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Autore: Angeline Farewell    05/06/2013    6 recensioni
Kim Hyde (Home & Away)/Bill Hazeldine (Suburban Shootout)
Bill è un bravo ragazzo inglese, Kim il classico bello da spiaggia australiano. Bill credeva di voler studiare teologia e andare in Africa, Kim non sa più nemmeno se può immaginare un futuro. Un incontro/scontro che può far deragliare due vite o forse, semplicemente, rimetterle nel giusto binario.
[I protagonisti di questa storia sono personaggi di due diversi telefilm: Home And Away (Kim Hyde/Chris Hemsworth) e Suburban Shootout (Bill Hazeldine/Tom Hiddleston). La storia che mi accingo a raccontare è dunque una AU - o What If?, se preferite - che comincia nel 2006, ovvero all'indomani dell'inizio dell'università per Bill e della notizia della mancata paternità (e conseguente colpo di testa) per Kim.]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Nuovo personaggio, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 12: This is where it all begins. Everything starts here, today.
 

La settimana di San Valentino era passata in un tripudio di dolcetti e nuove coppie appena formate, ma Bill non se ne sarebbe nemmeno accorto se non avesse ricevuto ben due cuori di cioccolato da altrettante colleghe del corso di Psicologia Sociale, regali che non si era decisamente aspettato: non credeva di essere l’oggetto dell’interesse di nessuna delle sue compagne di corso o di dormitorio, al più aveva pensato lo frequentassero perchè interessate a Kim. Soprattutto non avrebbe mai creduto di poter piacere ad Emily, con la sua espressione perennemente imbronciata e la sua ostentazione di un titolo nobiliare che le aveva procurato più sfrecciatine di quante fosse disposta ad ammettere di aver colto: ma se ti chiami Wetmore-Story*, il sangue blu non può aiutarti nemmeno se imparentato direttamente con quello reale.

Aveva ringraziato e restituito la cioccolata anche a Gillian, che era graziosa e simpaticissima, ma non voleva rischiare potesse pensare lui ricambiasse il suo interesse. Bill non aveva più interesse per nessuno, doveva solo pensare a studiare, arrivare al terzo anno, laurearsi e poi trasferirsi alla London University per terminare il corso di studi. Giada gli aveva parlato dell’eventualità di un PHd, di un internato per l’ONU già a partire dal primo anno di dottorato che non voleva assolutamente lasciarsi scappare, ma era essenziale si trasferisse a Londra e di seguire i corsi a Cambridge da esterno non se ne parlava, avrebbe passato più tempo in treno che a studiare con tranquillità.

Non vedeva Kim da più di una settimana. Se non avesse tenuto conto delle occasioni in cui si erano incrociati per sbaglio tra il Fitzbillies e il parco, le settimane sarebbero state due. Continuavano a sentirsi tramite sms, e quello Bill proprio non riusciva a capirlo: cercava di rispondere a meno messaggi possibile, ma meno lo faceva più Kim sembrava insistere, arrivando addirittura a telefonargli. Ci stava diventando matto e non ne poteva più.
Non sarebbero mai andati in Australia insieme, di quello era sicuro. Kim ci sarebbe tornato, un giorno, ma da solo; o forse con quella Emma, o chissà chi altra. Non riusciva a credere di aver passato un intero pomeriggio su internet durante le vacanze natalizie cercando solo mute da surf. E tavole adatte ai principianti come lui. Aveva addirittura preso in considerazione la possibilità di dottorato in Australia, non gli sarebbe dispiaciuto lavorare con la comunità degli aborigeni australiani, studiare più a fondo quella parte del Commonwealth e rendersi utile, magari come educatore. Kim gli aveva assicurato che sarebbe stato un ottimo insegnante, era stato lui ad ascoltarlo mentre ripeteva ad alta voce l’ultima lezione di fine termine, quella che gli sarebbe valsa il voto finale. Ma Kim non l’avrebbe più ascoltato ripetere nulla, quindi si sarebbe arrangiato da solo per la prova di metà termine e andava benissimo così.

