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Autore: Mirokia    15/06/2013    8 recensioni
Vivere per inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla. Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare come un castello di carte.

[...]
«Io sono gay.»
«No che non lo sei, hai solo bevuto troppo.»
«Ho una cotta per te.»
«Non sai di cosa parli. Adesso va' a dormire, basta vaneggiare.»
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Cap. 27

 

 

 

 

 





Mi pettinai i capelli con una mano prima di entrare in ospedale, quasi stessi per conoscere il papa.  E fortunatamente, Valerio non s’accorse del mio gesto: già me lo vedevo a prendermi in giro con una mano schiacciata sulla bocca per evitare di ridere troppo rumorosamente. Salimmo al secondo piano, e io avevo già le gambe che mi tremavano: era ormai appurato il fatto che gli ospedali facessero uno strano effetto su di me. Non amavo l’atmosfera, le persone sedute in sala d’aspetto, la gente con la mascherina davanti alla bocca, le divise degli infermieri, l’odore nauseabondo nei corridoi, le macchinette del caffè. Nulla era di mio gradimento lì dentro. Valerio intercettò la mia espressione poco felice e mi lanciò uno sguardo da “Falla finita, non staremo tutto il giorno”, poi mi fece segno di seguirlo, ché un infermiere aveva appena spalancato una porta. La donna alla reception alzò il capo e salutò Valerio con un “Ciao, tesoro, sei sempre il primo, eh?”. Al che l’altro rispose con “Ormai sono qui più di voi”, e la donna non seppe se prenderla per un’offesa o meno.
«Uno alla volta, mi raccomando,» aggiunse quando ci vide andare spediti verso la stanza numero sette. Sentii Valerio sbuffare, poi si voltò verso di me e mi fece segno di andare per primo.
«No, no, vai tu,» gli dissi frettoloso, anche perché non sapevo esattamente cosa ci facevo in un ospedale. Non c’entravo niente, io. Valerio non fece storie e andò per primo, forse rendendosi conto lui stesso che non aveva molto senso farmi far visita a suo fratello in coma da anni. Quando entrò nella stanza ero lì per seguirlo e fregarmene della regola “Uno per volta”, ma la tizia alla reception aveva gli occhi puntati su di me, probabilmente chiedendosi da dove spuntassi e perché non mi avesse mai visto gironzolare con Valerio, e quindi non potei fare altro che sbirciare nella stanza mentre me ne stavo appoggiato al muro a braccia conserte. Tanto non vedevo un tubo, quindi era abbastanza inutile. Sapevo solo dire che Valerio era in piedi davanti a un letto e sembrava stesse parlando. Mi accostai maggiormente alla porta e mi sembrò di sentire qualcosa:
«Ti ho portato una persona. Te ne ho parlato la scorsa volta. E’ la mia persona speciale, sono sicuro che andrebbe a genio anche a te, è davvero in gamba». Poi si mise a bisbigliare per altri due minuti senza che potessi ricavarci granché e uscì con l’espressione più serena, avrei detto sollevata. Non riuscii a resisterle, e mi piegai per baciarlo sulla bocca socchiusa, nonostante avessi gli occhi della tizia ancora puntati addosso. Lui rimase spiazzato e non riuscì a spiccicare parola mentre mi lasciava passare.
Là dentro l’odore antipatico era ancora più forte: avevo quasi la tentazione di tapparmi il naso. Ma non fui in grado di muovermi di un centimetro quando intercettai la figura del fratello di Valerio distesa sul letto e circondata da macchine che emettevano suoni e luci intermittenti e da fili di diverso spessore. Non mi sentivo troppo bene: quell’immagine non faceva che portarmi alla memoria quella di mio padre, sofferente per i polmoni ridotti in briciole e per la gamba che non voleva funzionare. Forse era per  quel motivo che non ne volevo sapere di ospedali: perché non facevo che fare avanti e indietro da casa mia in ospedale sino a qualche anno prima.
