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Autore: Crissglasses    20/06/2013    19 recensioni
Prendete una studentessa annoiata che decide di iniziare un gioco.
Prendete uno studente, annoiato pure lui, che decide di stare al gioco.
Senza conoscersi, i due iniziano a scambiarsi dei biglietti: per scriversi, per scoprirsi, per sapersi.
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"Ciao straniero."
"Ciao io-odio-la-biologia."
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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22 Marzo 2013, Venerdì

 

 

Non penso che la palestra sia mai stata così affollata. Forse solo per l'assemblea di istituto a febbraio.

Ci sono stipate dentro cinque classi, oppure di più. Le due prime, perché visto che sono in prima non fanno niente, e quindi tanto vale portarle a vedere la finale del torneo di calcio del liceo; la seconda B l'hanno portata perché gioca la seconda A, e pensano che in qualche modo ci sia una specie di affinità fra le due sezioni, cosa ovviamente falsa. Molto probabilmente tiferanno per la quarta B. Poi c'è anche la quarta A, perché le due quarte sono unite.

In ogni caso, siamo in palestra perché c'è questa grande partita di calcio.

«Guarda che non è calcio, è calcetto.» mi ricorda Chiara, che seduta accanto a me non fa altro che parlare.

«Perché naturalmente tu conosci addirittura la differenza.»

«Non ci vuole un genio per capirla, eh. Forse per un babbuino non è così evidente la differenza, ma insomma.»

«Babbuino?» ripeto commossa «Neanche mio fratello mi aveva mai chiamato così... avete mai pensato di uscire insieme?»

«No, no, non è proprio il mio tipo... io pensavo più a uno come quel figo che sta entrando dalla porta.» dice mentre indica l'ingresso della palestra.

E dalla porta sta entrando Andrea, con i pantaloncini corti e una maglietta dove c'è scritto “Lambri 10” sulla schiena, il nome da spalla a spalla, e il numero sotto.

Subito dietro di lui c'è mio fratello, che come al solito fa lo stupido, ed entra a petto nudo per mostrare il fisico da palestrato che non ha.

«Oh, non mi avevi mai detto che tuo fratello è messo così bene.» fa Chiara vicino a me, mentre guarda attentamente in direzione dell'ingresso.

Io non la ascolto, perché Andrea ha preso il pallone, e sta facendo qualche tiro libero al portiere della sua squadra. Non sapevo che fosse bravo a giocare a calcio, però si vede dai movimenti fluidi e sicuri che non è la prima volta che vede una palla.

Al contrario, mio fratello è negato, e appena Andrea cerca di inserirlo in un'azione lui sembra inciampare su se stesso. Non posso far a meno di ridere, e urlargli qualche insulto.

«La prossima volta gioco io, Ale! Sarei più brava di te!» grido, e lui si gira per farmi qualche gestaccio, poi si alza di nuovo la maglietta.

«Tu non hai questi, sorellina!» mi fa indicandosi gli addominali, e giurerei che accanto a me Chiara sta bisbigliando qualcosa come «eh, già, sorellina...».

Ma non mi importa, perché qualcun'altro si è girato verso di noi, e sorride.

E Andrea che sorride, non è come tutti gli altri esseri umani.

Perché le sue labbra si aprono un po' di più rispetto a tutti gli altri, e l'accenno di denti che si riesce a vedere è un po' più bello di quello di tutti gli altri, e le fossette che gli si formano ai lati della bocca sono meno profonde di quelle di tutti gli altri.

Andrea non è come tutti gli altri.

«Fissare la gente è maleducazione.» mi sussurra Chiara, e io mi precipito a guardarmi i piedi.

Così la professoressa fischia per l'inizio della partita, e il primo tempo non potrebbe essere più noioso. Io non ci capisco niente di calcio, e quindi per la maggior parte del tempo chiedo a Chiara di spiegarmi quello che sta succedendo, in questo modo non seguo bene la partita, con il risultato che non ci capisco niente lo stesso.

Lei sembra più attenta, segue i passaggi, ed esulta se qualcuno della nostra classe segna. Io alla fine mi arrendo, e mi limito a chiedere gli aggiornamenti sul punteggio ogni quindici minuti circa.

Durante il secondo tempo, Andrea sta in panchina.

Non lo so perché l'hanno messo lì: è bravo a giocare, o almeno è migliore di mio fratello, che invece sta ancora in campo a correre dietro al pallone.

