Cap. 27
Mi pettinai i capelli con una mano prima di entrare in ospedale, quasi stessi
per conoscere il papa. E fortunatamente,
Valerio non s’accorse del mio gesto: già me lo vedevo a prendermi in giro con
una mano schiacciata sulla bocca per evitare di ridere troppo rumorosamente.
Salimmo al secondo piano, e io avevo già le gambe che mi tremavano: era ormai
appurato il fatto che gli ospedali facessero uno strano effetto su di me. Non
amavo l’atmosfera, le persone sedute in sala d’aspetto, la gente con la mascherina
davanti alla bocca, le divise degli infermieri, l’odore nauseabondo nei
corridoi, le macchinette del caffè. Nulla era di mio gradimento lì dentro.
Valerio intercettò la mia espressione poco felice e mi lanciò uno sguardo da
“Falla finita, non staremo tutto il giorno”, poi mi fece segno di seguirlo, ché
un infermiere aveva appena spalancato una porta. La donna alla reception alzò
il capo e salutò Valerio con un “Ciao, tesoro, sei sempre il primo, eh?”. Al
che l’altro rispose con “Ormai sono qui più di voi”, e la donna non seppe se
prenderla per un’offesa o meno.
«Uno alla volta, mi raccomando,» aggiunse quando ci vide andare spediti verso
la stanza numero sette. Sentii Valerio sbuffare, poi si voltò verso di me e mi
fece segno di andare per primo.
«No, no, vai tu,» gli dissi frettoloso, anche perché non sapevo esattamente
cosa ci facevo in un ospedale. Non c’entravo niente, io. Valerio non fece
storie e andò per primo, forse rendendosi conto lui stesso che non aveva molto
senso farmi far visita a suo fratello in coma da anni. Quando entrò nella
stanza ero lì lì per seguirlo e fregarmene della
regola “Uno per volta”, ma la tizia alla reception aveva gli occhi puntati su
di me, probabilmente chiedendosi da dove spuntassi e perché non mi avesse mai
visto gironzolare con Valerio, e quindi non potei fare altro che sbirciare
nella stanza mentre me ne stavo appoggiato al muro a braccia conserte. Tanto
non vedevo un tubo, quindi era abbastanza inutile. Sapevo solo dire che Valerio
era in piedi davanti a un letto e sembrava stesse parlando. Mi accostai
maggiormente alla porta e mi sembrò di sentire qualcosa:
«Ti ho portato una persona. Te ne ho parlato la scorsa volta. E’ la mia persona
speciale, sono sicuro che andrebbe a genio anche a te, è davvero in gamba». Poi
si mise a bisbigliare per altri due minuti senza che potessi ricavarci granché
e uscì con l’espressione più serena, avrei detto sollevata. Non riuscii a
resisterle, e mi piegai per baciarlo sulla bocca socchiusa, nonostante avessi
gli occhi della tizia ancora puntati addosso. Lui rimase spiazzato e non riuscì
a spiccicare parola mentre mi lasciava passare.
Là dentro l’odore antipatico era ancora più forte: avevo quasi la tentazione di
tapparmi il naso. Ma non fui in grado di muovermi di un centimetro quando intercettai
la figura del fratello di Valerio distesa sul letto e circondata da macchine
che emettevano suoni e luci intermittenti e da fili di diverso spessore. Non mi
sentivo troppo bene: quell’immagine non faceva che portarmi alla memoria quella
di mio padre, sofferente per i polmoni ridotti in briciole e per la gamba che
non voleva funzionare. Forse era per
quel motivo che non ne volevo sapere di ospedali: perché non facevo che
fare avanti e indietro da casa mia in ospedale sino a qualche anno prima.
