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Autore: Alopix    18/06/2013    1 recensioni
Cato e Clove.
Due Favoriti, i tributi più odiati da quelli degli altri distretti, ma idolatrati e portati in gloria a casa, nel loro.
Ma com'è la vita di un Tributo Favorito, aldilà della gloria e dell'onore?
Enjoy :)
(Sì, le mie introduzioni sono sempre spettacolari, eh)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  THE  RULER  AND  THE  KILLER





“Now come one come all to this tragic affair
Wipe off that makeup, what's in is despair
So throw on the black dress, mix in with the lot
You might wake up and notice you're someone you're not
If you look in the mirror and don't like what you see
You can find out firsthand what it's like to be me
So gather 'round piggies and kiss this goodbye
I'd encourage your smiles I'll expect you won't cry”

[The end- My chemical romance]*(N.d.A)


 

Capitolo 11

Clove  P.O.V.

Sto fissando il corpo di mamma.

E’ lì, a terra.
Non riesco a vederle il viso: è voltata di schiena, la postura scomposta.
Ma ricordo lo stesso la sua espressione -e chi potrebbe dimenticarla?- Sconvolta. Inquieta. Distrutta.
E, in ogni caso, la pozza di sangue che la circonda e le inzuppa i vestiti è in bella vista.
E’ tutto come quel giorno. Ora, però, non ci sono pacificatori.
C’è solo mio padre.
E’ in piedi, vicino a lei, tremante.
Lo guardo, piena di senso di colpa. E’ tutto rosso.
Ma non sta piangendo.
No. Quella è…
Il tempo sembra fermarsi del tutto, mentre lo osservo. Tutto sembra ovattato.
Intontita, vedo solo lui. E la sua rabbia. La sua ira.
E’ questa l’unica cosa che si riesce a leggergli in volto: una grande, sterminata ira.
E, improvvisamente, ho paura.
Inizio a respirare più velocemente, in preda all’iperventilazione.
Sono in pericolo. Lo sento.
Tu!”, sussurra mio padre, fissando il suolo. Cerco di muovermi, ma invano.
Non ci riesco. Non posso spostare neanche un singolo muscolo.
Non posso muovermi.
Non posso parlare.
Non posso scusarmi
Non posso fare niente.
Neanche piangere.
Me ne sono accorta solo ora.                 
“Sei stata tu!”, continua lui.
Riesco solo a spalancare di più gli occhi.
L’ha capito…Ha capito che è colpa mia…. E mi odia…, penso in preda al panico.
Mi odia…
 “Sei stata tu!”, ripete più forte.
Alza lo sguardo, incrociando il mio. E ho la conferma dei miei sospetti.
Sono in pericolo.
Si alza lentamente da terra. Riesco a sentire anche da qui i suoi respiri pesanti.
Mi odia più di quanto io odi me.
 Delle lacrime riescono a farsi strada attraverso i miei occhi mentre lo guardo avvicinarsi.
Vuole uccidermi.
 “Sei…”. Fa un passo. L’espressione sul suo viso è incredibilmente furibonda. Non l’ho mai visto così.
Quanto vorrei poter arretrare…
“…stata…”. Ne fa un altro, parlando con voce sempre più forte.
Sono in trappola, mi dispero.
“…TU!”, miurla in faccia. Mi afferra le spalle, sbattendomi violentemente, ignorando i miei squittii e gli occhi lucidi.
“E’ tutta. Colpa. TUA!”, urla, ringhiando e mi scaraventa a terra, il vicino a mamma.
Sto tremando. Ora posso muovermi –capisco- ma so anche che non lo farò. Perché, forse, questo è proprio quello che voglio.
Ha ragione. Ha ragione.
Ha ragione!
Chiudo gli occhi aspettando il suo colpo.
Ma sento solo qualcuno ridere sommessamente.
“Ha ragione, Clover. E’ colpa tua”. Un’altra voce, totalmente diversa, mi giunge all’orecchio.
Cato.
Riesco quasi a sentire il ghigno soddisfatto nella sua voce.            
Mi ha alla sua mercé.
Mi soffia un’altra risata nell’orecchio.
“Se non fossi stata così…stupida e debole non sarebbe successo”. Ridacchia.
Non è vero, penso.
Non è vero.
 Io non sono debole.
“Ah no?”, chiede. Ma come…?
Allora apri gli occhi”, sento la sua voce sempre più divertita. Quasi ilare.
Inferocita, apro gli occhi. E vorrei non averlo mai fatto.
Attonita, capisco tutto.
Quella lì non è mamma.
Gli occhi in cui mi sto riflettendo sono marroni. E questo era l’unico particolare fisico che mia abbia mai distinto da mia madre: gli occhi. Io ho ereditato le iridi cioccolato di mio padre. Mamma aveva gli occhi smeraldo.
Quella …sono io.
“Vedi, Clover?”, continua gongolante Cato, parlandomi nell’orecchio. Non posso vederlo in faccia, ma so comunque che sta ghignando come non mai.
“Sei stata una stupida e ti sei fidata.” Fa una pausa, trepidante.