Fatto sta che lui è fuori dal campo, in panchina; e se lui è lì io la partita non la guardo più, ammesso che l'abbia mai veramente guardata.

Questa volta, però, il “non stare attenta alle cose che mi succedono intorno” non mi aiuta come ha sempre fatto. Di solito fregarsene del resto del mondo mi fa passare inosservata, ma oggi decide di farmi stare al centro dell'attenzione per qualche minuto.

Non so esattamente quando succede, e non so esattamente chi lo fa – anche se con tutte le probabilità si tratta di mio fratello, perché lo sento scusarsi dall'altra parte della palestra –, ma la palla mi colpisce in piena faccia, ad una velocità abbastanza notevole, e capita il peggio.

Il naso mi comincia a sanguinare, e non una cosa da niente che si riesce a fermare con due fazzoletti, perché il mio naso è una delle cose più delicate al mondo, e inizia a grondare sangue anche se lo sfiori, perciò potete immaginare cosa succede se gli arriva un colpo a quella velocità e con quella forza. Oltretutto mi si gonfia talmente tanto che sembra mi sia spuntata una patata sulla faccia.

Mi si appanna la vista per qualche secondo, e non riesco più a capire: dove mi trovo, come mi chiamo, e quanti anni ho. Il tutto viene risolto da una piccola folla che mi circonda subito e risponde alle mie domande.

«Alice Pitto!» urla la professoressa.

«Hai sedici anni!» interviene mio fratello, e apparentemente nessuno ne capisce il motivo.

«Siamo nella palestra della scuola, e sei stata colpita!» fa Chiara, e sempre sia divertita che terrorizzata.

Mi vengono allungati immediatamente cinquecento fazzoletti, provenienti da tutte le direzioni possibili, come se stessi per morire dissanguata.

«Sto bene.» cerco di tranquillizzare tutti, anche se la cascata che esce dal mio naso non fa pensare la stessa cosa «Sto benone.» ripeto, e cerco di sorridere, l'unica cosa che succede: sangue in bocca, e spavento generale duplicato.

Poi qualcuno si fa spazio fra la gente, e parla con la professoressa «Prof, io direi che serve del ghiaccio. L'accompagno io a prenderlo, tanto sono in panchina.»

Le parole mi rimangono in testa, e appena capisco cosa sta per succedere, cerco in qualche modo di fermarlo.

«Chiara?» urlo agitata «Chiara?! Vieni tu a prendere del ghiaccio, vero?»

Ma nessuno risponde, e fra le persone che tornato ai proprio posti, non più preoccupate, io non riesco più a trovare Chiara.

Poi sento qualcuno che mi solleva da terra, e mi prende in braccio. Una mano attorno alle gambe e una dietro alle spalle. Quando capisco è troppo tardi.

«Mettimi giù.» sibilo a quello che riconosco come Andrea.

«No.» ribatte lui deciso «Sei leggera come una piuma.»

«Mettimi giù.» ripeto, cercando di tirare fuori la voce più aggressiva che riesco a fare, con il risultato che sembro un gattino ferito.

Lui neanche si disturba a rispondere, ed apre la porta della palestra con un piede. Poi sento la professoressa che fischia, e i rumori della partita che rinizia.

«Non stavo così male da essere portata in braccio.» mi lamento a quel punto, raggomitolata sul petto di Andrea.

«Lo so.» fa lui «Ma avresti dovuto vedere come ti guardavano le altre ragazze, erano verdi. Molte di loro avrebbero dato un rene per essere al tuo posto.» spiega, e dopo una pausa riprende. «E poi non mi avresti abbracciato così facilmente se ti avessi portato in qualsiasi altro modo.»

 

* * *

 

Ho portato Alice nello stanzino dove tengono gli attrezzi della palestra, ed è seduta per terra, con il sangue che le copre metà della faccia.

Prendo il ghiaccio istantaneo dall'armadietto, lo sbatto nel muro e glielo poggio sul naso gonfio.

«Ti fa ancora tanto male?» le chiedo subito.

«No.» risponde lei, guardando da un'altra parte «Mi hanno solo tirato un meteorite sul naso» continua a borbottare.

«Tuo fratello forse ha un po' esagerato...» sorrido.

Lei si gira e mi guarda come se avesse appena capito qualcosa di sbalorditivo «Vorresti dire che avevate programmato tutto?»