Tuttavia, mi dissi che dovevo darmi un contegno e che non potevo continuare a vivere con il terrore dei funerali e il disgusto degli ospedali. Mi avvicinai rigido come un palo al letto avvolto dai fili e allungai gli occhi sul viso del ragazzo. Non potevo vedere molto, visto che aveva metà della faccia coperta da una mascherina. Ma da quello che potevo vedere, era differente in tutto e per tutto da Valerio, se non, forse, per il colore dei capelli, quel biondiccio vicino al castano. Aveva delle ciglia particolarmente folte, al contrario di Valerio, e i lineamenti squadrati come quelli del cattivo di un telefilm. Poi, a quanto mi aveva detto Valerio, aveva gli occhi scuri, tanto che facevi fatica a distinguere l’iride dalla pupilla. L’ultimo particolare che notai fu la cicatrice sulla fronte: in realtà erano tre piccole cicatrici che sembravano formare un triangolo, ed erano quei tipici puntini che rimangono sulla pelle dopo la varicella che hai fatto da bambino, soprattutto se in quel punto ti sei grattato insistentemente. Quel triangolo formato da tre piccole cicatrici mi ricordava qualcosa, o qualcuno, che si vergognava per lo stesso motivo: si vergognava di quelle cicatrici così evidenti, perché gli amici lo prendevano in giro…
Un’idea mi passò la testa veloce come un fulmine, mi dissi “Possibile?”, poi la mano andò ad accarezzargli la fronte, inconsciamente, senza darmi il tempo di chiedermi se potessi toccarlo o meno. Quel ragazzo lo conoscevo. Si chiamava Alessio, Alessio Castelli. Certo che lo conoscevo.
«Sarai sempre tu la persona speciale di Valerio. Ma in attesa del tuo risveglio, sarò io a prendermi cura di lui,» dissi ad alta voce mentre continuavo a passargli la mano sulla fronte, avvertendola particolarmente fresca rispetto alle mie dita. «Tuo fratello mi ha cambiato la vita. Vorrei che potessi vederlo, adesso. Vorrei che potessi vedere me e quello che sono diventato,» dissi ancora, senza un vero senso logico, le lacrime che inspiegabilmente pizzicavano agli angoli degli occhi. Ma prima che potessi permettermi di lasciar andare quelle lacrime, mi allontanai da Alessio e uscii velocemente dalla stanza socchiudendomi la porta alle spalle. A quel punto fu Valerio ad accogliermi con un bacio, come io avevo fatto con lui poco prima. La signora alla reception non ci salutò quando uscimmo abbracciati, io con la mano nei suoi capelli e lui col braccio stretto al mio fianco.
---
Il mio ricordo risaliva al quarto anno di liceo, quando stava lentamente scemando la mia voglia di fare l’animatore in oratorio. Era ormai arrivata l’estate, e io quell’anno avevo evitato per un soffio il debito in matematica – era l’unica materia in cui non riuscivo a raccapezzarmi -, e solo per quello ero felice come una Pasqua. Ma la mia occupazione giornaliera in oratorio non faceva che buttarmi il morale a terra: i ragazzi con cui animavo non mi andavano affatto a genio – come se ci fosse davvero qualcosa che mi andasse a genio – e i bambini con cui avevo a che fare diventavano ogni anno più impertinenti e ingestibili, e mi facevano tornare a casa ogni giorno con l’emicrania e con la voglia di entrare in letargo estivo.
E quindi, il mio ricordo risaliva a uno di quei giorni lì. L’ennesima giornata passata a controllare contro voglia i ragazzini che scorazzavano per il cortile, con solo una brioche per merenda e un cappellino per ripararmi dal sole cocente.
«Scusami,» una voce femminile sembrò chiamare me, anche se poteva benissimo essere un miraggio, vista la mia visione distorta del mondo dovuta al picchiare del sole sulla mia testa. Mi voltai, e vidi una donna sulla soglia del cancelletto posteriore che, stranamente, era aperto. Maledii chiunque l’avesse lasciato aperto, visto che se l’avesse scoperto il Don, avrebbe dato la colpa a me, come sempre.
«Posso entrare?» chiese ancora la donna e io, braccia conserte e sguardo antipatico,
«Faccia pure,» dissi, ché tanto ormai era più dentro che fuori. La donna aveva lunghi e folti capelli ricci e biondi, e immaginai dovessero essere come una cappa sulla testa. Che diavolo aspettava a legarseli? Sarebbe morta di caldo, come minimo. Notai solo qualche secondo dopo che teneva per mano un bambino minuscolo che indossava un cappellino colorato e si guardava intorno quasi fosse nel paese delle meraviglie.
«Sono passata perché ho dimenticato di dare le chiavi di casa e un paio di altre cosette a mio figlio,» mi disse la signora quando mi fu abbastanza vicina.
«Chi è suo figlio?» le chiesi, e lei mi indicò con la mano libera uno dei due ragazzi che giocavano a pallone davanti al murales principale nel cortile.
«Alessio Castelli,» mi disse il nome del ragazzo, e io feci “Ah, certo”, riconoscendo in quel nome il mio animato più grande, quello che, probabilmente, l’anno dopo avrebbe iniziato il corso da animatore.
«Le dispiace tenerlo un secondo? Vado e torno».
