :)
(Anche parlando della poesia in sè, magari. Mi farebbe molto piacere!)

Un bacio,
Lollyware. 

 

                                                                                                                                                     

  
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