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Autore: caith_rikku    01/01/2008    2 recensioni
Piccola Oneshot scritta per un contest indetto nel forum.
Il tema trattato è quello del rancore, in un modo particolare, più figurativo che effettivamente realistico.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il bambino piangeva, e più piangeva, più lo sguardo di lui trapelava irritazione. Le mani gli tremavano, e coglievo distintamente la sua voglia di fuggire.

Sentivo in maniera quasi palpabile che di lì a poco l'avrei perso per sempre, e rendermene conto mi stava distruggendo gli organi vitali.

Nonostante tutto, quel pianto richiamava il mio amore materno, risvegliava un legame indissolubile.

E lui se ne accorse. Si accorse che volevo andare dal mio bambino, in quel momento, all'apice di quella che sarebbe stata la nostra ultima discussione.

Non lo accettò, ferito nell'orgoglio.

Se ne andò sbattendo la porta, ponendo fine a tutti i miei sogni, a tutti i miei desideri. Ma non pose fine al pianto del bimbo.

Non mi mossi, impietrita, sentendo dentro di me qualcosa rifiutarsi di correre a calmarlo, perchè andare da lui avrebbe significato ricordare nitidamente.


Accoccolato nel mio grembo, il piccolo gattino nero cominciò a farmi le fusa, guardandomi di sottecchi con i suoi occhi verdi, indagatori.

Mi stava chiedendo di cedere al suo fascino, di vezzeggiarlo e coccolarlo, di nutrirlo ed appagarlo.

Di prendermi cura di lui.


Fissavo da tempo quella porta chiusa. Ne sentivo ancora, nelle orecchie, il rumore echeggiante che mi era arrivato al cuore, quando lui l'aveva sbattuta.

Vedevo ancora la sua schiena, così larga, così ampia, che conoscevo così bene, sparire nel buio oltre quella porta.

Dentro casa vi era un soffuso calore, vi era una luce calda.

Dentro casa vi era il mio amore per lui.

Eppure lui aveva scelto il buio oltre la porta.

Aveva scelto di allontanarsi da me.

Chiusi gli occhi, serrando le labbra più che potevo, lasciandomi travolgere da quello che provavo, così sconvolta da non riuscire nemmeno a piangere.

L'amore che sentivo per lui, incontrastabile, indissolubile. Un amore che durava da tempo immemorabile, che era stato il centro della mia vita, al quale avevo riposto ogni mia speranza.

L'affetto materno, la preoccupazione per quella creaturina che ancora si lamentava flebilmente, continuando a sperare in un soccorso che non giungeva. Quella sensazione con la quale avevo imparato a convivere in quei pochi mesi, da quando mi aveva guardato con i suoi perfetti occhi azzurri.

E poi vi era sofferenza.

Sofferenza cieca, profonda, che non riusciva ad uscirmi dal petto, che minacciava di logorarmi.

Che avrebbe fatto bene a logorarmi, perchè ero io la causa di tutto.


Il micio cresceva.

Le zampe gli si allungavano, il corpo gli diventava proporzionato e spigoloso, il muso più affilato.

Mi richiedeva sempre più attenzioni, con quella sua effimera bellezza impareggiabile, con quel pelo nero che diventava più scuro e lucente ad ogni mia attenzione, quegli occhi verdi, socchiusi, troppo grandi per quel muso smunto, che mi richiamavano, mi calamitavano.

Era affascinante ma mi metteva in soggezione.

In realtà, non fosse stata per la sua capacità di attrarmi a lui, lo avrei trovato ripugnante.

Era magro, talmente magro che potevo contare le sue costole, mentre lo accarezzavo. Potevo passare il dito su ogni sua vertebra, sulle quali giocavo come fossero tasti di un pianoforte.

E più me en prendevo cura, più sembrava che diventasse magro ed affamato.

"Ancora" sembrava dirmi, "ancora".

E più passava il tempo, più lui era insaziabile.


Deperivo giorno dopo giorno, senza la minima forza per reagire.

Completamente persa nel mio dolore, nel mio struggimento, nel mio mondo.

Mi muovevo per la casa in uno stato febbrile, con la speranza che lui tornasse da un momento all'altro, che lui perdonasse i miei sbagli.

Che lui smettesse di guardare i capelli rossi del mio bambino come se fossero una piaga, o il più terribile dei mali.

Riuscivo a prendermi cura della casa solo perchè così lui, che sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento, avrebbe trovato la sua amabile casa, la sua amabile vita, la sua amabile moglie, il suo amabile bambino.

Anche se il bambino non era suo.

Ed io avevo rovinato la mia stessa vita.

La mia, la sua, e quella appena iniziata del mio bambino.


Il gatto diventava sempre più affettuoso, mentre si strusciava contro il mio viso con quel pelo scuro ed ispido, che arrivava a pungermi la pelle.

Mi guardava con occhi onniscenti ai quali non sapevo resistere, contro cui non potevo più nulla ormai.

Sembrava diventare sempre più grande.

Solo dopo molto mi accorsi che era strano per un gatto diventare così grande.

Mi sentivo quasi orgogliosa di ciò, perchè quella era una mia creatura, della quale mi ero presa cura.

Vedete il suo pelo talmente lustro da risultare abbagliante?

Vedete i suoi occhi, color del veleno più spietato così grandi da sembrare fanali, le sue zampe affusolate?

Vedete il suo corpo spigoloso, la sua muscolatura poco accentuata, il suo fisico scabro e smunto?

Il suo comportamento regale, la sua postura nobile?

È tutto merito mio, sono io che l'ho curato, nutrito.


Sono io che ho passato la notte con l'amico di lui, dagli inconfondibili capelli rossi.

Sono io che mi sono ritrovata in grembo una creatura che non era di lui, sapendolo e senza aver il coraggio di liberarmene, senza aver il coraggio di prendere una decisione così drammatica.

"Lui mi ama, me lo perdonerà, mi capirà" dicevo a me stessa.

Ma come potevo anche solo sperare che lui mi perdonasse, quando io stessa ero la prima a non riuscirci?

In cuor mio gli davo ragione, dell'avermi lasciata sola.

Non potevo dire nulla.

Era tutta colpa mia.

Era una situazione che era stata creata solo dalle mie orribili, infantili, vigliacche scelte, in cui non ho pensato a cosa tenevo di più nella mia vita.

Ed è stata questa la punizione: perderlo.

Lui, la cosa più importante della mia vita.



Eppure quel gatto non lo amavo.

No.

Come si poteva amare quella cosa disgustosamente ripugnante?

Disgustosamente malvagia?

Lo detestavo con tutta me stessa.

Perchè era con questo che lo avevo nutrito: con il peggio di ciò che provavo.

Con il rancore verso me stessa, che mi stava logorando l'anima, che mi aveva tolto la gioia di vivere, che non riuscivo a confessare.

E grazie a questo il gatto continuava a crescere, alimentato dal mio rancore sempre più profondo e radicato.

Il gatto, era il mio rancore.

E quando, diventato talmente grande, io non riuscii più a saziarlo, lui si cibò di me, ridandomi finalmente la pace.

  
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