«Certo, tuo fratello non passa un minuto senza pianificare di ucciderti.» rido «Non siamo mica serial killer.»

«E allora come ci siamo finiti nello stanzino delle scope? Soli? Io e te?» chiede lei arrabbiata.

«Questo non è lo stanzino delle scope. È l'unico posto in tutta la scuola dove si può trovare del ghiaccio istantaneo.»

«Va bene.» dice posizionandosi davanti a me, in modo da essere faccia a faccia. Prende un altro fazzoletto e continua a tenerselo sul naso insieme al ghiaccio, poi mi guarda. «Dai, su, facciamolo.»

«Cosa dovremmo fare di preciso?» cerco di non riderle in faccia, ma l'impresa è abbastanza difficile.

«Volevi la tua chiacchierata? Ecco la tua chiacchierata.» mi spiega.

«Ah, quella...» mi raddrizzo, cerco anche di ingrossare un po' le spalle, non so bene il perché.

«Non gonfiare il petto, sei ridicolo.» sorride per la prima volta da quando siamo soli.

«Forse non sei nella condizione di parlare, miss naso a patata sanguinolenta.» stranamente non si rabbuia, prova solo a farmi una linguaccia, ma per poco non si strozza. «Non sei in grado neanche di tirar fuori la lingua!»

Ridiamo insieme, per la prima volta da un sacco di tempo, anche se lei continua a tossire.

«Vorrei vedere te col sangue in gola!» dice fra un colpo di tosse e l'altro.

Continuo a ridere, mentre lei si tampona tutta la faccia con altri fazzoletti.

«Ferma, Cice, faccio io.» le prendo dalle mani il fazzoletto e mi avvicino, le tolgo un attimo il ghiaccio e le pulisco il sangue che le è finito ovunque.

Lei, sembra essersci congelata, perché è rimasta in silenzio e si è fermata immediatamente quando mi sono spostato.

«Non mi ci chiamavo da un sacco.» fa dopo un po'.

«Come?» le passo il fazzoletto sul mento «Ah, Cice. Ti ricordi? La prima volta che ci siamo visti hai detto il tuo nome così piano che avevo capito Cice. Ti c'ho chiamato per qualche mese, poi tuo fratello mi ha detto che ti chiamavi Circe, invece alla fine ho scoperto che eri Alice.»

«Ovviamente è rimasto nella lista dei mie soprannomi.» alza leggermente il mento, e io le tolgo le due goccie di sangue.

«Ancora con la storia delle etichette, eh?» le chiedo.

«Quando diventerò una scatoletta di tonno potrai etichettarmi.»

«Allora manca poco.» per questo mi arriva una botta nelle costole, ma poi ridiamo entrambi.

«Sbaglio o sei diventato più simpatico?» le pulisco gli angoli del naso.

«Ehi, queste sono le mie qualità. Io sono quello simpatico, tuo fratello è quello bello. Siamo il magico duo.»

«Tu non sei mica brutto.»

«Oh, grazie.»

Rimaniamo in silenzio per alcuni minuti, mentre finisco di sistemarla, poi butto il fazzoletto da una parte, ma non mi scanso. Le resto vicino.

«Lo sai che ho ancora Caronte il Rinoceronte?» mi dice lei riportandosi il ghiaccio al naso.

«Davvero? Il pupazzetto che ti avevo vinto al Luna Park?»

«Sì, lo tengo sul comodino da quando me l'hai regalato.»

«Già ti piacevo quando avevo tredici anni?»

«Non mi piacevi.» arrossisce, ma poi si affretta a puntualizzare «E non mi piaci neanche ora.»

Si allontana di qualche centimetro, mai io mi avvicino di nuovo.

«Allora, mandarino?» chiedo.

«Allora cosa? Sai quasi tutto di me, mi hai praticamente vista crescere.»

«Appunto, so quasi tutto. Dimmi qualcosa che non so.»

Si mette a pensare un attimo «Non mi piace il gelato al cioccolato, ma mi piace il cioccolato.»

«Cosa? Ma è una cosa stupida. Come fa a piacerti il cioccolato ma non il gelato al cioccolato? Sono la stessa cosa.»

«Be', mi dispiace, ma sono fatta così. Ora dimmi qualcosa che io non so di te.»

Ci penso un attimo «Non sopporto lo speck.»

