Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Pleasebemywill    07/06/2013    67 recensioni
Quella che mi ritrovai di fronte non era come la mia vecchia casa. Non era costruita sopra uno spiazzo di sabbia, non sentivo l’odore salino del mare che con una leggera brezza entrava fin dentro casa, non vedevo i surfisti cavalcare le prime alte onde del mattino, messi i piedi a terra non ebbi la scomodità di ritrovarmi le infradito piene di finissima sabbia. Proprio perché forse non avevo nemmeno le infradito, proprio perché forse lì non vedevo nemmeno la sabbia. Lì vedevo solo alti palazzi e case analoghe fra loro: una strada, asfalto, cespugli da decorazione, marciapiedi e quello che poteva sembrare il mare in lontananza in realtà era solo il colore del cielo - solo un po’ più intenso.
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Disclaimer: La storia che vi apprestate a leggere è di proprietà della rispettiva autrice, così come i personaggi in essa contenuti, eccetto quelli noti.
I fatti narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autrice, pertanto ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale, non voluto e senza alcuno scopo di lucro.
Tutti i diritti sono riservati dal proprietario e creatore di questo lavoro (Pleasebemywill), e qualsiasi copia non autorizzata, la trasmissione, la manipolazione, la distribuzione o la vendita di questo lavoro costituisce una violazione del diritto d'autore.
Ogni violazione di questo copyright è punibile dalla legge.




Equation
(My new life in USA)

by pleasebemywill



1


Charlotte Wilson

Erano i primi di Settembre. Quei ventosi e caldi primi giorni di Settembre in cui salutai drasticamente i miei amici, lasciai la mia casa e miei ricordi in Australia partendo verso l'America.

«Charlie, non possiamo restare in Australia se tuo padre deve andare a lavorare in America.»

Così mi diceva mamma ogni volta che accennavo anche solo l'argomento "trasferimento". Non era una cosa facile da accettare. Sì, adoravo l'America, lì ci giravano praticamente tutte le serie televisive che guardavo. Come facevo a non adorarla? Ma non così tanto da andarci a vivere. Nonostante tutti i tentativi di opposizione, l'idea dei miei genitori rimaneva sempre la stessa. In America in realtà avevo i nonni e mi confortava l’idea di poter contare su di loro per qualsiasi problema o comunque per un primo approccio. La casa che avevamo comprato era molto distante dalla loro, stessa città ma quartieri completamente diversi.

Stavo in macchina, lì, per l’ultima volta per molto molto tempo, ad agitare la mano e a guardare le villette a schiera davanti la costa passar una dopo l’altra e sapevo che non avrei smesso di piangere, mentre salutavo, per quello che poteva essere un “addio”, dolorosamente la mia migliore amica, Juno.

«Sei fortunata Charlie. Puoi essere quello che vuoi, puoi presentarti con una personalità del tutto diversa senza che nessuno ti dica che tu non sia vera, perché nessuno ti conosce quanto me. Ma mi mancherai, lo sai.» E mi mostrò la sua collanina a forma di cuore, quella che le avevo regalato per il compleanno, ricordandomi che l’avrebbe portata al suo collo fino alla fine dei tempi. Questi furono gli ultimi momenti strappalacrime fra noi due, prima che potessimo coronare il momento in un affettuoso abbraccio, lasciando che qualche lacrima ci rigasse le guance.

Australiana, sedici anni. In piena adolescenza mi ritrovai a dover accettare l’idea di ricominciare tutto da capo. Ma sapevo che l'unico modo per affrontare la cosa era cercare di inserirmi al meglio nella nuova città.






Era una giornata di sole, quando scesi dal taxi che ci aveva portato dall’aeroporto di New York alla nostra nuova casa in un quartiere di Brooklyn. Quella che mi ritrovai di fronte non era come la mia vecchia casa. Non era costruita sopra uno spiazzo di sabbia, non sentivo l’odore salino del mare, che con una leggera brezza entrava fin dentro casa, non vedevo i surfisti cavalcare le prime alte onde del mattino, messi i piedi a terra non ebbi la scomodità di ritrovarmi le infradito piene di finissima sabbia. Proprio perché forse non avevo nemmeno le infradito, proprio perché forse lì non vedevo nemmeno la sabbia. Lì vedevo solo alti palazzi e case analoghe fra loro: una strada, asfalto, cespugli da decorazione, marciapiedi e quello che poteva sembrare il mare in lontananza in realtà era solo il colore del cielo - solo un po’ più intenso. Ma era comunque bella, con tutta onestà, la mia nuova casa, più grande di quella in cui avevo abitato dalla nascita, ed aveva persino un odore diverso, che non era di nuovo, era solo diverso.
 