“…E non ci si fida di un tributo avversario”.Improvvisamente, sento uno squillo di trombe.
E allora tutto assume un senso.
Certo che non è mia madre, quella. Certo che sono io.
Questa è l’Arena.
Questi sono i Giochi.
E io ho perso.
Per colpa mia
E Cato ha vinto.
Per colpa mia….
E ho mia madre è morta.
Per colpa mia….
E mio padre è distrutto.
Per colpa mia
Mi sveglio singhiozzando.
Per quanto possa essere attenta e vigile durante il giorno, durante la notte la mia volontà di non piangere non ha speranze di averla vinta sul mio inconscio.
E’ sempre così, ormai.
E mi odio per questo.
…Anche per questo.
Tremo violentemente, abbracciandomi le ginocchia.
Quest’incubo è stato uno dei più terribili finora.
Il che è tutto dire. Sono quasi quattro settimane di incubi. Inizio ad avere paura di addormentarmi.
Disperata ed esasperata allo stesso tempo, cerco di tranquillizzare il respiro.
Uno, due, conto lentamente.
Dentro e fuori. Ma i singhiozzi non sembrano intenzionati a fermarsi.
Non c’è niente da fare. Né per il respiro, né per le lacrime.
Soprattutto per le lacrime.
Sbuffo sonoramente. Non posso andare avanti così. Non posso proprio.
E’ passato quasi un mese ed io sono ancora in questo stato. Non dovrei esserci neanche mai entrata, figurarsi. E la cosa peggiora di giorno in giorno…
Respiro pesantemente, in preda ai singhiozzi e alla rabbia.
Tutto questo è sbagliato. Non dovrebbe essere così. Non l’avevo previsto. Non può essere.
Basta.
Basta.
Basta! Non posso farcela, così!
Scatto in piedi, incapace di stare ferma.
Devo fare qualcosa. O inizierò a pensare.
…e allora sarà tutto molto peggio.
Come ho fatto già fatto in tutti questi giorni- atroci e lunghissimi giorni- mi scaravento per la stanza, alla ricerca di qualcosa da fare. Di qualcosa da distruggere. Perché non posso stare ferma.
Devo fare qualcosa. Ormai è una routine: pensiero sbagliato, rabbia, distruzione…incubo, rabbia, distruzione…lacrime, rabbia, distruzione.
Come un automa. No, penso.Magari fossi un automa.
In preda alla frustrazione, mi rendo conto che non mi è rimasto niente. In effetti, la mia stanza è un casino.
E non mi sto riferendo alla polvere che si sta accumulando sopra ogni cosa- nessuno fa più le pulizie.
Penso che il letto sia l’unica cosa quasi illesa in tutta la mia camera.
A terra ci sono fogli di carta, pezzi di vetro, i cocci restanti della mia lampada da comodino e chissà che altro. Anche la mia scrivania è riversa. L’armadio non ha più un’anta. E, ovviamente, il muro è pieno di tagli, essendo bersaglio dei miei coltelli.
E’ straordinario, a pensarci, quanto io possa essere distruttiva anche in queste condizioni. Ma solo se ci si pensa con una vena molto, molto ottimistica.
Non avendo nient’altro, inizio a prendere a pugni il muro.
Violentemente. Ripetutamente. Sempre nello stesso posto.
E’ colpa mia.
E’ colpa mia.
E’ colpa mia.
Le lacrime continuano a scendermi per le guance e i singhiozzi a scuotermi, mentre sottolineo ogni pensiero con una raffica di pugni.
Sono una debole.
Sono una debole.
Sono una debole.
Non riesco a crederci. Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quella che sono riuscita a fare, sono ridotta in questo stato. Sto piangendo.
Per mia madre, per giunta.
… che è morta.
Anche se la cosa non ha ancora senso, nella mia testa.
Semplicemente, non può essere vera.
Perché è assurdo.
Mi aspetto di vederla tornare a casa da un momento all’altro, sorridendo, chiedendo scusa per il ritardo dopo essere andata a fare la spesa. Avrebbe ignorato il mio sguardo impassibile e mi avrebbe chiesto della scuola, o, se proprio in vena di conversare, dell’Accademia.
Si sarebbe messa a cucinare…o a rassettare la cucina…
E invece no.
Perché è morta.
…e l’hai uccisa tu.
I miei pugni si fanno ancora più violenti. Le nocche iniziano a sanguinare.
Lei non tornerà, mi ripeto.
Non tornerà.
Non tornerà.
Non tornerà.
Eppure, continuo a vederla girare per casa.
Anche inconsciamente penso che lei sia da qualche parte a svolgere qualche faccenda.
Se sento il lavandino sgocciolare penso ci sia lei a lavare i piatti. Ci vuole sempre qualche secondo per realizzare che, no, non è lei, non può essere lei.
I morti non fanno le faccende domestiche.
Ormai anche il muro si sta macchiando di rosso. Ma non m’importa.
Meglio il dolore fisico.
Così almeno provo a distrarmi.
 Riprendo fiato e inizio una nuova raffica di pugni.
 