A volte sentiva il suo cervello trasformarsi in un criceto impazzito che non riusciva più a scendere dalla ruota, pensava a ripensava senza sosta, rimuginava su ogni piccolo dettaglio dei mesi trascorsi, su cosa avesse potuto fare – o non fare – per allontanare così quello che credeva il suo migliore amico. Le ragioni di Jewel era riuscito a comprenderle, con il senno di poi – e sì, si era comportata un po’ da stronza, poteva anche dirlo - ma quando pensava a Kim finiva solo per domandarsi come era potuto succedere e come avesse fatto a non accorgersi di essere stato solo un tappabuchi. E forse non era giusto pensarlo, ma si sentiva trattato esattamente in quel modo.
Quando finiva su quella china, l’unica cosa da fare era mettersi a studiare di più e segnare un’altra tacca al calendario, perché di tempo non poteva e non voleva più perderne.

Erano passate più di due settimane dall’ultima volta che Kim era andato a trovarlo quando aveva deciso che, qualunque fossero i suoi rapporti con Kim in quel momento, non poteva privarsi dei dolci del Fitzbillies per paura di incontrarlo. O forse di non incontrarlo, la variabile era piuttosto sfumata.

Ci era andato un pomeriggio con il cielo inaspettatamente limpido, l’aria troppo fredda per essere fine febbraio e l’umore tetro: aveva urgente necessità di zuccheri e grassi saturi, cioccolato e tè bollente.

“Bill! Tesoro, finalmente ti fai rivedere! Vieni a sederti al banco, ti porto i biscotti, li ho appena sfornati.”

Lizzy l’aveva accolto come al solito, c’era giusto una nota stonata nella sua voce, troppo forzatamente allegra forse, come se tentasse di sopperire ad una mancanza. Erano sempre tutti genuinamente felici di vederlo e lui era felice di vedere loro, nonostante le macchie enormi di rossetto quasi indelebile che Posh gli stampava sempre sulle guance e che gli avevano procurato non poco imbarazzo in dormitorio.
Big Ed non era dietro il bancone né in laboratorio, quindi il locale era tutto per le due signore e un po’ Bill ci era rimasto male, anche se non voleva ammetterlo nemmeno con se stesso: sapeva che il giovedì Ed si prendeva sempre il pomeriggio libero per passare qualche ora con gli amici, mentre il martedì era riservato a Lizzy. La domenica sera, invece, Lizzy si agghindava, Ed tirava fuori la cravatta, e uscivano a cena fuori come una coppietta di fidanzatini. Era una routine collaudata, la loro, e durava da decenni.
Quindi Bill aveva inconsciamente sperato le due signore non fossero sole. Però c’era solo Stewart con loro, che aveva scoperto con non poca sorpresa studiasse al St. John’s e fosse il primo del suo corso di Fisica, nonostante sbagliasse regolarmente a battere gli scontrini. Vatti a fidare delle apparenze.

Alla fine non aveva preso il tè né una cioccolata, ma si era detto che non era stata la delusione a fargli passare la voglia di crogiolarsi al caldo di quel locale familiare. Aveva piluccato i biscotti deliziosi di Lizzy e Posh gli aveva fatto un pacchetto con le brioche che avrebbe mangiato in dormitorio, da solo.

Solo che quando aveva fatto per andarsene, era rimasto gelato sul posto da una voce fin troppo nota. Kim era appena entrato nel locale, ma non da solo.

La misteriosa Emma di cui aveva sentito parlare troppo poco era infagottata in un cappotto di lana grezza che avrebbe fatto la gioia di sua cugina Giada, ma che non riusciva comunque a nascondere la sua forma minuta e ben fatta. Accanto a Kim sembrava una nanerottola, ma era talmente carina che il dettaglio passava in secondo piano: i capelli biondissimi e lisci sotto il cappello di lana spessa, gli occhi grandi, l’espressione vivace. Capiva benissimo perché Kim si fosse invaghito di una ragazza così, perché non avrebbe dovuto? Avevano anche gli stessi interessi e le stesse ambizioni, erano belli, praticamente fatti l’uno per l’altra. Sarebbe stato strano Kim avesse preferito ancora la sua compagnia, piuttosto.

Avrebbe preferito non vederli, però. Per quanto fosse carina e magari tanto simpatica quella ragazza, Bill era arrabbiato, perché non era giusto Kim l’avesse trattato in quel modo, non era giusto gli avesse fatto credere fossero amici quando in realtà, tutto quello che gli serviva era qualcuno con cui passare il tempo in attesa di trovare di meglio. Esattamente come aveva fatto Jewel; che era una stronza, certo, ma allora era uno stronzo anche Kim.