Aperta la porta, dopo che papà ebbe inaugurando le nuove chiavi di casa di fronte a me a mamma, presi le mie valige e salii con fatica le scale per arrivare fino alla porta della mia futura camera da letto. Sapevo qual era. Papà ci aveva mostrato il progetto dell’intera casa in pianta e sapevo che a me sarebbe toccata la prima stanza di fronte le scale. Ed era come me l’aspettavo, come avevo visto su carta: c’erano due finestre che illuminavano come fosse primavera l’intera stanza, i muri erano bianchi e il pavimento era in parquet chiaro, come avevo sempre desiderato. Nella casa in Australia il parquet era bianco e non mi piaceva, poi cigolava troppo. Come mobili era spoglia, c’era solo un letto a due piazze. Mi ci buttai sopra gettando giù un urlo estenuante. Rimasi in quella posizione per molto tempo fino a quando non mi girai a pancia in su e fissai il soffitto: Bianco. Proprio bianco. Come il vuoto che ristagnava nella mia mente.

E i giorni seguenti furono proprio così, vuoti. Ci presentammo ai nostri nuovi vicini, ricevemmo quantità industriali di dessert e teglie intere di maccheroni al formaggio come buon benvenuto dal vicinato. Perché una delle cose che contava di più era “l’immagine”. L’immagine, sì insomma, come apparivi alla gente. Se il tuo giardino era secco e non curato, era una brutta immagine. Perché? Perché si proiettava in te l’immagine della trascuratezza. Stessa cosa la piscina. Era piena di foglie e non avevi voglia di cambiare il filtro, calcolando che comunque non eri capace a farlo? Bene, l’immagine della sporcizia. Uscivi fuori a prender il giornale e non ringraziavi il tizio della consegna? Bene, l’immagine della maleducazione.
 
Questo significava per mia madre l’idea dell’immagine. E io per lei dovevo avere una buona immagine. Dovevo salutare chiunque passasse di lì, pretendendo da me persino di far -ciao ciao- con la manina, anche agli sconosciuti. Dovevo pulire spesso la finestra, ma solo agli occhi dei vicini. Specialmente agli occhi dei nostri nuovi vicini. Dovevo uscire sempre con i capelli in ordine, dovevo sempre ringraziare, dovevo dare del lei e non sbagliare a dare del tu, in confidenza. Ed era necessario, sosteneva lei, tutto questo. Affinché la gente non pensasse male di noi. Ed ero ossessionata da queste buone maniere tanto da esserne letteralmente stufa. Fin dalla mia nascita abitavo in una casa in cui le regole erano importanti tanto quanto i dieci comandamenti, e per assurdo avrei potuto persino ripeterle durante la preghiera di ringraziamento ad ogni pranzo e ad ogni cena.

Qualche giorno dopo la sistemazione, o quella che lo era solo in parte, mi iscrissero alla mia, o quello che sarebbe stata, nuova scuola. La "Gilbert High School". Non sapevo nulla di quella scuola. Avevo paura, tanta. Non sapevo precisamente di cosa, ma ricordo solo che il mio stomaco, come solito in queste situazioni, si intrecciava spesso in assurde paranoie. Probabilmente credevo che sarebbe stato difficile farsi nuovi amici. Ed era vero. Era la cosa che mi terrorizzava di più, fra le tante altre.
Non avevo nessun problema con le materie, a scuola me la cavavo abbastanza, studiare infondo era uno dei miei doveri, ed ero determinata nel prendere ‘A’ quest’anno. Avevo preso ‘A’ lungo tutta la mia carriera scolastica e non stavo pianificando di rovinare i miei standard elevati quest’anno. Buona condotta e buon rendimento scolastico facevano di me la gioia dei miei genitori. Mai un brutto voto, mai un rimprovero.. Insomma mai una virgola fuori posto che potesse far parlare la gente.






Era arrivato. Un po’ in ritardo, ma era arrivato: Il primo giorno di scuola.

Si perché, fra tutte le “grazie” che mi riservava il signore, la più gratificante era proprio quella di trasferirmi durante il secondo anno di liceo e nel secondo mese di scuola. Cosa significava? Significava che sì, in qualunque mese o giorno fossi arrivata, mi sarei scrollata di dosso il titolo di “freshman” (matricola del primo anno) per acquisire quella di "sophomores" (studente del secondo anno) ma sarei stata in tutti i casi la "nuova arrivata".

«Il secondo anno. Cioè Charlie, tu farai il secondo anno!»

La mia coscienza non perdeva occasione di ripetermelo per più di una volta al giorno. E io e Juno ci eravamo preparate psicologicamente mesi e mesi prima, promettendoci che il liceo lo avremmo affrontato insieme, ci saremmo iscritte agli stessi laboratori, saremmo tornate a casa insieme… Insomma per il primo anno aveva funzionato, per il secondo un po’ meno. Ed era proprio per lei che non avevo digerito tanto bene la novità del trasferimento. Saperlo un solo mese prima poi, beh, mi aveva ucciso.

Me l’ero presa comoda per fin troppe mattine, da quando ero arrivata. Sia per il trasloco, sia per la pulizia, sia per i documenti… Ero stata impegnata in tutto, tranne che ad andare a scuola. Ma non potevo saltarla per sempre, specialmente con la media che mi ritrovavo.

