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Autore: Knetgummi    12/06/2013    1 recensioni
Malinconia? Di quella trappola fumosa che chiamano Greenville, dove quasi non ho una casa? Meglio diventare eremita barbone tra le montagne che finire ancora schiavo di chi mi ha relegato in quella topaia. Cosa me ne faccio di un lavoro, di cibo confezionato, di un televisore (invisibile, nel mio caso), di un rasoio da barba quando mi obbligano a combattere una guerra inutile?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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31/3/13

When the levee breaks





If it keeps on raining, levee is going to break

If it keeps on raining, levee is going to break

And when the levee breaks I'll have no place to stay



Guido senza nemmeno guardare dove sto andando, con gli occhi velati da una stanca confusione. Chilometri e chilometri di strada dritta, una strisciata nera nel mezzo della pianura. È un'ora che fisso questo panorama piatto, e mi si è stampato nelle retine e mi ha riempito il cervello impedendomi di pensare lucidamente. È strano, qui. Niente case, niente campi, niente rotaie, niente persone, niente di niente. Ho paura di iniziare a pensare e vedere le idee sfuggirmi dalle orecchie e disperdersi in quest'aria così sgombra. Tra l'altro sarebbero tutte idee allucinanti, ad esempio su quanto è strano questo deserto erboso e il fatto che è la prima volta che lo vedo pur vivendoci proprio in mezzo. Quindi non penso e basta. Meglio così.

Questa strada porta ovunque e da nessuna parte, affonda rettilinea nel terreno freddo e umido e finisce assottigliandosi in chissà quale landa desolata, come la lama di un coltello. Fisso i tralicci dell'elettricità. Scandiscono il tempo, neri nel grigiume, tutti lenti e accavallati in lontananza e veloci come schegge mano a mano che avanzo dritto per la mia strada. Milletrecentotré, milletrecentoquattro, milletrecentocinque, milletrecentosei.

Al millequattrocentoventuno il motore ruggisce, bela e si lamenta. Mi costringe a fermarmi a dargli da bere, come ad una bestia, nel mezzo della strada, a cavallo della linea bianca che mi fa da compagna di viaggio con i tralicci. La macchina non mi accompagna, semplicemente sta diventando parte di me da quanto profondamente ho affondato il culo nel sedile e le dita nel volante.

Sbatto la tanica vicino alla bocca dell'auto, distratto dalla vista di una catena di montagne scure all'orizzonte spuntata all'improvviso mentre fissavo i tralicci, le vette insonnolite tra le spire nuvolose del cielo. Intanto la benzina fa ciao dal collo della tanica e mi spara uno schizzo sugli unici pantaloni integri che mi sono portato dietro. Gli unici integri che ho, sarebbe a dire.

Ora però so dove sto andando, lanciato a razzo sull'unica strada che io abbia mai conosciuto. Insomma, c'è qualcosa a nord, questo serpente di asfalto morde una preda. Non particolarmente grassa, penso guardando le montagne ossute macchiate di verde, ma non morirò di fame.

Guardo le montagne, e quelle sembrano salutarmi con una folata di vento gelido.

Non penso che jeans puliti mi serviranno.





Seimila tralicci cioè due ore fa, ho parlato con un vecchietto secco e sconosciuto – strano, visto la popolazione di Greenville – a passeggio tra le baracche di periferia, davanti a casa, all'estremità nord della strada principale della mia città – quella che si tuffa nella statale che sto percorrendo.

Stavo tornando dai campi ed ero inavvicinabile, con il muso contorto dalla stanchezza, sporco di terra e impregnato di sudore, e non avendo un televisore non avrei mai sentito la mia occasione di levare le tende. Quello, il vecchietto incurante e sconosciuto, mi ha fermato e me l'ha donata su un piatto d'argento.

Mi ha detto che per l'esercito c'è bisogno di tutti i giovani possibili, e che al telegiornale locale il presentatore aveva annunciato con aria funebre che li sarebbero andati a cogliere come frutti maturi persino da quella città di arrugginiti ferrovieri. Molto presto, aveva aggiunto.

Sei l'unico abbastanza giovane per andarsene di qui, dicevano i suoi occhi infossati. In un modo o nell'altro.

Nessuno ama Greenville. Nemmeno chi ci ha trovato un lavoro e roba da mangiare, perché si sa, si ha un debito con la città che ci dà di che vivere. Tutti odiano i debiti, soprattutto gli operai e i ferrovieri che non li possono estinguere, e così rimangono per sempre nella città che li ha resi schiavi. Idem per quelli che ci sono nati, come me, che fino a – seimilatrentuno, seimilatrentadue... ho perso il conto – due ore e un quarto fa pensavo che ci sarei rimasto per l'eternità.