E mi mollò il bambino che teneva per mano per poi camminare svelta verso il ragazzo biondiccio che giocava a pallone. Abbassai lo sguardo verso il piccolo, e quello mi guardò a sua volta da sotto il cappellino con la visiera.
«Er… la tua mamma arriva subito,» feci impacciato mentre stringevo la mano sudata del bimbo.
«Lo so!» esclamò quello, la voce minuscola quanto lui. «La mamma arriva sempre subito. Oggi mi ha raccontato una storia. Te la dico?» fece poi, mangiandosi tutte le parole, quasi ingozzandosi con la sua stessa saliva. Non mi capacitavo di come potesse saltare da un argomento all’altro con così facilità, ma risolsi tutto col fatto che era un bambino, per altro molto piccolo, e dai bambini molto piccoli non puoi aspettarti coerenza. In realtà puoi aspettartene ancora di meno dagli adulti.
«Certo. Dimmi tutto,» gli sorrisi, un po’ falso, e intanto cercavo con lo sguardo la madre.
«Mi ha raccontato che io ho un filo rosso legato al dito, però è invisibile, e è legato anche a un’altra persona nel mondo, e quando mi farò grande mi incontrerò con quella persona del filo, e questo si chiama destino!» disse tutto orgoglioso della sua storia e intanto muoveva l’indice della mano destra in aria, davanti alla luce del sole. Sorrisi divertito, sinceramente questa volta, gli dissi che era una storia molto carina, fantasiosa ma molto carina. Poi la madre del bambino tornò indietro tutta trafelata – probabilmente doveva essere piuttosto di fretta – e il marmocchio mi lasciò la mano per poterle andare incontro.
«Aspet-» dissi d’istinto quando mi sentii tirare in avanti nel momento in cui il bambino mi mollò la mano per allontanarsi: sembrava infatti che il suo piccolo orologio colorato si fosse impigliato al mio bracciale di stoffa rossa, uno di quelli che ogni animatore doveva avere al polso insieme alla maglia dello stesso colore. Un filo sottile collegava adesso quell’orologio e il mio bracciale, e in quel momento mi sembrò tanto ironico che mi venne da ridere, e il bambino si fermò a guardarmi ridacchiare e poi spostò lo sguardo confuso sui nostri polsi collegati, e gli si illuminarono gli occhi azzurri.
«Il filo rosso…!» esclamò tutto eccitato, e io mi avvicinai per slegarglielo dall’orologio, sorridendo per la reazione che sapevo sarebbe arrivata in quel modo.
«Perdonami il disturbo, buona giornata,» mi disse la donna quando ci ebbe raggiunto. Io scossi la testa come a dire che non aveva nulla di cui preoccuparsi e salutai con la mano da cui pendeva il filo rosso, mentre quella tentava di portare via il bambino, che non voleva schiodarsi dalla sua posizione. «Andiamo, Valerio,» lo incitò, e a quel punto il bambino la seguì senza mai distogliere lo sguardo dalla mia figura, a costo da farsi venire il torcicollo.
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Tenni per me quel ricordo, perché non sapevo quanto potesse essere veritiero. Per quanto potevo saperne, sarebbe potuta benissimo essere una mia convinzione condizionata dai racconti strambi di Valerio. O sarebbe potuto essere tutto vero a parte i nomi dei bambini: come facevo a ricordarmi che quella donna aveva fatto i nomi di Alessio e Valerio? Ma il pensiero che almeno un quarto di quel ricordo potesse essere vero, mi metteva addosso un inquietante senso di appartenenza a qualcosa, a qualcuno, sin dai miei diciassette anni. Un calore all’altezza del petto che mi teneva compagnia anche quando mi sentivo solo. Cosa che capitava raramente ormai, non solo per la presenza costante di Valerio anche quando non era fisicamente accanto a me, ma anche per quella di Giusy e Giulio, o di mia sorella, che da quando aveva scoperto il mio oscuro segreto, invece di scappare disgustata, aveva preso gusto a stare con me e mi proponeva di vederci e di uscire a fare shopping con un entusiasmo di cui mai avevo fatto esperienza. Soprattutto, era convinta che adesso mi fosse nata una passione smisurata per lo shopping. Gli stereotipi nella sua testa erano ben radicati. Non sapevo se Giulio e Giusy fossero più affezionati a me o a Valerio, ma non la finivano più di fare avanti e indietro da casa mia, anche in orari in cui sapevano benissimo di poter interrompere qualcosa. Ma stranamente non mi dava poi così fastidio. Prima di Valerio, ero di cattivo umore sin dalla mattina; ma da quando mi svegliavo e sentivo quel respiro profondo accanto a me, non riuscivo a non sorridere come un completo idiota.