Quella mattina mi accompagnò mio padre. Tutto. Avrei preferito di tutto. Arrivare a scuola con una carretta, con un cavallo, con una carrozza, con un tandem. Ma non con mio padre. Inutile raccontarlo, la cosa è molto prevedibile, ed è ovvio che un padre metta in imbarazzo la propria figlia. Ma continuavo a ripetermi che Dio non mi odiava poi così tanto, dopotutto. Almeno non conoscevo nessuno, e nessuno avrebbe potuto sparlare di me senza sapere il mio nome. Anche quando il padre in questione ti strizza le guance e ti farfuglia cose dolci che servono solo a farti innescare ansia e irritazione.

"Sono disponibili presso la segreteria della scuola la circolare e i moduli per domanda relativa alla fornitura gratuita o semi gratuita della divisa scolastica obbligatoria per tutti gli studenti. […] Inoltre ogni nuovo studente è convocato e ha il diritto di ricevere documenti e il giusto orientamento scolastico presso la segreteria o l’ufficio del preside".

Questo, e molto altro, c’era scritto nel cortissimo modulo d’iscrizione di sole dieci pagine che mio padre mi aveva consegnato prima che potessi aprire lo sportello della macchina e uscire di tutta fretta, avviandomi in direzione per farmi dare appunto una dritta su tutto ciò che era necessario che io sapessi. In parole povere, un colloquio con il preside.

Non azzardai guardare nessuno negli occhi nel tragitto macchina – direzione. Molti degli studenti erano infatti fuori a parlare, a copiarsi compiti, a fumare, a sbaciucchiarsi e quant’altro. Davanti la porta d’ingresso dovetti superare la compagnia bella di ragazzi e ragazze seduti sulle scalinate, non differente dal gruppo vicino alla fontana che si atteggiava a pari modo come importanti membri di un circolo dell’élite. Superati, a sguardo basso ma con mille occhi puntati addosso, mi avviai e arrivai senza problemi a destinazione.

Un ometto dalla bassa statura, con i segni dell’età sul viso, pelato e vestito per bene, mi trattene per più di una mezz’ora, fino al suono della prima campanella. Era il preside - di cui scordai in breve tempo il cognome. Russell? Ronalds? Rogers? Rodriguez? No, no. Ma iniziava con la R…

Mi indicò la materia che avrei dovuto conseguire alla prima ora: Storia. E fu quando aprii quella porta, con quella etichetta chiodata sopra, della classe di Storia, che sentii una forte fitta allo stomaco. Sentivo battere il cuore a mille, neanche avessi la pressione alta o avessi visto il mio idolo in mutande. Cambiare scuola, classe… Classe? Quella non era una classe. Quella era solo un’ora, era solo una materia. Non erano sempre gli stessi quindici compagni che ti portavi per chissà quanti anni, che vedevi ogni giorno, ogni ora. E soprattutto non erano quindici. Non riuscii a contarli con la vista senza usare un calcolo mentale appropriato, ma ad intuito ne calcolai una trentina. Una trentina di coetanei che avrei visto un’ora al giorno. Forse due. Avrei visto più persone nel giro di sette ore al giorno, ogni giorno.

Dio non ci capivo più nulla.

In Australia la mia scuola contava duecento studenti. Non che tutte le scuole in Australia contino duecento studenti, perché di scuole così grandi in Australia ce n'erano. Ma la mia? Nella mia, durante gli anni delle medie e anche durante il primo anno, ci conoscevamo tutti, sapevamo i nostri nomi, ci odiavamo, ci amavamo, ma non era importante. Ci conoscevamo.

Ma in una scuola in cui gli alunni erano all’incirca mille, come ci si poteva conoscere tutti? Nemmeno se avessi stretto la mano ad ognuno, e mi fossi presentata con nome e cognome, sarei stata capace il giorno dopo di ricordare tutti i loro nomi. Nemmeno nel giro di tre anni!

Notai subito che il professore non era ancora in classe. Erano ancora tutti in piedi, seduti sopra i banchi o con i libri aperti a leggerci sopra. Non potevo vedermi, ma di sicuro la mia faccia cambiò colore. Cambiò colore, quando più di due occhi mi si puntarono addosso, scrutandomi come un pezzo di pane in una tavola senza cibo. Più persone stavano fissando nello stesso momento, non feci altro che abbassare la testa e trovare il primo banco libero. Ma anche quando mi sedetti e posai lo zaino a terra, quegli stessi occhi rimasero incollati su di me. Forse si erano pure moltiplicati, nel frattempo. Ed era peggio di quando mezz’ora fa avevo attraversato l’entrata fra il mucchio di quella gente “apposto”. Tutto ciò mi metteva sottopressione e metteva sottopressione anche le mie mani, che si nascosero sotto quelle maniche lunghe della mia nuova divisa.

Ah! loro sì che potevano.

Io invece non potevo sprofondare sottoterra - come avrei voluto.

Cosa mi salvò? Quel benedetto, battezzato signore del professore di storia, che era appena entrato in classe con più di un libro in mano, chiudendosi la porta alle spalle. Tutti si scomposero, anzi, si sistemarono e si sedettero come avrebbero dovuto fin dal suono della campanella.

«Buongiorno ragazzi. Seduti per favore.»









   
 
Leggi le 67 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Pleasebemywill