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Autore: afep    05/06/2013    12 recensioni
"È cominciato tutto con un caffè, un gradino ed una maledizione..."
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È cominciato tutto con un caffè, un gradino ed una maledizione.
Ci pensavo giusto ieri. Mia moglie – ex moglie. Non riesco ad abituarmi al fatto che mi abbia lasciato – diceva sempre che il caffè mi avrebbe ucciso. Ai tempi in cui eravamo sposati ne bevevo in quantità industriali.
“Ti ammazzerai, di questo passo.” Mi diceva. “E cosa farò, da sola con i bambini, se tu non ci sarai?”
In realtà, figli non ne avevamo. Ci sarebbe piaciuto avere dei frugoletti tutti nostri, chiaro, ma gli anni passavano ed i figli non arrivavano. E alla fine Karen se ne è andata.
Il caffè, sì. Ora posso dire che il caffè è stato la mia rovina.
Sembra passato un secolo da quando è cominciato, ed invece sono soltanto… quante, una, due settimane? Diavolo, non lo so. Ho perso il conto.
Un contabile che perde il conto. Buffo, vero?
Certo, se quel giorno avessi saputo come sarebbe andata a finire, ci avrei pensato due volte prima di fermarmi da Starbucks.
Ero uscito in anticipo, quella mattina, e così pensai che non sarebbe stato affatto male passare a prendere un caffè da asporto da portarmi in ufficio.
E così andai, pagai, ed uscii con la mia bella tazza fumante. Stavo camminando per strada quando un ragazzino in skateboard deviò nella mia direzione, passandomi a filo.
“Fai attenzione a dove vai!” Gli ho urlato, voltandomi per fulminarlo con lo sguardo; ma mentre mi giravo per tornare sui miei passi, incespicai nel bordo del marciapiede e la tazza di polistirolo del caffè mi sfuggì di mano.
La mia colazione finì malauguratamente sul viso di una zingara che chiedeva l’elemosina, ustionandola.
Ricordo che scattò in piedi con un urlo – lei, che si fingeva paralizzata per suscitare pietà – agitando le mani brune davanti al viso. Era una di quelle brutte donne cenciose, con i capelli selvaggi che sfuggivano dalla crocchia, il naso bitorzoluto ed i porri pelosi sul viso.
Una di quelle donne con grandi cerchi d’oro alle orecchie e le gonne colorate, che alle fiere di paese leggono la mano, predicendo una fortuna sfacciata a chiunque le paghi abbastanza.
Ma in quel momento non sembrava altro che un’accattona vestita a festa, così passai avanti, senza scusarmi ed ostentando un’aria di superiorità, fingendo di non vedere la pelle del suo viso arrossata dal mio caffè bollente.
Ayúdeme!” mi pregò lei. Aiutami.
Cercò di afferrarmi per l’orlo della giacca con quelle sue mani sudicie. In preda al disgusto le detti uno spintone per allontanarla; quella barcollò all’indietro e cadde in terra con un tonfo sordo, ed io mi voltai per andarmene.
Avevo appena percorso qualche metro, che sentii un’orribile voce gracchiare alle mie spalle.
Maldito!
Io mi voltai, e vidi la zingara in ginocchio sul marciapiede che mi fissava, puntandomi contro un dito.
Yo te maldigo.” Continuò quella con voce roca. “El ángel de la muerte le llevará!
“Lasciami stare, vecchia.” Gli dissi, più aspramente di quanto non fosse necessario.
Quindi me ne andai, senza voltarmi e senza pensarci due volte.
Con il senno di poi, forse avrei dovuto fermarmi. Chiedere scusa.
Ma non lo feci.
Andai avanti con la mia vita, senza più pensare alla zingara ed al suo naso biturzoluto.
Quella sera, per la prima volta, sentii bussare.
Toc toc toc.
Tre colpi alla finestra. Il ramo di un albero, pensai.
Non gli detti alcun peso.
Ed, ancora una volta, sbagliai.
Due giorni dopo ero di nuovo in strada. Camminavo sul marciapiede quando vidi, dall’altro lato della strada, uno strano individuo vestito di nero che mi fissava.
Dico strano perchè era già maggio, e lui portava un lungo cappotto, un cappello ben calcato in testa ed una sciarpa sul viso. Teneva le mani affondate nelle tasche, ma avrei scommesso che portava anche i guanti.
Andai a casa, e la sera, mentre mi infilavo sotto le coperte, sentii di nuovo quello strano rumore.
Toc toc toc.
“Ci deve essere un bel vento, là fuori.” Mi dissi, e mi addormentai.
La mattina dopo rividi l’individuo in nero.
Era fermo all’angolo della strada e fissava il portone d’ingresso del mio palazzo.
Quella notte, il rumore alla mia finestra si ripetè.
Toc toc toc.
E poi, dopo un’ora.
Toc toc toc.
Mi alzai per prendere un bicchiere d’acqua, e mentre passavo davanti al vetro lo udii per la terza volta, chiaro come il sole.
Toc toc toc.
Lì mi immobilizzai. Per la prima volta non sembrava il vento, ma un rumore di nocche contro il vetro.
Ma nessuno verrebbe a bussare ad una finestra al terzo piano.
Vero?
Per togliermi ogni dubbio, mi avvicinai, pronto a scostare la tenda. Mi trovavo a meno di un metro quando sentii un sonoro Thud, e tutta l’intelaiatura della finestra vibrò, come se avesse ricevuto un colpo improvviso.
Io mi bloccai, e sarei un bugiardo se dicessi che non provai un certo timore. Dopo qualche minuto, vedendo che non accedeva più nulla, mi decisi finalemente a scostare la tenda.
“Non essere stupido.” Mi dissi, ed afferrato un angolo di tessuto lo tirai da parte con un gesto secco.
Ed urlai.
Sul vetro, impressa sul lato esterno, si vedeva chiaramente l’impronta di una mano.
Ed aveva sei dita.
 