Tuttavia, mi dissi che dovevo darmi un contegno e che non potevo continuare a
vivere con il terrore dei funerali e il disgusto degli ospedali. Mi avvicinai
rigido come un palo al letto avvolto dai fili e allungai gli occhi sul viso del
ragazzo. Non potevo vedere molto, visto che aveva metà della faccia coperta da
una mascherina. Ma da quello che potevo vedere, era differente in tutto e per
tutto da Valerio, se non, forse, per il colore dei capelli, quel biondiccio
vicino al castano. Aveva delle ciglia particolarmente folte, al contrario di
Valerio, e i lineamenti squadrati come quelli del cattivo di un telefilm. Poi,
a quanto mi aveva detto Valerio, aveva gli occhi scuri, tanto che facevi fatica
a distinguere l’iride dalla pupilla. L’ultimo particolare che notai fu la
cicatrice sulla fronte: in realtà erano tre piccole cicatrici che sembravano
formare un triangolo, ed erano quei tipici puntini che rimangono sulla pelle
dopo la varicella che hai fatto da bambino, soprattutto se in quel punto ti sei
grattato insistentemente. Quel triangolo formato da tre piccole cicatrici mi
ricordava qualcosa, o qualcuno, che si vergognava per lo stesso motivo: si
vergognava di quelle cicatrici così evidenti, perché gli amici lo prendevano in
giro…
Un’idea mi passò la testa veloce come un fulmine, mi dissi “Possibile?”, poi la
mano andò ad accarezzargli la fronte, inconsciamente, senza darmi il tempo di
chiedermi se potessi toccarlo o meno. Quel ragazzo lo conoscevo. Si chiamava
Alessio, Alessio Castelli. Certo che lo conoscevo.
«Sarai sempre tu la persona speciale di Valerio. Ma in attesa del tuo
risveglio, sarò io a prendermi cura di lui,» dissi ad alta voce mentre
continuavo a passargli la mano sulla fronte, avvertendola particolarmente
fresca rispetto alle mie dita. «Tuo fratello mi ha cambiato la vita. Vorrei che
potessi vederlo, adesso. Vorrei che potessi vedere me e quello che sono
diventato,» dissi ancora, senza un vero senso logico, le lacrime che
inspiegabilmente pizzicavano agli angoli degli occhi. Ma prima che potessi permettermi
di lasciar andare quelle lacrime, mi allontanai da Alessio e uscii velocemente
dalla stanza socchiudendomi la porta alle spalle. A quel punto fu Valerio ad
accogliermi con un bacio, come io avevo fatto con lui poco prima. La signora
alla reception non ci salutò quando uscimmo abbracciati, io con la mano nei
suoi capelli e lui col braccio stretto al mio fianco.
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Il mio ricordo risaliva al quarto anno di liceo, quando stava lentamente
scemando la mia voglia di fare l’animatore in oratorio. Era ormai arrivata
l’estate, e io quell’anno avevo evitato per un soffio il debito in matematica –
era l’unica materia in cui non riuscivo a raccapezzarmi -, e solo per quello
ero felice come una Pasqua. Ma la mia occupazione giornaliera in oratorio non
faceva che buttarmi il morale a terra: i ragazzi con cui animavo non mi
andavano affatto a genio – come se ci fosse davvero qualcosa che mi andasse a
genio – e i bambini con cui avevo a che fare diventavano ogni anno più
impertinenti e ingestibili, e mi facevano tornare a casa ogni giorno con
l’emicrania e con la voglia di entrare in letargo estivo.
E quindi, il mio ricordo risaliva a uno di quei giorni lì. L’ennesima giornata
passata a controllare contro voglia i ragazzini che scorazzavano per il
cortile, con solo una brioche per merenda e un cappellino per ripararmi dal
sole cocente.
«Scusami,» una voce femminile sembrò chiamare me, anche se poteva benissimo
essere un miraggio, vista la mia visione distorta del mondo dovuta al picchiare
del sole sulla mia testa. Mi voltai, e vidi una donna sulla soglia del
cancelletto posteriore che, stranamente, era aperto. Maledii chiunque l’avesse
lasciato aperto, visto che se l’avesse scoperto il Don, avrebbe dato la colpa a
me, come sempre.
«Posso entrare?» chiese ancora la donna e io, braccia conserte e sguardo
antipatico,
«Faccia pure,» dissi, ché tanto ormai era più dentro che fuori. La donna aveva
lunghi e folti capelli ricci e biondi, e immaginai dovessero essere come una
cappa sulla testa. Che diavolo aspettava a legarseli? Sarebbe morta di caldo,
come minimo. Notai solo qualche secondo dopo che teneva per mano un bambino
minuscolo che indossava un cappellino colorato e si guardava intorno quasi
fosse nel paese delle meraviglie.
«Sono passata perché ho dimenticato di dare le chiavi di casa e un paio di
altre cosette a mio figlio,» mi disse la signora quando mi fu abbastanza
vicina.
«Chi è suo figlio?» le chiesi, e lei mi indicò con la mano libera uno dei due
ragazzi che giocavano a pallone davanti al murales principale nel cortile.
«Alessio Castelli,» mi disse il nome del ragazzo, e io feci “Ah, certo”,
riconoscendo in quel nome il mio animato più grande, quello che, probabilmente,
l’anno dopo avrebbe iniziato il corso da animatore.