“Bill! Che ci fai qui?”

Uno stronzo che non aveva alcun diritto di guardarlo come se fosse di troppo, era lì per le brioches ripiene e la cioccolata, non era certo andato al Fitzbillies sperando di vedere lui. O almeno, questo Kim non doveva saperlo.

“Piccola pausa per le brioches. Stavo andando via.”

Gli aveva mostrato il sacchetto di carta colorata frapponendolo tra loro esattamente come aveva fatto Kim due settimane prima. Non lo aveva fatto consapevolmente, ma voleva mantenere le distanze. Non che credesse Kim si sarebbe avvicinato troppo, figurarsi. Non con Emma accanto.
Che stava palleggiando lo sguardo tra loro due con un’espressione indecifrabile, ma Bill non aveva voglia di prestarle attenzione, voleva solo tornare in dormitorio e dimenticarsi di Kim, mangiare le sue brioches e poi mettersi a letto, anche se era troppo presto per dormire. E avrebbe chiamato sua madre e sarebbe tornato a Little Stempington per il week end, ci fosse o meno Jewel nei paraggi, non gl’importava più.

Emma aveva dato un colpetto a Kim, come per scuoterlo dall’imbarazzo, e Bill li aveva odiati tutti e due per quell’intimità che lo aveva fatto sentire di troppo una volta di più. Gli aveva teso una mano presentandosi prima che potesse dribblare entrambi per uscire dal locale ed era stato costretto a stringergliela. Non era colpa di Emma, sembrava davvero una ragazza carina, Kim sembrava stare bene, quindi non era giusto prendersela con lei. Non era lei che aveva giocato all’amica del cuore per mesi, salvo lasciarlo al palo alla prima occasione.
Aveva cercato di essere gentile, si era scusato ed aveva tentato di nuovo si andare via.

“Rimani ancora un po’, mangiali qui quei dolci.”

Kim aveva un’espressione talmente tesa che era evidente avrebbe preferito essere da tutt’altra parte. O forse avrebbe preferito lui fosse da tutt’altra parte e realizzarlo lo ferì più di quanto volesse e potesse ammettere.

“No, devo tornare a studiare. Ho già perso troppo tempo, ora basta.”

Aveva fatto un cenno di saluto ad Emma ed era andato via senza aggiungere altro, senza preoccuparsi di guardare Kim un’ultima volta: per quel che lo riguardava era stato un addio più che sufficiente.

Aveva passato le due ore successive a studiare furiosamente senza riuscire a memorizzare una sola parola. Le brioches erano ancora nel loro sacchetto di carta, dimenticate su un angolo della scrivania, ormai fredde. In lontananza, le campane della Little St. Mary’s battevano i quarti che mancavano alle undici e Bill si maledì mentalmente per aver fatto tanto tardi, avrebbe dovuto rimandare la chiamata a sua madre all’indomani.
Aveva chiuso il grosso libro di… in realtà non sapeva nemmeno di cosa avesse letto nelle ultime due ore, il che non era confortante. Non aveva sonno, ma non aveva senso continuare a tentare di studiare, era evidente che non avrebbe memorizzato nulla, quella sera.

Era stato costretto a spegnere il cellulare, il bip bip ritmico e continuo dei messaggi in arrivo aveva rischiato di farlo impazzire, soprattutto perché sapeva benissimo chi gli stesse scrivendo: era riuscito a stento ad impedirsi di buttarlo dalla finestra.
Che senso aveva? Kim lo ignorava, peggio, lo evitava platealmente, e poi pretendeva di tenerlo incollato al cellulare con messaggi e chiamate? Non era più a Little Stempington né a Londra, era lì a due passi, il cellulare era un mezzo inutile. E lui non aveva bisogno gli si lanciasse un osso di consolazione, non era un cane e non aveva bisogno di compagnia a tutti i costi. Conosceva altra gente, avrebbe avuto altri amici, non aveva bisogno di Kim, che se ne stesse con la sua ragazza e lo lasciasse in pace.

Nessuno avrebbe mai saputo del tempo che aveva sprecato nella doccia a piangere come un cane abbandonato sull’autostrada, un patetico ragazzino che si sentiva di nuovo solo. Le lacrime si erano mischiate all’acqua che andava raffreddandosi e le aveva asciugate con un telo fingendo non fossero lì, perché era stato un momento di debolezza ridicolo e non era servito a nulla. Perché l’unico che avrebbe potuto confortarlo era uno stronzo.

