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Autore: Ghevurah    08/06/2013    5 recensioni
C’era il fluire di acque segrete, nei suoi sogni. Le sponde nascoste e salvifiche della sua infanzia, dove i rami degli alberi intessevano rifugi preziosi quanto il tempo di un respiro. C’erano occhi profondi come insondabili pozzi di tenebra, si tingevano di un nero lucido e vivo quando le acque scivolavano chete e ridevano assieme al loro gorgogliare. Gli stessi occhi che sapevano gettare un’ombra sul mondo, covando una maledizione carminia nelle loro abissali profondità. Occhi splendidi e terrificanti, contraddittori, come il fiume; come l’essenza di quella terra.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hashirama Senju, Madara Uchiha, Tobirama Senju
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Prima dell'inizio
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Disclaimer: “Naruto” e i suoi personaggi appartengono a Masashi Kishimoto e a chiunque ne abbia acquistato i diritti.


















Al di là del fiume









C’era lo scrosciare altalenante di Naka, nei suoi sogni. Era rimasto ad ascoltarlo così a lungo da bambino che il suo richiamo amniotico lo seguiva ovunque fosse, ovunque andasse.
Il fiume si snodava come una serpe cristallina, trascinava con sé corpi dimenticati di cui sarebbe stato il solo conforto, ricordi di ere parte d'una infinita notte d’orrore. Ma allo stesso modo incedeva, placido e inarrestabile, sotto ciliegi in fiore, sotto la carezza delle felci chine sul suo letto.
C’era lo scorrere impervio di quelle acque, nei suoi sogni. Acque gonfie e spietate durante le stagioni di pioggia, quando gli argini straripavano, investendo quel poco che la guerra aveva lasciato. C’era il chiarore lattiginoso dell’argine gelato, splendeva simile a cristallo nelle brevi ore di luce, durante le nevicate invernali. Lo stesso argine che si faceva quinta di battaglie, la notte, cogliendo lo schiudersi di petali sanguinei.
C’era il fluire di acque segrete, nei suoi sogni. Le sponde nascoste e salvifiche della sua infanzia, dove i rami degli alberi intessevano rifugi preziosi quanto il tempo di un respiro. C’erano occhi profondi come insondabili pozzi di tenebra, si tingevano di un nero lucido e vivo quando le acque scivolavano chete e ridevano assieme al loro gorgogliare. Gli stessi occhi che sapevano gettare un’ombra sul mondo, covando una maledizione carminia nelle loro abissali profondità. Occhi splendidi e terrificanti, contraddittori, come il fiume; come l’essenza di quella terra.