«Le dispiace tenerlo un secondo? Vado e torno».
E mi mollò il bambino che teneva per mano per poi camminare svelta verso il
ragazzo biondiccio che giocava a pallone. Abbassai lo sguardo verso il piccolo,
e quello mi guardò a sua volta da sotto il cappellino con la visiera.
«Er… la tua mamma arriva subito,» feci impacciato
mentre stringevo la mano sudata del bimbo.
«Lo so!» esclamò quello, la voce minuscola quanto lui. «La mamma arriva sempre
subito. Oggi mi ha raccontato una storia. Te la dico?» fece poi, mangiandosi
tutte le parole, quasi ingozzandosi con la sua stessa saliva. Non mi capacitavo
di come potesse saltare da un argomento all’altro con così facilità, ma risolsi
tutto col fatto che era un bambino, per altro molto piccolo, e dai bambini
molto piccoli non puoi aspettarti coerenza. In realtà puoi aspettartene ancora
di meno dagli adulti.
«Certo. Dimmi tutto,» gli sorrisi, un po’ falso, e intanto cercavo con lo
sguardo la madre.
«Mi ha raccontato che io ho un filo rosso legato al dito, però è invisibile, e
è legato anche a un’altra persona nel mondo, e quando mi farò grande mi
incontrerò con quella persona del filo, e questo si chiama destino!» disse
tutto orgoglioso della sua storia e intanto muoveva l’indice della mano destra
in aria, davanti alla luce del sole. Sorrisi divertito, sinceramente questa
volta, gli dissi che era una storia molto carina, fantasiosa ma molto carina.
Poi la madre del bambino tornò indietro tutta trafelata – probabilmente doveva
essere piuttosto di fretta – e il marmocchio mi lasciò la mano per poterle
andare incontro.
«Aspet-» dissi d’istinto quando mi sentii tirare in
avanti nel momento in cui il bambino mi mollò la mano per allontanarsi:
sembrava infatti che il suo piccolo orologio colorato si fosse impigliato al
mio bracciale di stoffa rossa, uno di quelli che ogni animatore doveva avere al
polso insieme alla maglia dello stesso colore. Un filo sottile collegava adesso
quell’orologio e il mio bracciale, e in quel momento mi sembrò tanto ironico
che mi venne da ridere, e il bambino si fermò a guardarmi ridacchiare e poi
spostò lo sguardo confuso sui nostri polsi collegati, e gli si illuminarono gli
occhi azzurri.
«Il filo rosso…!» esclamò tutto eccitato, e io mi
avvicinai per slegarglielo dall’orologio, sorridendo per la reazione che sapevo
sarebbe arrivata in quel modo.
«Perdonami il disturbo, buona giornata,» mi disse la donna quando ci ebbe
raggiunto. Io scossi la testa come a dire che non aveva nulla di cui preoccuparsi
e salutai con la mano da cui pendeva il filo rosso, mentre quella tentava di
portare via il bambino, che non voleva schiodarsi dalla sua posizione.
«Andiamo, Valerio,» lo incitò, e a quel punto il bambino la seguì senza mai
distogliere lo sguardo dalla mia figura, a costo da farsi venire il torcicollo.
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Tenni per me quel ricordo, perché non sapevo quanto potesse essere veritiero.
Per quanto potevo saperne, sarebbe potuta benissimo essere una mia convinzione
condizionata dai racconti strambi di Valerio. O sarebbe potuto essere tutto
vero a parte i nomi dei bambini: come facevo a ricordarmi che quella donna
aveva fatto i nomi di Alessio e Valerio? Ma il pensiero che almeno un quarto di
quel ricordo potesse essere vero, mi metteva addosso un inquietante senso di
appartenenza a qualcosa, a qualcuno, sin dai miei diciassette anni. Un calore
all’altezza del petto che mi teneva compagnia anche quando mi sentivo solo.
Cosa che capitava raramente ormai, non solo per la presenza costante di Valerio
anche quando non era fisicamente accanto a me, ma anche per quella di Giusy e
Giulio, o di mia sorella, che da quando aveva scoperto il mio oscuro segreto,
invece di scappare disgustata, aveva preso gusto a stare con me e mi proponeva
di vederci e di uscire a fare shopping con un entusiasmo di cui mai avevo fatto
esperienza. Soprattutto, era convinta che adesso mi fosse nata una passione
smisurata per lo shopping. Gli stereotipi nella sua testa erano ben radicati.