 
Inutile dire che passai la notte con tutte le luci accese, il più lontano possibile dalla camera.
Riuscii a tornarci solo quella mattina, con il sole che brillava alto nel cielo.
Con la pelle d’oca mi avvicinai alla finestra, ma non vidi nussuna impronta.
“Te lo sei sognato, razza di idiota.” Mi dissi. Così mi vestii e scesi in strada, pronto ad andare in ufficio.
Lo strano figuro in nero si era spostato. Se fino al giorno prima si trovava all’angolo, ora era avanzato di qualche passo, appostandosi vicino al cassonetto. Passai sull’altro lato della strada senza guardarlo, ma continuai a sentire i suoi occhi su di me finché non scomparvi lungo la via.
Passai la notte successiva in relativa tranquillità. Non sentii rumori strani, e dormii tranquillo come un bambino.
Fino alle tre di notte.
Toc toc toc.
Di nuovo.
E poi ancora, quasi senza pausa.
Toc toc toc.
Mi alzai e, tremando, mi avvicinai alla finestra.
Allungai la mano fino a sfiorare la maniglia sotto le tende, ed allora udii qualcosa di diverso.
Un sibilo, una specie di “sssssììì” esultante, ma freddo. Crudele. Spaventoso.
Ritirai la mano, e sentii un’ondata di gelo provenire da sotto il telaio in legno della finestra.
Toc toc toc!
Tre colpi più decisi, che fecero tremare il vetro.
Ormai non avevo più dubbi. C’era davvero qualcosa, là dietro.
“Vai via!” Urlai all’improvviso, in preda al panico. “Non ti faccio entrare!”
Non so cosa mi abbia preso. Non sapevo nemmeno cosa ci fosse, là dietro.
Ma qualcosa, qualcosa di senziente doveva esserci.
Udii una sorta di risata, ma non con le orecchie.
La sentii nell’animo, fredda ed agghiacciante come una spina gelata.
Allora le mie ginocchia cedettero ed io crollai sul pavimento, in lacrime.
Piansi come un bambino fino al mattino seguente, troppo spaventato per fare alcunchè.
Il giorno seguente andai in ufficio e mi licenziai. Ero certo di stare impazzendo, e preferivo andarmene di mia spontanea volontà prima di essere cacciato.
Tornando a casa vidi di nuovo l’uomo in nero. Era avanzato di qualche altro passo. Ora si trovava a meno di cinquanta metri dal mio portone.
“Se ne vada!” Gli urlai contro, all’improvviso. “Se ne vada, o chiamo la polizia!”
Lui non fece una piega, ma continuò a fissarmi.
Poco prima di entrare nell’androne del palazzo mi voltai a guardarlo per l’ultima volta, e quello sollevò una mano in segno di saluto.
Una mano con sei dita.
Terrorizzato, mi girai e fuggii.
Feci i gradini due a due, e chiusi la porta del mio appartamento a doppia mandata.
 
 
Ed ora sono... ecco credo siano due settimane, sì.
Due settimane che faccio una vita da recluso.
Mangio cibo in scatola e bevo acqua del rubinetto. Non esco nemmeno a buttare la spazzatura.
In questi giorni fa caldo, ma preferisco morire soffocato qua dentro, piuttosto che aprire le finestre.
Ormai continua a bussare.
Ad ogni ora del giorno e della notte, lui è lì, che chiede educatamente di entrare.
Toc toc toc.
Toc toc toc.
Oh, ma non mi frega.
No, no davvero.
Io so chi è. Ormai l’ho capito. Lui, il mio uomo in nero, è l’ángel de la muerte, l’Angelo della Morte.
La zingara l’ha chiamato, ed è venuto per me.
Ma io non lo farò entrare.
Mai, dovessi morire, impazzire qua dentro.
Ha smesso di bussare alla finestra. Ve l’ho detto?
È andata in frantumi due giorni fa.
Ora bussa alla porta della camera. L’ho chiusa a chiave e ci ho messo davanti il divano.
Questo lo terrà impegnato, almeno per un pò.
Non sembra saperci fare, con le serrature. Ieri l’ho sentito armeggiare con gli ingranaggi, ed alla fine ha desistito.
Ma impara in fretta.
È freddo e crudele, e la sua volontà è di gelido acciaio.
Non entrerà. Non lo farò entrare.
Toc toc toc.
Toc toc toc.
No, non entrerà. Non mi avrà mai, mai!
Toc toc toc.
Toc toc toc.
Toc toc toc.
... Click...
La porta si apre.
Sta arrivando.
 
 
... Oh, Dio, Aiutami...
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
BUH!
Paura, eh?
D’accordo, direi che con le storielle paurose ci sto prendendo la mano. Più o meno.
L’ho scritta di fretta, per cui potrebbero esserci degli errori di battitura che mi sono sfuggiti. Se ne trovate qualcheduno, non esitate a segnalarmelo.
Grazie per l’attenzione :)
Afep.
 
  
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