Hashirama sbatté le palpebre, accogliendo il riverbero di luce trapelato dal fusuma1. Si sollevò dal futon lentamente, cercando di non prestare attenzione al proprio respiro: un sussulto affannato che sembrava squassargli la gabbia toracica, l’incedere impietoso di un qualcosa che non aveva nome all’interno del suo corpo.
Sedette, avvertendo un brivido elettrico risvegliare il proprio corpo intorpidito, mentre il velo di sudore che lo ricopriva si faceva improvvisamente gelato. Scostò i capelli umidi dal viso e li sentì ricadere sulle spalle, pesanti.
Serrando le palpebre, tentò di captare qualcosa che non fosse la percezione fastidiosa del proprio corpo. Nel silenzio, cercò il respiro regolare di Mito stesa accanto a lui e quando lo trovò, si lasciò invadere da quel ritmo lieve e cadenzato, facendolo proprio. Poi aprì gli occhi. Puntò un ginocchio tra le coperte e si alzò: i piedi nudi a contatto con la consistenza ruvida del tatami2, il proprio peso a gravare interamente su di loro.
Si mosse nella penombra, silenzioso, senza bisogno di indovinare le forme che lo circondavano. Arrivò all’anta decorata del fusuma, irradiata di una luce pallida e serica come un velo di zucchero e l’aprì quel tanto che bastava per sgattaiolare via, impedendo alla luce dell’alba di invadere la stanza.
I corridoi erano deserti, ma lui aveva imparato che sapevano raccogliere memorie e raccontarle come esseri vivi. E preferiva di gran lunga codificare i segreti dei loro scricchiolii piuttosto che abbandonarsi ai propri pensieri.
Non riusciva a smettere di tremare: i pantaloni e l’uwagi3 slacciato sul petto erano un ammasso gelido e impiastricciato di sudore. Nonostante il freddo, però, camminò fino alla veranda.
Rimase a guardare le lingue di nebbia che serpeggiavano in giardino, contorcendosi per sfuggire ai primi raggi di sole. Sapeva che sarebbero diradate con l’avanzare dell’alba e sperava, pregava, che con esse si dissolvessero anche le ombre della sua mente: non aveva la forza per scendere a patti con l’abisso tormentato a cui presagivano.
Cosa fai qui?
La voce di suo fratello era algida come la brezza dell'alba. Lui non si voltò, sorrise solamente.
Nulla, disse, non faccio nulla.
Stai tremando.
Lo so.
Non è appropriato che l’Hokage se ne vada in giro così.
Hashirama ridacchiò, un po’ perché avrebbe voluto domandargli quale fosse la sua idea di appropriatezza, un po’ perché era strano cincischiare con lui di queste sciocchezze quando non riuscivano a parlare, parlare davvero, da mesi. Mesi lunghi e strazianti come le notti di veglia della loro infanzia, passate nell’oscurità più crudele a contare, con il cuore in gola, il numero dei nemici.
Hashirama si voltò verso il fratello e lo guardò stagliarsi nella penombra del corridoio. Pallido e freddo come l’alba, altero nella sua incorruttibilità. Un’incorruttibilità che lui sembrava aver perso col tempo.
Gli parlava del villaggio, Tobirama, dei suoi doveri in quanto Hokage, di tutto quello a cui occorreva pensare. Poi, se ne restava il tempo, chiedeva di Mito. Ma non si rivolgeva a lui come un tempo, non avrebbe potuto. Perché fra loro era calata una cortina di disperazione, la stessa che divideva Hashirama dal resto del mondo.



Le vesti dell’Hokage erano di una stoffa sottile, raffinata, più simili a quelle di un daimyo4 che a quelle spartane di un ninja, ma lui, a volte, le sentiva pesanti come un'armatura da guerra. Le sentiva trascinarlo al suolo e poi giù, in un limbo che non aveva fine.


Non c’era un momento giusto per farlo, né durante il giorno né durante la notte, così - semplicemente - sceglieva un momento qualunque e lo faceva.
Percorreva il bosco in silenzio e arrivava all’imboccatura della valle. Il luogo che lui stesso aveva visto modellare dallo strazio di una battaglia senza vincitori, di cui il fiume erano stato l’unico testimone. E lì, dove scrosciava la cascata nata dallo strazio di quel letto, Hashirama guardava i tronchi abbozzati delle statue scolpite nella pietra. Le guardava dal basso, travolto dalla loro gigantesca immensità.
Gli artigiani e i muratori vi lavoravano solo nei giorni di bel tempo, perché quando l’acqua della cascata sferzava violentemente, aizzata dai venti, era pericoloso anche solo arrampicarsi sin lassù.
A lui piaceva vedere l’animosità del cantiere, ascoltare i suoni degli scalpelli e il vociare degli uomini. Alcuni gli si avvicinavano per parlargli: nessuno di loro conosceva il mondo dei ninja ed erano curiosi di quel suo villaggio nato tra i boschi per dare adito ad una pace prima d’allora mai ipotizzata. Gli piaceva parlare, sorridere, ma facendolo sfuggiva ai propri pensieri: era solo nel momento in cui il cantiere s’azzittiva che poteva ascoltarsi. Allora restava alle pendici delle statue in costruzione, desolanti nella loro incompletezza, lasciandosi colmare dalla disperazione. La stessa che lambiva ogni istante della sua vita, fremendo per straripare dagli argini che lui stesso aveva eretto. Ma Hashirama si concedeva a lei solo in quel luogo. Lo faceva perché era oltre la cortina intossicante della disperazione che poteva incontrare Madara.
Lo aspettava al di là del fiume, nel silenzio insondabile della morte. Era il bambino, l'amico prezioso e al contempo lo shinobi rivale, l’uomo con cui aveva dato vita ad un sogno di pace e la minaccia a quello stesso sogno. Il suo sguardo era infiammato di una luce vivida che irradiava il potere incastonato fra le sue palpebre. Ad Hashirama, guardandolo, sembrava di tornare mesi addietro in quella stessa valle: l’aria gravida di polvere, mentre un rabbioso presagio di morte si abbatteva sul mondo. Forse avrebbe dovuto rabbrividire al solo pensiero di rivivere anche un mero istante di quel giorno, ma non era così. Rivedere Madara, vivo, spazzava via qualunque altro pensiero; iniettava nell’animo l’insensata speranza di avere ancora un’alternativa.
Per questo cercava di attraversare quel fiume che li separava. Camminava fino a lui, fino ad allungare una mano per raggiungerlo. Ed allora gli occhi di Madara s’incupivano, il margine cremisi dello Sharingan sembrava venir risucchiato dal nero delle sue pagliuzze. Un nero opaco, innaturale, che si spegneva poco a poco fino a cristallizzarsi, perché quelli erano gli occhi di un ricordo, gli occhi di un morto.