Non era nelle condizioni di spirito migliori per accogliere ospiti, di sicuro non a quell’ora e non con i capelli ancora umidi. Aveva provato ad ignorare i colpi sempre più insistenti, ma chiunque fosse non sembrava volerne sapere di desistere. Guardò di nuovo la sveglia: quasi mezzanotte. Matt che aveva di nuovo dimenticato di fare il bucato ed era lì a mendicare un asciugamani pulito? Non sarebbe stata la prima volta.

“Non hai risposto ai miei messaggi.”

Che ci faceva Kim fuori dalla sua porta? Alle undici e mezzo il dormitorio veniva chiuso per i visitatori, come aveva fatto a superare il custode?

“Mi ha visto talmente tante volte da inizio anno che pensa sia uno studente. Non mi ha chiesto nulla.”

Splendido.

“Non mi fai entrare?”

“Stavo per andare a letto, domani devo alzarmi presto.”

“Domani è venerdì, il primo corso comincia alle dieci e le aule sono dall’altra parte del cortile. Non devi svegliarti presto.”

Bill era arrossito leggermente, colto sul fatto. Di certo non immaginava Kim conoscesse il suo piano di studi e i suoi orari anche meglio di lui, ma se organizzi il tuo tempo libero attorno a quello di un altro, finisci per ricordare anche minuzie apparentemente insignificanti pur di poter passare ogni momento possibile con lui.
Si era spostato leggermente aprendo di più la porta per lasciarlo entrare e Kim si lasciò scappare un piccolo sospiro di sollievo: almeno non lo aveva mandato via.

Quando Bill aveva lasciato il Fitzbillies dopo un saluto che sembrava una condanna, dire che avesse quasi avuto una crisi di nervi era poco. Per fortuna Posh lo aveva trascinato nel retro del locale prima che potesse rendersi ridicolo davanti alla platea della clientela abituale.
Non si era aspettato di trovarlo lì, non si era aspettato tanta freddezza, anche se sapeva di meritarla. Non si era aspettato di essere declassato a perdita di tempo: e lui sapeva bene cosa comportava per lui, per loro.

Gli aveva mandato un messaggio dopo l’altro, tutti rimasti senza risposta. Aveva provato a chiamarlo, ma il cellulare era stato spento. Non riusciva a credere stesse succedendo davvero, aveva cercato di fare tutto il possibile perché non succedesse eppure stava avvenendo come nei suoi peggiori incubi: Bill se ne stava andando, stava perdendo il suo migliore amico.

Emma aveva continuato a blaterare di cose assurde fino a che non l’aveva pregata di lasciarlo solo, non aveva bisogno di bugie che gli rendessero più sopportabile la perdita. Perché di quello si trattava, perdita, e c’era dell’ironia crudele: aveva cercato di preservare la loro amicizia, di non spaventarlo e non perderlo, ma aveva fatto tutte le scelte sbagliate.

Come al solito.

Non sapeva nemmeno dove avesse trovato il coraggio di raggiungerlo in dormitorio, l’indomani lui avrebbe dovuto svegliarsi prestissimo davvero per il primo incontro di orientamento, ma non gl’importava: anche a mettersi a letto, non sarebbe riuscito a chiudere occhio e Bill non gli avrebbe fatto da sveglia come aveva cominciato a fare sempre più spesso, tre squilli al cellulare e un messaggio minatorio che non mancava mai di farlo scoppiare a ridere: era diventato il suo modo preferito di cominciare la giornata.

“Credo dovremmo parlare.”

Il problema è che non sapeva bene come iniziare. Cosa avrebbe dovuto dirgli, che scusa cercare? Probabilmente aveva preparato un discorsetto con delle giustificazioni plausibili, ma aveva dimenticato persino di averlo pensato.

“Non vedo di cosa. Io credo che dovrei andare a letto comunque, è tardi.”

“Non così tardi, abbiamo fatto di peggio anche il giorno prima di un test.”