Non sapevo se Giulio e Giusy fossero più affezionati a me o a Valerio, ma non
la finivano più di fare avanti e indietro da casa mia, anche in orari in cui sapevano
benissimo di poter interrompere qualcosa. Ma stranamente non mi dava poi così
fastidio. Prima di Valerio, ero di cattivo umore sin dalla mattina; ma da
quando mi svegliavo e sentivo quel respiro profondo accanto a me, non riuscivo
a non sorridere come un completo idiota.
In realtà sapevo che prima o poi sarebbe finita. “Il Per Sempre non esiste”, me
l’ero sempre detto, e mai avrei cambiato idea, di certo non adesso che m’era
capitato qualcosa di tanto bello quanto fragile, così incredibile che me lo
vedevo sfuggire dalle mani in qualunque momento, negli incubi di notte o quando
lo vedevo divertirsi con qualcun altro. Mi dicevo che quel sorriso che adesso
rivolgeva a me, presto avrebbe illuminato qualcun altro, qualcuno di più
giovane e disponibile, qualcuno che avesse la mano ferma, che fosse in grado di
prendere decisioni e di badare a sé. Qualcuno di migliore. Ed erano tutti
migliori di me, là fuori.
Anche lui era della stessa idea. Una sera eravamo a letto a coccolarci come
ormai avevamo preso l’abitudine di fare ogni notte, e lui, dopo minuti di
silenzio, se ne uscì con un “Cosa succederà quando ti stancherai di me?”
«Volevo farti la stessa domanda,» feci di rimando, non poi così sorpreso. La
questione non era ancora saltata fuori, ma ce la si leggeva negli occhi quella
paura di perderci a vicenda.
«Pensi che un giorno potrei stancarmi di te?» mi chiese serio serio, e io annuii per poi smettere d’istinto di carezzarlo
sul braccio, quasi mi fossi realmente reso conto del pericolo che Valerio si
potesse stufare di me. Lui non parlò dopo il mio cenno col capo, ma si limitò
ad accoccolarsi ulteriormente contro il mio collo, quasi avesse bisogno di
protezione perché aveva paura di quello che c’era fuori da quel letto.
«Non dicevi sul serio quella volta, vero?» chiesi dopo aver ripreso ad
accarezzarlo, questa volta sulla nuca.
«Quando?»
«Quando hai detto che per te un “ti amo” equivale a una promessa di amore
eterno. Tu non credi all’amore eterno,» dissi senza intonare la domanda,
facendogli intendere che avevo ben capito il modo in cui ragionava, ormai. E
lui era troppo maturo per credere in certe scempiaggini. Lui strisciò il capo
nell’incavo del mio collo e rispose senza guardarmi.
«Le cose belle finiscono, e troppo in fretta,» mi avvolse maggiormente il
braccio attorno al fianco e strinse un po’.
«Mi sono comportato in quel modo perché volevo ad ogni costo che il tuo
affetto fosse sincero e che non mi abbandonassi alla prima occasione».
«Avevi paura di stare solo,» ne dedussi, e quello strusciò il naso contro la
mia clavicola.
«No. Avevo paura che io e te non potessimo stare insieme,» mi corresse, e si
mosse un po’, quasi fosse nervoso: quel tipo di conversazione non doveva
piacergli particolarmente. «Però nel destino ci credo. Non so darmi una
spiegazione, ma credo sin da piccolo che tutto ciò che facciamo e ci capita sia
già scritto. Era destino che mia madre morisse, era destino che mio fratello
finisse incosciente su un letto d’ospedale. Così come era destino che
incontrassi te e che mi innamorassi davvero per la prima volta,» avvertii i
suoi nervi rilassarsi, probabilmente perché era passato a un argomento di cui
non gli dispiaceva parlare.
«Non hai paura che l’amore possa finire un giorno?» gli domandai allora,
tornando come un razzo al discorso di prima. Lo sentii mentre si irrigidiva di
nuovo e si scavava un posto comodo tra il mio collo e le mie spalle.
«Se partiamo entrambi col presupposto che niente dura per sempre, immagino che
finirà,» ammise, una smorfia in volto.
«Non potresti essere tu a stancarti per primo?» optai, e lui respirò forte dal
naso, quasi si stesse innervosendo. Si sollevò e mi lasciò un veloce bacio sul
mento, poi si posizionò a pochi centimetri dalla mia bocca e mi guardò
sollevandomi i ciuffi di capelli dalla fronte. Lessi in quegli occhi il terrore
e allo stesso tempo l’ostinazione.