Hai fatto quello che andava fatto, gli aveva detto Tobirama, sguardo sottile e pelle bianchissima, sotto l’abbraccio della luna, ai margini del villaggio salvato. E lui era rimasto in silenzio, abbandonandosi all’abisso che sentiva fermentare nel proprio essere.



A volte, quando il mondo sembrava contorcersi e il sole ustionava l’animo e il vento scorticava ogni ricordo, confondendo il presente con il passato, Hashirama sentiva una rabbia arcana crescergli dentro. Era un'essenza primordiale, una bestia indomabile che ringhiava, scalpitando per poter uscire fuori.
In quei momenti vedeva Tobirama con gli occhi di un nemico. Lo guardava discutere del futuro di Konoha, lo guardava stagliarsi in una luce che sembrava quasi accecante e provava qualcosa di molto simile all’odio.
In quei momenti i suoi pensieri si facevano torbidi, ricordava di come Tobirama lo avesse incitato ad uccidere Madara durante l'ultima battaglia tra i loro clan. Pensava a lui bambino che profanava il loro segreto, spiandoli lungo le sponde del fiume. Pensava a quando lo aveva invitato a rispettare il volere del popolo, assumendo il titolo di Hokage. E' riuscito ad allontanarti da lui, sibilava una voce nella sua  testa. E improvvisamente era di Tobirama la battaglia, la scelta, l’alternativa non trovata.
Per via di questi pensieri faticava a confidarsi con lui come aveva sempre fatto. Non riusciva a parlargli dell’oscura disperazione che teneva celata nel profondo, delle proprie mancanze nei confronti di Mito, del dolore che lo straziava lentamente. Si sentiva solo. E la notte, quando tutto si tingeva dei toni del suo animo, a nulla potevano le parole gentili della sua consorte. Lui le sfiorava il ventre e ricordava la bestia racchiusa dentro di lei. Il ringhio del Kyuubi echeggiava nel buio, i suoi artigli, il suo manto aranciato, si facevano quasi reali. Infine giungevano gli occhi iniettati dallo Sharingan, gli occhi di Madara riflessi in quelli del Bijū.
Pensava a quegli occhi, Hashirama, e stringeva Mito a sé, pensava alla loro luce ferale e sanguigna durante le battaglie, allo spicchio di tenebra che sembrava liquefarsi in quelle iridi quando non facevano sfoggio del loro potere. Pensava e pensava, poi sbatteva le palpebre e vedeva Mito. Mito con i suoi capelli di fiamma, coricata sotto di lui. Ogni certezza vacillava, allora, il respiro si incastrava in gola, arido. E non erano più gli abiti di Hokage a soffocarlo, ma il suo stesso essere Hashirama.
Mito gli toccava un spalla, gli sussurrava parole gentili. Ma lui si alzava dal futon e rimaneva immobile a fissare l’oscurità che si condensava in un unico punto.
Scusami, diceva. Senza sapere a chi si stesse rivolgendo.



Quando Madara era  tornato per combattere, era stato felice. Aveva capito che quello sarebbe stato l’unico modo per rivederlo, per riaverlo con sé; l’unico modo che l’altro aveva, ora, per rapportarsi a lui. E gli andava bene, gli andava bene davvero. L’importante era trovarsi assieme ancora una volta.