Aveva sperato di ammorbidirlo con un ricordo piacevole, un ricordo loro, ma Bill non sembrava intenzionato a fargli sconti. Si era limitato a sollevare infastidito un sopracciglio e a distogliere lo sguardo per fissare la sveglia sulla scrivania. Mi stai facendo perdere tempo, il messaggio era chiaro, e Kim avrebbe voluto sprofondare. Stava andando tutto male per l’ennesima volta.

“Io ci voglio tornare in Australia con te, ti ho promesso di insegnarti a fare surf .”

“Non ha importanza, nessuno dei due ne avrebbe comunque il tempo.”

“Siamo amici, possiamo trovarlo e-”

“Onestamente, Kim, perché sei qui? Non lo capisco, non è necessario. Non devi giustificarti di nulla con me, che siamo alle elementari? Non occorre mi mandi un bigliettino per chiedermi di essere o non essere tuo amico: siamo grandi entrambi, lo sappiamo come vanno queste cose, ci si conosce, si sta bene insieme, poi le cose cambiano e non si sta più bene. Punto. Non ha importanza, si va avanti. Non devi cercare di trovare giustificazioni per il fatto tu abbia trovato altri interessi ed altre persone con cui stai meglio. Sono contento per te. Avrei preferito fossi più onesto, ma va bene anche così, non è certo una colpa volere altre cose.”

Kim era rimasto senza parole. O forse ne aveva troppe che tentavano di venire fuori tutte insieme. Gli veniva da ridere e da piangere allo stesso tempo e l’avrebbe fatto se non avesse temuto di sembrare matto. Perché Bill aveva colto per l’ennesima volta il cuore del problema, ma alla rovescia. E come fargliene una colpa? Lui non poteva certo sapere, non immaginava nemmeno.
Alla fine si era limitato a sorridere sperando di non sembrare troppo stupido e gli si era avvicinato, tanto non aveva più nulla da perdere.

“Hai ragione, voglio altre cose e non voglio più essere solo tuo amico.”

E si era allungato abbastanza da toccare la bocca di Bill con la sua. Era stato un bacio di quelli che non dava più dal settimo anno**, le labbra chiuse e asciutte, troppa pressione e il cuore che sembrava volergli esplodere nelle orecchie. Non aveva desiderato altro che baciarlo per settimane e, quando ne aveva avuta l’occasione, l’aveva fatto come un ragazzino alla prima cotta.

“Mi dispiace davvero Bill, non volevo finisse così, ho cercato in tutti i modi di non volere altre cose, non ci sono riuscito. Volevo almeno continuassi ad essere mio amico, ma ho rovinato tutto ugualmente.”

Non aveva avuto il coraggio di guardarlo in faccia, dopo. Preferiva non doversi confrontare con la realtà del rifiuto e della delusione, non avrebbe retto ad un altro sguardo come quelli di suo padre.
Bill non aveva mosso un muscolo, ovviamente non aveva ricambiato nulla ed era rimasto zitto come una statua di sale.

“Ti giuro che non succederà mai più, farò in modo che non succeda mai più. Ti prego, dammi solo un po’ di tempo, mi passerà, me la farò passare. Davvero.”

Il silenzio che era calato in quella piccola stanza da studente era spezzato solo dal ticchettare ritmico della sveglia, non si udivano nemmeno i loro respiri. Kim non sapeva per quanto tempo era rimasto a fissarsi le mani e a contare i battiti del suo cuore sperando rallentassero abbastanza da non fargli temere esplodesse. Bill non si muoveva, non emetteva un fiato, sembrava davvero salificato: come dargli torto? Se le parti fossero state rovesciate non sapeva come si sarebbe comportato, probabilmente non con altrettanta calma. Lui non affrontava mai le situazioni con calma, per quel motivo finiva sempre nei guai.
Ma anche il silenzio è eloquente. Con un sospiro sconfitto si era raddrizzato raccogliendo gli ultimi brandelli del suo ego e del suo cuore in pezzi e aveva fatto per dirigersi verso la porta, perché era evidente non avesse più nulla da fare lì, non ci fosse più nulla da salvare.

Quasi non aveva sentito la mano di Bill sfiorargli il braccio. Era stato un tocco leggerissimo, tanto da fargli pensare di averlo immaginato. Ma Bill si era mosso, si era avvicinato.

“Ma io non voglio che ti passi.”

Quando aveva trovato il coraggio di guardarlo negli occhi, Kim non aveva visto fastidio, delusione, o qualcosa di peggio. Bill sembrava stupito. Lo guardava con gli occhi sgranati, più esitante su cosa fare e dire che non disturbato o arrabbiato.