«Possiamo pensarci quando verrà il momento?»
Lo fissai negli occhi decisi ma tremolanti e la mia espressione si raddolcì
come ogni volta che mi ritrovavo ad osservare la miriade di espressioni che il
suo volto riusciva a modellare. Lo attirai dal collo e me lo portai sulle
labbra, a finire quello che avevamo iniziato prima che ci perdessimo nelle
carezze.
Quella notte mi dissi che la nostra storia sarebbe potuta finire. Come la
maggior parte delle altre storie. Ma allo stesso tempo, mi dissi che nessuna
storia mi aveva saputo rigenerare a quel modo, nessuno era riuscito a farmi
sentire tanto vivo, tanto bello, nessuna esperienza mi aveva insegnato tanto
quanto quei pochi mesi in compagnia di Valerio. Comunque sarebbe andata, io
quel ragazzo l’avrei amato per sempre.
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Con oggi sono due anni che io e Valerio ci frequentiamo. Non abbiamo ancora
smesso di amarci, il che per me è un record, e per lui, a quanto mi ha detto, è
un miracolo. E’ davvero convinto che il destino abbia deciso di lasciarlo nelle
mie mani e si sia dimenticato di portarselo via. Io gli ho detto che sono
d’accordo con la decisione del destino e che lo terrei volentieri con me per
ancora un po’ di tempo.
Da qualche mese s’è trovato un lavoretto: bada a un paio di bambini, uno dei
quali è il figlio di un’amica di mia sorella. Ha avuto il permesso di portarlo
fuori oggi, e quindi ora se lo tiene seduto sulle gambe e gli sta insegnando a
fare un castello di carte, mentre mia sorella e Giusy giocano una partita a
scala 40, come le vecchie paesane. Io ho giocato il primo round, poi mi sono
stufato e ho lasciato fare a loro due, anche perché a malapena mi ricordo come
si gioca. Mi sono dedicato alla contemplazione di Valerio e al modo in cui dà
istruzioni al bambino per poter mettere una carta sopra l’altra tentando di
mantenere l’equilibrio dell’intero castello. Penso all’ironia della situazione
e a quanto possa benissimo essere una metafora della mia vita: Valerio sta
rimettendo in piedi quel castello di carta che lui stesso ha distrutto. Lo sta
ricostruendo a modo suo, e sta facendo in tutti i modi per tenerlo in piedi e
per renderlo più bello e colorato che mai. Mi lancia uno sguardo quando si
accorge di essere osservato, poi arrossisce e distoglie lo sguardo con in
faccia quel suo solito sorriso imbarazzato. Quello che non ha ancora perso. E
io, automaticamente, lo fisso ancora più intensamente, per metterlo in
difficoltà e costringerlo a lasciare il bambino per venire a darmi un bacio. E
i movimenti ci vengono ormai naturali, la sequenza è sempre la stessa, eppure
mi pare ogni volta nuova, e ancora non riesce a stancarmi. Non so quanto ancora
durerà, ma questa vita mi piace, e finalmente posso dire di poter vivere per
qualcosa. Di poter vivere e basta. Ho svoltato e imboccato una nuova strada e
ho scoperto che non è poi così male vivere per inerzia in questo modo.
Immagino che questa sia la mia nuova vita vissuta per inerzia.
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THE END.
Ce l’ho fatta *si bea degli applausi*
Vi confido che volevo farla finire male. Volevo farli mollare o volevo che
Valerio tradisse Andrea con un giovinetto, tanto perché la vita non è rose e
fiori e le storie finiscono. E gli esseri umani sono crudeli ed egoisti. La
maggior parte delle volte ^^ Non sto facendo una lezione di vita, sto solo
cercando di dirvi che volevo rendere la mia storia il più realistica possibile,
e spero di esserci riuscita comunque con quell’argomento dell’amore eterno
affrontato da Valerio e Andrea in questo capitolo. Sono entrambi coscienti che
l’amore potrebbe finire, ma preferiscono pensarci quando accadrà e se accadrà
davvero. Sarà un lieto fine vero e proprio? Chissà.
Grazie a coloro che mi hanno seguito in questo viaggio durato troppo tempo -.-
E’ perché ho allungato i capitoli, credevo di terminare molto prima. Anyway, spero che sia stata una buona lettura per tutti. Un
abbraccio!
Mirokia