In realtà sapevo che prima o poi sarebbe finita. “Il Per Sempre non esiste”, me l’ero sempre detto, e mai avrei cambiato idea, di certo non adesso che m’era capitato qualcosa di tanto bello quanto fragile, così incredibile che me lo vedevo sfuggire dalle mani in qualunque momento, negli incubi di notte o quando lo vedevo divertirsi con qualcun altro. Mi dicevo che quel sorriso che adesso rivolgeva a me, presto avrebbe illuminato qualcun altro, qualcuno di più giovane e disponibile, qualcuno che avesse la mano ferma, che fosse in grado di prendere decisioni e di badare a sé. Qualcuno di migliore. Ed erano tutti migliori di me, là fuori.
Anche lui era della stessa idea. Una sera eravamo a letto a coccolarci come ormai avevamo preso l’abitudine di fare ogni notte, e lui, dopo minuti di silenzio, se ne uscì con un “Cosa succederà quando ti stancherai di me?”
«Volevo farti la stessa domanda,» feci di rimando, non poi così sorpreso. La questione non era ancora saltata fuori, ma ce la si leggeva negli occhi quella paura di perderci a vicenda.
«Pensi che un giorno potrei stancarmi di te?» mi chiese serio serio, e io annuii per poi smettere d’istinto di carezzarlo sul braccio, quasi mi fossi realmente reso conto del pericolo che Valerio si potesse stufare di me. Lui non parlò dopo il mio cenno col capo, ma si limitò ad accoccolarsi ulteriormente contro il mio collo, quasi avesse bisogno di protezione perché aveva paura di quello che c’era fuori da quel letto.
«Non dicevi sul serio quella volta, vero?» chiesi dopo aver ripreso ad accarezzarlo, questa volta sulla nuca.
«Quando?»
«Quando hai detto che per te un “ti amo” equivale a una promessa di amore eterno. Tu non credi all’amore eterno,» dissi senza intonare la domanda, facendogli intendere che avevo ben capito il modo in cui ragionava, ormai. E lui era troppo maturo per credere in certe scempiaggini. Lui strisciò il capo nell’incavo del mio collo e rispose senza guardarmi.
«Le cose belle finiscono, e troppo in fretta,» mi avvolse maggiormente il braccio attorno al fianco e strinse un po’.  «Mi sono comportato in quel modo perché volevo ad ogni costo che il tuo affetto fosse sincero e che non mi abbandonassi alla prima occasione».
«Avevi paura di stare solo,» ne dedussi, e quello strusciò il naso contro la mia clavicola.
«No. Avevo paura che io e te non potessimo stare insieme,» mi corresse, e si mosse un po’, quasi fosse nervoso: quel tipo di conversazione non doveva piacergli particolarmente. «Però nel destino ci credo. Non so darmi una spiegazione, ma credo sin da piccolo che tutto ciò che facciamo e ci capita sia già scritto. Era destino che mia madre morisse, era destino che mio fratello finisse incosciente su un letto d’ospedale. Così come era destino che incontrassi te e che mi innamorassi davvero per la prima volta,» avvertii i suoi nervi rilassarsi, probabilmente perché era passato a un argomento di cui non gli dispiaceva parlare.
«Non hai paura che l’amore possa finire un giorno?» gli domandai allora, tornando come un razzo al discorso di prima. Lo sentii mentre si irrigidiva di nuovo e si scavava un posto comodo tra il mio collo e le mie spalle.
«Se partiamo entrambi col presupposto che niente dura per sempre, immagino che finirà,» ammise, una smorfia in volto.
«Non potresti essere tu a stancarti per primo?» optai, e lui respirò forte dal naso, quasi si stesse innervosendo. Si sollevò e mi lasciò un veloce bacio sul mento, poi si posizionò a pochi centimetri dalla mia bocca e mi guardò sollevandomi i ciuffi di capelli dalla fronte. Lessi in quegli occhi il terrore e allo stesso tempo l’ostinazione.
«Possiamo pensarci quando verrà il momento?»
Lo fissai negli occhi decisi ma tremolanti e la mia espressione si raddolcì come ogni volta che mi ritrovavo ad osservare la miriade di espressioni che il suo volto riusciva a modellare. Lo attirai dal collo e me lo portai sulle labbra, a finire quello che avevamo iniziato prima che ci perdessimo nelle carezze.
Quella notte mi dissi che la nostra storia sarebbe potuta finire. Come la maggior parte delle altre storie. Ma allo stesso tempo, mi dissi che nessuna storia mi aveva saputo rigenerare a quel modo, nessuno era riuscito a farmi sentire tanto vivo, tanto bello, nessuna esperienza mi aveva insegnato tanto quanto quei pochi mesi in compagnia di Valerio. Comunque sarebbe andata, io quel ragazzo l’avrei amato per sempre.