Appoggio la fronte su un ginocchio, facendo stendere l’altra gamba.
Penso che siano circa le sei di pomeriggio. Non ricordo neanche di essermi addormentata.
Ma, in realtà, non c’è molto di cui stupirsi. Non ho niente da fare a casa e, visto che sono ancora in convalescenza per via della mia gamba –maledetta ferita, maledetto Orsin e maledetto Cato!-, non posso ancora riprendere l’allenamento.
Sono sempre costretta qui, nella mia camera.
Bè, in realtà non c’è nessun veto che m’impedisce di andare nelle altre stanze, ma…
Decisamente, è meglio di no. Perché mamma non è l’unico fantasma che gira per casa.
C’è anche papà, che ormai è solo lo spettro di se stesso.
Non parla.
Non mangia.
Non ride.
Non mi guarda. Evidentemente la mia somiglianza con mamma è veramente troppa da sopportare.
Senza contare il fatto che sa che è colpa mia. Che l’ho uccisa io.
Poi, non ha ancora ripreso a lavorare e gli effetti negativi si sentono. Già prima mi lamentavo per la povertà, m ora non c’è paragone. E’ incredibile quanta differenza faccia l’assenza di mamma. Non l’avrei mai sospettato.
Anche se c’è da mettere in conto il fatto che mio padre non stia badando molto a spese, penso con rammarico.
E questa è forse la cosa peggiore.
Non che mio padre sia distrutto, o che mi odi- il che fa già molto più male di quanto io voglia ammettere. Ma che si sia completamente arreso.Questa è la cosa peggiore.
Mio padre non vuole andare avanti.
Si è abbandonato.
Vuole dimenticare.
…e quale modo migliore se non l’alcohol?
Quello che gira per casa è solo un altro fantasma, completamente impazzito.
Con il quale mi tocca convivere.
L’incubo di prima è solo uno specchio. Ma è la verità.
Ho ucciso la mia stessa madre.
E mio padre mi odia…
E sono una debole…
E perderò tutto.
Così come ho perso mamma. Così come ho perso papà.
Così come ho perso Cato.
Da quel giorno, oltre a tutta la mia confusione, non ho fatto altro che pensare che, forse, sarei dovuta stare al suo gioco. Perché so che fosse una finzione, ma, almeno, avrebbe pensato di avermi in pugno e di potersi fidare di me. E si sarebbe fidato di conseguenza.
Ma, in realtà, continuo a rimanere un ostacolo per me stessa anche in questo. Lui ha provato così tante volte a riappacificarsi, ormai.
Ma io non cedo.
Il mio orgoglio non cede.
Perché non riesco a liberarmi della sensazione che lui si stesse approfittando di me. In tutti i sensi.
E questo per me, a quanto pare, è intollerabile. Per quanto la mia ragione mi dica di farla finita e di metterci una pietra sopra, di andare avanti, di provare a riconquistare la sua fiducia da capo, io non ci riesco.
Ma so che lo devo fare.
Ormai, questa è l’ultima cosa che mi resta.
Arrivare agli Hunger Games. Partecipare. Vincerli.
E se avrò Cato vicino, tanto meglio.
Ma mi devo dare una mossa. Devo affrontare tutti i miei fantasmi. La mia debolezza. Cato.
O più semplicemente mio padre, che mi aspetta nella stanza accanto.
Ma questo è forse quello che mi spaventa di più.
Ti spaventa, eh, Clove?
Povero, piccolo amore che non sa neanche affrontare il suo stesso padre.
Che soffre per causa sua.
Stuzzicata dai miei stessi pensieri, mi faccio coraggio e mi alzo dal letto.
Oh no, penso. Adesso basta.
Hai finito di fare la debole, Clove.
Questo è solo un altro ostacolo fra te e i Giochi. E tu vuoi partecipare ai Giochi, no?
Chiudo gli occhi, respirando pesantemente, una mano appoggiata alla maniglia.
E’ colpa tua. Adesso prendine le conseguenze.
Di colpo, senza più aspettare apro la porta, stanca di me stessa e dei miei monologhi.
Da ora ricomincio.
Da ora Clove ritornaa essere Clove.
 