Era difficile pensare come Madara, immedesimarsi in lui, e per farlo occorreva calarsi nell’oscurità che lo affliggeva. Ma Hashirama sapeva che quell'indole tormentata non gli apparteneva di natura, erano stati il tempo e le morti a straziarlo. Per questo sperava di far trapelare un po’ di calore nel suo animo, impegnandolo nella fondazione di Konoha.
Dopo quella stretta di mano aveva passato ore con lui per definire i dettagli, per costruire, materialmente, il loro villaggio.
Inizialmente Madara si era dimostrato distaccato, assorbito da un universo personale che lo portava dove lui non poteva raggiungerlo. Poi però, la loro intesa, le consuetudini che sembravano vigere fra loro anche dopo l’abbandono delle sponde segrete di Naka, avevano fatto sì che Madara si calasse nel presente.
Hashirama ricordava quel periodo come il più felice della propria vita, anche più felice dei mesi passati a sognare assieme. Ricordava di come Madara si lasciasse convincere a cenare con lui, ascoltandolo ciarlare di quella o quell’altra faccenda. Ed era strano, dopo anni, vederlo in un contesto di vita quotidiana, strano e piacevolissimo. Così si era impegnato ad imparare tante piccole cose di lui: il suo piatto preferito, l’esatta temperatura a cui gli piacesse bere il saké. Aveva imparato a notare il modo elegante con cui reggeva le bacchette, come se fossero un prolungamento delle sue stesse mani. E aveva ricordato ciò che già aveva potuto imparare da bambino. La sua gestualità morbida, quasi accidiosa, che s’irrigidiva nei momenti di scherzo; il sorriso affilato ed enigmatico che a volte sapeva rivolgergli. Il candore della sua pelle: una superficie d’avorio ai raggi lunari, parte della luce durante il giorno, in vivido contrasto con i suoi capelli corvini.
Quando erano assieme, seduti attorno all’irori5, osservava rapito i giochi d’ombra che si proiettavano sotto le sue clavicole, nell'incavo del petto appena scoperto dalla casacca allentata. Ai riflessi del fuoco gli occhi di Madara si facevano una contraddizione unica: erano come tenebre sfavillanti, luminosi nella loro oscurità, mentre la sua pelle accesa del fulgore delle fiamme sembrava risplendere.
Una volta Hashirama aveva allungato una mano per toccarlo in punta di dita, lì sulla sporgenza delle clavicole e poi lungo il collo bianchissimo. C’era il torpore dell’alcool nella sua mente, ma sospettava che l’avrebbe fatto anche se fosse stato del tutto lucido.
Madara si era irrigidito e lui aveva potuto bearsi della sua espressione scrutatrice, dello spalancarsi dei suoi occhi che poi erano tornati ad assottigliarsi. Voleva affondare in quegli occhi.
Hashirama aveva percorso la sua pelle con tocco lieve, fino alla mandibola serrata, liscia, ed era sceso ancora lungo la curva delle spalle per raggiungere i suoi capelli. Ne aveva presa una ciocca fra le dita e se l'era portata alle labbra, baciandola piano.
Sono così contento che tu sia qui, aveva sussurrato e lo sguardo di Madara si era fatto ancora più liquido.


C’erano le sponde cristalline di Naka, dinnanzi a lui. Sulla loro superficie quieta si riflettevano le ombre di due statue maestose, poste a presidio di una cascata.
C’erano le stesse sponde, nei suoi ricordi, in quelli di sempre e in quelli più nuovi, più dolorosi. C’erano acque imbizzarrite dallo sferzare di una battaglia crudele, sponde mortuarie che trasudavano una disperazione senza tempo. E guardandole Hashirama non poteva che pensare al giorno in cui aveva scelto di distruggere ciò che lo stesso fiume gli aveva donato.















Glossario:
[1] Fusuma: pannelli di carta di riso decorati e scorrevoli, fungono da porte tra stanze interne.
[2] Tatami: pavimentazione composta da pannelli di riso incastrati tra loro.
[3] Uwagi: casacca intreccia, legata in vita dall'obi.
[4] Daimyo: nobile feudale, nell'universo di Naruto (come la maggior parte di voi saprà) ogni Paese è governato da un daimyo.
[5] Irori: focolare incassato nel pavimento.


Note finali:
Non sono certa che il fiume dell’infanzia di Hashirama e Madara sia lo stesso della Valle dell’Epilogo e tanto meno sono certa che si tratti del fiume Naka, citato nel manga. La mia è una liberissima interpretazione.


Grazie per aver letto.


   
 
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