“Bill…”

“Sul serio. Non voglio che ti passi.”

Lo aveva ripetuto con voce più ferma, più sicura, senza mai smettere di guardarlo negli occhi. E Kim non riusciva a crederci: Bill era fermo davanti a lui, non lo stava mandando via e non stava scappando, ma gli stringeva con la punta delle dita una manica della maglietta, quasi temesse – lui!- volesse andare via.

Quando si era avvicinato per baciarlo di nuovo, per baciarlo davvero, la paura non era diminuita, ne aveva tanta che gli fischiavano le orecchie per l’adrenalina in circolo.
Era stato Bill a stringere di più la presa sul suo braccio, a farlo avvicinare di più con una pressione quasi impercettibile, ma che era decisamente reale.

“Davvero. Va bene così.”

E aveva quasi pensato fosse un peccato coprire quel sorriso. Quasi, però.

*

Bill non aveva mai avuto problemi ad addormentarsi, così come a svegliarsi presto. Sua madre diceva che i bravi ragazzi con la coscienza a posto non hanno pensieri sgradevoli a tenerli svegli, né problemi che non vogliono affrontare a trattenerli sotto le coperte.
Bill non aveva chiuso occhio quella notte, ma non aveva alcun pensiero molesto a tormentarlo; non voleva alzarsi dal letto, ma non era il peso di un problema a trattenerlo sotto le coperte, quanto una testa bionda che aveva deciso di usarlo come cuscino.

Kim dormiva profondamente e non sembrava intenzionato a svegliarsi presto, ma a Bill stava più che bene: non pensava potesse essere tanto piacevole condividere un letto troppo piccolo, dividersi una coperta e il calore della pelle. Non pensava si potesse voler così tanto bene a qualcuno da abbandonare totalmente ogni via nota per imboccare un sentiero che non avrebbe mai pensato di voler percorrere. Prima di Kim, però.

Si sentiva stupido a non averlo capito subito, ad aver pensato il suo fosse l’affetto che si regala ad un amico: la verità è che probabilmente l’aveva amato dal primo momento, quando gli aveva portato la cioccolata calda ed una brioche surgelata nella penombra di un locale chiuso.

Non avrebbe mai immaginato di poter amare un altro ragazzo. Ma, meno di un anno prima, non avrebbe nemmeno immaginato di perdere la testa per una ragazza come Jewel o di perdere la verginità con una danese più grande di lui che non avrebbe probabilmente mai più rivisto.

Aveva un po’ paura e forse aveva ragione sua madre, sono i pensieri sgradevoli a tenerti sveglio, perché era nudo e abbracciato ad un altro ragazzo nudo e si sentiva dolorante e appiccicoso. Anche felice, però. E confuso, e non sapeva come il suo mondo avrebbe reagito al sorgere del sole.

Aveva abbracciato Kim più stretto sperando si svegliasse e rimanesse addormentato, non sapeva bene quale delle due opzioni preferisse: voleva aprisse gli occhi e scoprire di non essere solo nelle sue preoccupazioni, com’era stato solo un pugno di ore prima quando, distesi per la prima volta su quello stesso letto, aveva guardato Kim negli occhi e si era specchiato nella sua stessa paura per quel che stavano per fare. Eppure non era pronto ad affrontare tutto e a perdere il peso della sua testa sul cuore, lo teneva ancorato a qualcosa di solido e reale.

La sveglia squillante del cellulare di Kim aveva letteralmente squarciato il silenzio dell’alba all’improvviso, facendolo sussultare. Kim dormiva così profondamente che si era appena stiracchiato infastidito, per poi stringersi di più contro il suo petto.

Poi era saltato su come una molla mettendosi a sedere sul letto, improvvisamente sveglissimo.

“Perché non mi hai svegliato? Non dovrei essere qui, farò tardi!”

Era schizzato via dal letto rischiando di farlo cadere, aveva sbattuto contro la scrivania e l’armadio più volte tentando di raccogliere ed infilarsi il più in fretta possibile tutti i vestiti.
Bill si era messo a sedere sul letto guardandolo incredulo mentre si agitava in preda ad una fretta che non riusciva a capire: erano le sei del mattino, possibile avesse tanta fretta di andarsene? Aveva già cambiato idea?