 
 
 
 
N.d.A.
 
*”Venga ora uno, venite tutti a questa tragica faccenda
Pulitevi da quel trucco, qui dentro c'è disperazione
Infilatevi dunque l'abito nero, mescolatevi alla moltitudine
Potreste svegliarvi e accorgervi di essere qualcuno che non siete

Se guardate nello specchio e non gradite quel che vedete
Potrete scoprire di persona com'è essere me
Radunatevi dunque attorno, porcellini, e date l'addio a tutto questo
Io vi incoraggerò a sorridere, mi aspetterò che non piangiate”
 
 (Come al solito, vediamo cosa ne pensate voi ;)
 
Allora. Non so nemmeno da dove cominciare. Né se scusarmi.
Vi potrei dire che è stato un periodo incasinato, e sarebbe vero.
Vi potrei dire che sono impazzita fra concerti ed esami-vero anche questo.
Ma la vera verità (perdonatemi il gioco di parole) è un’altra.
Avete letto di Clove, no?
Bé, non mi è stato affatto descrivere tutte le sue sensazioni.
La mancanza, il senso di colpa…
Perché il motivo per cui ho completamente staccato la spina è che, intanto, mio padre si è ricoverato, gli è stato diagnosticato un cancro ed è morto.
Io…non ce l’ho fatta, non subito, a scrivere proprio questo capitolo. Capite?
E’ solo per questo che vi chiedo di scusarmi, o sarei imperdonabile.
Non solo per voi, perché vi ho fatto aspettare e dimenticare una storia che non voglio sia dimenticata. Ma perché a questa storia e a questi personaggi ci tengo, come se fossero miei. Perché, sì, li ha inventati la Collins, ma questi, questi Cato e Clove gli ho caratterizzati io. E non voglio finiscano nel dimenticatoio.
Perché anche loro hanno diritto alla loro storia.
Poi sarò anche una debole, ma per fortuna non sono una favorita io.
 
Chiusa questa pietosa parentesi (che non avrei mai voluto aprire, in realtà), torniamo alla storia.
So che avevo promesso più azione, ma ho preferito spezzare il capitolo a metà, o sarebbe diventato troppo incasinato.
Nel prossimo…vedrete ;)
Poooooi.
Vi devo la mia interpretazione dell’ultima canzone.
Io, molto banalmente, l’ho scelta pensando che questi due poveri sfigati Favoriti potrebbero fare qualunque cosa (Dovremmo partire attraverso il mare di visi, Alla ricerca di più applausi?Dobbiamo comprare una nuova chitarra?Dobbiamo guidare una macchina più potente?Lavorare duro tutta la notte?Dobbiamo fare a botte?Lasciare accese le luci?Gettare bombe?Fare tournée nell’Est?Contrarre malattie?Sotterrare ossa?Sfasciare case?Inviare fiori per telefono?Ubriacarci?Andare in analisi?Rinunciare alla carne?Mai dormire?Tenere la gente come gli animali?  Ammaestrare cani?Far correre i topi? Riempire l’attico di contanti?Sotterrare tesori?Accumulare piaceri?)ma senza potersi mai rilassare. Perché in realtà non sono liberi di fare niente. Non di loro volontà.
Perché devono mantenersi nella parte. (“Cosa dovremmo fare adesso per riempire gli spazi vuoti In cui rimbomba la fame?[...] Tutto ciò senza mai riposarci Con le nostre spalle al muro.”)
E niente.
Spero che mi perdoniate.
E che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante tutto.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
…o se devo semplicemente ritirarmi xD
 Vi voglio bene.
E grazie  a tutti quelli che si sono presi la briga di recensire :)
O più semplicemente di leggere!
 
Con affetto,
A.
 
   
 
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