La vecchia May mi guardava dalla finestra lurida del piano di sopra di casa mia mentre il vecchietto se ne tornava da dove era venuto trascinandosi su un bastone.

Senza dire o fare nulla di superfluo sono entrato in casa quasi sfondando la porta, mi sono dato una strigliata, ho cacciato tutte le mie cose in una valigia di cartone, e sono uscito senza nemmeno chiudere a chiave. Andandomene ho salutato la vecchia May che ancora mi aspettava dalla finestra al piano di sopra, sapendo che me ne stavo andando, così come quand'ero piccolo sapeva dove mi nascondevo per scampare alla messa domenicale o come quand'ero adolescente e mi procurava la brillantina perché sapeva meglio di mia madre quanto fossero ribelli i miei capelli, almeno per me.

Poi ho fatto il pieno e ho preso una tanica di benzina da Joe, e addio alla fumosa Greenville. Mi ha regalato un futuro da bracciante, ma ora sono abbastanza libero ed egoista da rifiutare il dono, e grazie tante.

Il cielo plumbeo continua a fissarmi, sempre uguale, come una madre merlo che osserva i suoi pulcini fare il primo volo. No, togliete il come, io lo sto facendo, il primo volo, da quel nido di serpi.

Svuotata la tanica, rimonto in auto. Se il cielo è mia madre, allora l'ignoto è la mia amante, di quelle che tutti giudicheranno puttane, e malgrado tutto pesto il più possibile l'acceleratore per raggiungerla in fretta. Tanto cosa mi può interessare?

E le montagne mi vengono incontro, sempre più minacciose e sensualmente attraenti, di un verde scuro come il muschio punteggiato dalle rocce e sfumato dalla foschia, come un quadro naïf.

Piano piano vedo la strada assottigliarsi: la punta del coltello si avvicina. L'asfalto si scioglie in terra battuta e le pareti rocciose ne accolgono i tornanti tra le loro pieghe oscure. Qualche fattoria è abbarbicata sulle pendici dei colli più morbidi, irreale e inaspettatamente spiacevole. D'altronde la strada servirà a qualcuno, penso.

E mi stupisce come la silenziosa gigantessa delle montagne possa sopportare mosche moleste come gli uomini che tentano di oltraggiarne i placidi fianchi senza ribellarsi, senza scuotersi dagli artigli invasori.

È questo continente il problema, si lascia stuprare troppo docilmente dalle persone meno meritevoli. È troppo fiducioso, sì. Cani e porci ha lasciato liberi sul suo suolo, liberi di attraversarlo e rovistarne le interiora e scavarne la spina dorsale e annaffiarlo con il sangue dei suoi figli. L'America, senza dignità.

Ora cosa pensa di ottenere, in cambio? I suoi invasori stavano massacrando la sua sorella maggiore Europa e i suoi figli, progenitori dei loro assassini. Un dramma famigliare.

La gigantessa sarà la mia nuova amante, pronta a nascondermi tra le sue curve. Ora ha un aspetto, una faccia, un nome, e se servirà ad uno scopo così nobile avrà anche una dignità. Se nessun mio cugino più o meno lontano vedrà la morte arrivare dalle mie braccia, e se non la vedrò nemmeno io prima di qualche decennio.

Le pareti delle montagne si chiudono intorno a me e qualche metro più avanti si riaprono sbocciando, e all'improvviso mi ritrovo in uno spiazzo di erba punteggiata di fiori, un letto verde con le pareti di roccia. Smonto dall'auto e corro in mezzo alla valle, valigia in mano, capelli al vento, scarpe troppo strette che fanno un male infernale. Non so perché corro, sono troppo stanco per correre. Due ore fa stavo tornando a casa per pranzo dopo il lavoro mattutino, ed ero già distrutto a quel punto.

Sono sparito dalla mia terra, ma i suoi effetti a lungo termine non spariranno dalla mia vita – malattie dovute all'aria insalubre, ossa incrinate e quant'altro –, così come il mio ricordo aleggerà ancora per qualche tempo nelle teste vuote di quelli laggiù. Spero che qualcuno, magari la vecchia May, sempre così brava a pararmi teneramente il culo, s'inventi una scusa abbastanza plausibile per la mia scomparsa.

Sto iniziando a chiedermi perché sono partito così di fretta, ma sono comunque troppo soddisfatto per formulare sentimenti di dolore o malinconia.