Kim intanto si era infilato il cappotto ed era uscito di corsa senza una parola.

La camera era ripiombata nel silenzio irreale dell’alba, Bill riusciva a sentire chiaramente il suo respiro, persino le tante, piccole crepe che sentiva aprirsi nel petto. Era rimasto seduto tra le lenzuola e le coperte sfatte, improvvisamente infreddolito e dolorante.
Avrebbe pianto se non fosse anche troppo sorpreso per una qualunque reazione: Kim l’aveva a malapena guardato, si era rivestito ed era scappato via. Dopo la loro prima notte insieme.

Forse aveva ragione Padre Peenas, il sesso è peccato e il peccato si paga? Non gli risultava il resto del mondo che non praticava l’astinenza se la passasse tanto male, però. Magari era proprio solo colpa sua.

Non sapeva quanto tempo era rimasto a fissare il vuoto, solo che era stato riscosso dalla porta della sua camera che si spalancava di colpo: sull’uscio c’era Kim, l’espressione stravolta e i capelli arruffati, sudato come chi ha corso su e giù per le scale come un matto.
Si era precipitato verso il letto, verso di lui, lo aveva abbracciato con forza e lo aveva baciato. Non come si erano baciati la sera prima, un bacio di quelli che ti fanno sciogliere, e Bill si era completamente dimenticato di tutto, era creta tra le sue braccia, facesse pure quel che voleva.

“Buongiorno.”

Era stato appena un sussurro sulle labbra e Bill gli aveva risposto con un sorriso piccolo piccolo. E grato: andava tutto bene.
Kim non aveva allentato la stretta delle sue braccia, aveva continuato a stringerlo mentre gli sfiorava il viso con la bocca, come in una scena da filmetto romantico, ma aveva importanza? Il clichè, in quel caso, a Bill stava benissimo, insieme a Kim sarebbe volentieri anche soffocato nei clichè.

“Ho un incontro di orientamento per il corso da insegnante, comincia alle 8.”

“Farai tardi.”

“Non importa, qualche minuto in più o meno non cambierà le cose. Dopo i tuoi corsi mi aspetti al locale?”

Bill gli aveva sorriso contento, perché quella era la formula con la quale si salutavano sempre, da settimane, mesi, da che si conoscevano. Aveva annuito e l’aveva baciato sulla bocca stringendogli ancora di più le braccia al collo. Kim gli aveva sorriso contro le labbra e si era lasciato abbracciare.

“Bene. E lavati i denti, tu che hai tempo.”

Bill si era staccato da lui come se avesse preso la scossa, si era allontanato il più possibile ed era arrossito furiosamente: non si era ancora lavato i denti, doveva avere un odore disgustoso!

Ma Kim era semplicemente scoppiato a ridere prima di allungarsi sul letto per trascinarlo di nuovo verso di sé e baciarlo con forza.

“Ci vediamo più tardi.”

Kim stava ancora ridendo quando aveva richiuso la porta della camera dietro di sé per la seconda volta da che erano svegli, ma Bill non riusciva a volergliene. Era felice, erano felici.

E quel pomeriggio, quando lo avrebbe rivisto al Fitzbillies, sarebbe stato Bill a baciarlo per primo.

 

FINE.

 

 

Note:
*Gioco di parole: Wet = bagnato, More = più/di più, Story = storia/racconto. Devo davvero spiegare il doppio senso sconcio che si può tirare fuori? ಸ‿ಸ

**Secondo il sistema scolastico Australiano il Settimo Anno d’istruzione corrisponde – con variazioni da Stato a Stato – al primo anno di scuola superiore o all’ultimo di scuola primaria (l’equivalente delle nostre elementari/medie) e l’età dello studente varia tra i 12 e i 13 anni.
Summer Bay si trova (nelle intenzioni degli sceneggiatori di Home and Away: in realtà la cittadina non esiste) nello stato del Nuovo Galles Del Sud, quindi Kim ha cominciato a dare baci alla francese in prima liceo a 13 anni. u.u

NDA:
Grazie a tutte coloro che hanno avuto la pazienza di star dietro a questa storia e alla mia lentezza, che abbiate commentato, favvato (ecc.) o meno: grazie di cuore, spero il finale non vi abbia deluse. ヾ(*´∀`*)ノ

   
 
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