Lei sgrana gli occhi «Ma lo speck è il Dio di tutti i prosciutti!»

«De gustibus non disputandum est.»

«Oh, certo, latino! Ti prego, parla la mia stessa lingua.»

«Fammi capire, tu sei venuta allo scientifico e ti fa schifo il latino e la biologia, e magari anche la matematica? Perché hai scelto questa scuola?»

«Ce l'hai presente mia mamma? Ecco perché ho scelto questa scuola.» dice lei seccata. Si vede lontano un miglio che voleva andare da qualche altra parte. Magari al classico.

«Non avresti dovuto decidere te?»

«Visto che non è mai arrivata la lettera di Hogwarts, per me potevano anche rinchiudermi in manicomio.» fa un sorriso, perché cerca di far sorridere anche me.

«Volevi veramente che un gufo si spiaccicasse sulla finestra di camera tua?»

«Certo che avrei voluto, chi non avrebbe voluto?»

«A me non avrebbe fatto né caldo né freddo.»

«Perché tu non hai un cuore. E se vuoi sapere un'altra cosa che nessuno sa è che non ho mai letto l'ultimo capitolo di Harry Potter, e non ho mai visto la seconda parte del film.»

«Perché non avresti dovuto se ti piace così tanto?»

«Perché in quel modo sarebbe finito veramente. Invece in questo modo c'è sempre uno spiraglio, ogni volta che passo davanti ad una libreria spero di vedere in vetrina il nuovo libro di Harry Potter.»

Alice è strana. Ride quando non dovrebbe, ha la frangetta che le copre gli occhi per non farsi vedere da nessuno, e non si trucca mai. Ma ha gli occhi belli.

«Non ho mai incontrato una ragazza così strana.»

«Uno, mi conoscevi già da un sacco. Due, non sono tanto strana.»

«Sì che lo sei. Passato il naso?» le chiedo.

Lei in risposta si toglie il fazzoletto sporco e si da una pulita, sembra a posto adesso.

«Lo sai che non ci siamo veramenti detti niente per tutto questo tempo, ma abbiamo solo battibeccato?» borbotta tenendosi ancora premuto il ghiaccio sul naso.

«Come al solito. Lo sai che vorrei baciarti?»

«Davvero?»

«Davvero.»

«E quindi cosa facciamo?»

«Non lo so.»

«Come sarebbe 'non lo sai'?»

«Ti bacio?»

«Se devi muoviti.»

«Ti bacio.»

Lo sporgersi verso di lei è un attimo.

Toccare le sue labbra, con le mie labbra, metterle le mani fra i capelli e sentire il profumo della sua pelle, la fa sembrare reale.

Non è più mandarino che si raccontava sui pezzi di carta, e non è neanche Alice, la sorella di Alessio, che vedevo ogni giorno. Lei è un'altra.

Lei è solo lei, che adesso mi bacia, che adesso io bacio. E non vorrei lasciarla più, se non fosse che devo respirare in qualche modo.

«Scusa.» mi dice appena ci stacchiamo, tenendo ancora gli occhi chiusi, come chi ha paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.

Io non la capisco, perché niente è sbagliato in questo momento.

«Scusa?» ripeto.

Lei si tocca le labbra, e guarda le dita macchiate un po' di rosso «So di sangue.»

«Chi se ne frega.» dico, e lei sorride.

«Chi se ne frega.» ripete, e io sorrido.

Poi la bacio ancora.







 


Aaaaaaaaahhhh, bellissimo!
No, va bene, la smetto di sentirmi figa, ma questo capitolo è quello che mi piace più di tutti in assoluto (naturalmente, cioè, chissà perché?)!
E poi avete visto anche il sangue! Mah, non mi sarei mai aspettata niente del genere da me stessa. Stavolta, invece, devo proprio dirmelo: brava, ben fatto, mi sei piaciuta. Penso che questo è uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto e che mai scriverò per una fanfiction e/o storia originale.
Ok, finito le cose idiote.
(Se vi va) fatemi sapere con una recensione cosa avete pensato di tutti questi capitoli, mi farebbe piacerissimo!
E il prima possibile (spero) arriverà l'epilogo, che insomma, anche se non lo leggete è uguale, ma va bene.

In più, prima che mi scordi: se ci sono eventuali errori che i miei occhi di talpa non hanno visto, fatemeli pure notare, non vi mangio, anzi vi regalo un biscotto!

  
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