Malinconia? Di quella trappola fumosa che chiamano Greenville, dove quasi non ho una casa? Meglio diventare eremita barbone tra le montagne che finire ancora schiavo di chi mi ha relegato in quella topaia. Cosa me ne faccio di un lavoro, di cibo confezionato, di un televisore (invisibile, nel mio caso), di un rasoio da barba quando mi obbligano a combattere una guerra inutile?

L'America ha di meglio da offrirmi. E chissà se è solo per la guerra che scappo verso l'alto e verso il freddo, e chissà se tornerò mai alla civiltà. Non voglio nemmeno pensarci, ora.

Mi fermo alle pendici della montagna più a nord. Vedo una minuscola casa di legno, tra le rocce, gli abeti e il cielo livido, in alto ma non troppo. Ci posso arrivare a piedi sudando parecchio nella camicia.

Ci sono una staccionata e dei ceppi d'albero, ma soprattutto ci sono dei cavalli legati a degli alberi, che masticano l'erba tranquilli e beati.

Se lì non mi vorranno nemmeno in cambio di lavoro gratis, in una vita ho racimolato abbastanza soldi da comprarmi un cavallo per cercarmi un posto dove vivere senza dover scendere dalle vette. Della macchina non so che farmene, pensò che la nasconderò da qualche parte sperando che non si arrugginisca troppo mentre me ne sto tranquillo un migliaio di metri più in alto.

Vedo un'altra casa poco più lontano, e un'altra ancora sempre sullo stesso versante, alla stessa distanza, come decorazioni su un albero di Natale. Almeno in una di queste casette ci sarà qualche montanaro con una stanza in più e bisogno di manodopera, no?

E se non sarà su questa vetta, proverò su un'altra e poi su un'altra ancora, fino ad attraversare la spina dorsale d'America.

No, nessuno mi metterà in mano un fucile o mi legherà ad una città o ad un lavoro fisso. Non vedo come mi potrebbero venire a prendere. Forse è orribilmente banale, il solito ragazzo impertinente che non ha voglia di fare la guerra, e scappa in luoghi e modi improbabili per sfuggire a quest'onere di Stato.

Spero che almeno qualcuno dei montanari a cui sto per bussare sia tipo da lasciarsi affascinare dai cliché.

Ma dove voglio andare, con quest'idea balzana che riuscirò a sopravvivere come un cane selvatico? Che idiota. Sono un idiota, e più mi rendo conto che pensarci mi fa male, più mi sento un idiota.

In qualche modo dovrò finire. In qualche posto, soprattutto. Fatto sta che, pensandoci, svanisce persino l'amarezza, e lascia una calma piatta e rassicurante. Forse dovrei essere turbato per l'aver lasciato l'unico posto di cui abbia mai respirato l'aria – a parte quando ero molto piccolo e mio padre era vivo e un paio di volte era capitato che mi portasse su queste montagne, ora me lo ricordo!, ero già promesso sposo di questo posto! – o per essere finito da solo quasi senza soldi.

Che mi importa di cosa farò? Alla fine me la dovrò sempre cavare da solo. Dipende tutto da me.

Potrei scendere e tornare alla civiltà come se niente sia successo, o cercare un lavoro e qualcosa da mangiare per le montagne, oppure darmi all'ascesi.

Mi ritroveranno tra una quarantina d'anni eremita in una grotta, con la barba lunga fino ai piedi e tanto da raccontare, e giovani da tutto il paese verranno a sentire le mie parole come fossi un guru o un santone indiano, e qualche musicista scriverà una canzone sul vecchio, pazzo Sam.

Un lupo ulula, da qualche parte. Soldato o eremita, avrò bisogno di un fucile.










Oh, ciao. Non ho idea di cosa mi sia preso quando ho deciso di scrivere 'sta roba – raccontucolo più o meno ispirato a Sulla Strada di Kerouac e ibridato a una song-fic sulle note di When the Levee Breaks dei Led Zeppelin – ma so per certo che se la tenessi per sempre nel mio bel computerino finirei, un bel giorno tra qualche anno o anche solo tra qualche mese, per cancellarla in preda all'orrore per i miei trascorsi letterari. (A dire la verità, ha già rischiato parecchio in questi due mesi in cui per fortuna l'ho bellamente ignorata.)

Quindi, ecco a voi. Spero che la pubblicazione, diciamo così, di questo racconto mi impedisca di eliminarlo dalla faccia della terra.

Ora è meglio che torni a fare qualcosa di socialmente utile – scrivere altre amenità, ad esempio – e che vi lasci a letture meno ingrate.


Charlie

   
 
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