 

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Con oggi sono due anni che io e Valerio ci frequentiamo. Non abbiamo ancora smesso di amarci, il che per me è un record, e per lui, a quanto mi ha detto, è un miracolo. E’ davvero convinto che il destino abbia deciso di lasciarlo nelle mie mani e si sia dimenticato di portarselo via. Io gli ho detto che sono d’accordo con la decisione del destino e che lo terrei volentieri con me per ancora un po’ di tempo.
Da qualche mese s’è trovato un lavoretto: bada a un paio di bambini, uno dei quali è il figlio di un’amica di mia sorella. Ha avuto il permesso di portarlo fuori oggi, e quindi ora se lo tiene seduto sulle gambe e gli sta insegnando a fare un castello di carte, mentre mia sorella e Giusy giocano una partita a scala 40, come le vecchie paesane. Io ho giocato il primo round, poi mi sono stufato e ho lasciato fare a loro due, anche perché a malapena mi ricordo come si gioca. Mi sono dedicato alla contemplazione di Valerio e al modo in cui dà istruzioni al bambino per poter mettere una carta sopra l’altra tentando di mantenere l’equilibrio dell’intero castello. Penso all’ironia della situazione e a quanto possa benissimo essere una metafora della mia vita: Valerio sta rimettendo in piedi quel castello di carta che lui stesso ha distrutto. Lo sta ricostruendo a modo suo, e sta facendo in tutti i modi per tenerlo in piedi e per renderlo più bello e colorato che mai. Mi lancia uno sguardo quando si accorge di essere osservato, poi arrossisce e distoglie lo sguardo con in faccia quel suo solito sorriso imbarazzato. Quello che non ha ancora perso. E io, automaticamente, lo fisso ancora più intensamente, per metterlo in difficoltà e costringerlo a lasciare il bambino per venire a darmi un bacio. E i movimenti ci vengono ormai naturali, la sequenza è sempre la stessa, eppure mi pare ogni volta nuova, e ancora non riesce a stancarmi. Non so quanto ancora durerà, ma questa vita mi piace, e finalmente posso dire di poter vivere per qualcosa. Di poter vivere e basta. Ho svoltato e imboccato una nuova strada e ho scoperto che non è poi così male vivere per inerzia in questo modo.
Immagino che questa sia la mia nuova vita vissuta per inerzia.






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THE END.
Ce l’ho fatta *si bea degli applausi*
Vi confido che volevo farla finire male. Volevo farli mollare o volevo che Valerio tradisse Andrea con un giovinetto, tanto perché la vita non è rose e fiori e le storie finiscono. E gli esseri umani sono crudeli ed egoisti. La maggior parte delle volte ^^ Non sto facendo una lezione di vita, sto solo cercando di dirvi che volevo rendere la mia storia il più realistica possibile, e spero di esserci riuscita comunque con quell’argomento dell’amore eterno affrontato da Valerio e Andrea in questo capitolo. Sono entrambi coscienti che l’amore potrebbe finire, ma preferiscono pensarci quando accadrà e se accadrà davvero. Sarà un lieto fine vero e proprio? Chissà.

Grazie a coloro che mi hanno seguito in questo viaggio durato troppo tempo -.- E’ perché ho allungato i capitoli, credevo di terminare molto prima. Anyway, spero che sia stata una buona lettura per tutti. Un abbraccio!

 

 

 




Mirokia


 




   
 
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