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Autore: PiccolaEl    22/06/2013    1 recensioni
"Sono ritardataria, bugiarda, acida. Poi sono gentile, cordiale, e cedo l’ultima fetta di torta. Poi sono fredda, di una freddezza quasi utopica, irreale. Arrabbiata. E l’unica cosa che mi viene in mente è uscire di casa e stare fuori per delle ore. A fumare. E ad ascoltare canzoni a macchinetta dal mio mp3. E piangere, sullo scalino di una vetrina ben nascosta dal centro della città. Ben nascosta da tutti. Ben nascosta anche da me stessa, perché alla fine fuggo solo e soltanto da me. Degli altri non ho paura. Neanche di quelli che dalla faccia sembrano dei terroristi immigrati. Ho paura di me stessa. Del mio giudizio, unico e personale. Delle boccate d’aria fresca, ho paura, perché sono realtà [..] Non sono la ragazza del libro, o del film, o delle serie tv. Sono una ragazza normale, con problemi assurdi, e che non si fa problemi per niente. O per tutto. Spalanco gli occhi quando qualcosa mi attrae, le gambe mi cedono quando sono innamorata e i miei capelli come li metti stanno."
Questa è la piccola Bambi, che, catapultata in una nuova esperienza, troverà il coraggio di amare con tutto il suo corpo e la sua mente.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo sette - verità e bugie.



“Ahahahahaha.” ride “io non vengo.”  torna seria di colpo. Scoppio a ridere.
“Dai, sarà divertente! Si mangerà tutto a spese della Smart! Dai, non lasciarmi sola…” piagnucolo, sporgendo il labbro inferiore. Mi guarda, come se mi compatisse.
“Non ho neanche i trucchi con me, neanche un ricambio o che so…” tenta ancora. Sporgo ancora di più il labbro.
“Va bene bimba, ci sarò.” e l’abbraccio di slancio. Quando ci stacchiamo scoppiamo a ridere.
“Basta con gli abbracci. Adesso sei anche libera di non abbracciarmi per altri due mesi.” sbotta. Sorrido.
“C’è solo un problema.” proclamo con tono grave appena smettiamo di ridere. Mi guarda interrogativa.
“L’outfit.” rispondo alla sua silenziosa domanda. Mi fissa allibita.
“Esattamente come mi vedi adesso.” e si indica, con un paio di jeans, una maglietta a righe nera e bianca, le solite Clarks e una giacca rossa sagomata.
“Perfetto.” approvo, soddisfatta.
“e io?” e prende a scrutarmi, con i miei pantaloni blu, la maglietta a righe bianca e blu, le Prada blu ai piedi e il giacchetto bianco.
“Approvo.” annuisce, con vigore.
“Bene. Ora vediamo cosa dobbiamo indossare davvero” e, aprendo l’armadio e il porta scarpe, lascio che per un pomeriggio questi siano gli unici problemi.
 
Mi alzo dal letto della mia camera verde e apro il balconcino, facendo entrare l’aria fredda.
“Non so cosa succederà stasera.” esclamo dal nulla. Mi guarda stranita.
“Nel senso, cioè… mi ha detto "ci vediamo li". Non so che pensare di lui. Lo odio, con tutto il cuore.” spiego, ma in realtà non è una spiegazione, sono spezzoni di frasi a casaccio buttate in una stessa battuta e che bruciano prepotenti.
“Si, mi immagino.” replica sarcastica e accenno un ghigno.
“Va be’, non pensiamoci.” dico, e penso a quanta verità ci sia, ovunque, e a quante bugie siamo costretti a raccontare. A noi stessi.
 
 
‘Credo che va bene cosi, Bambi, basta.’ mi dico, mi incoraggio. Mi sento bruciare la gola. Non posso, non posso. E’ là, lui, Massimiliano, e c’è un’altra con lui, con gli occhi chiari e i capelli castani, alta e magra, piatta ma bella. No, è brutta. Bruttissima. Si guarda intorno, poi mi vede, e sa esattamente chi sono. Sorride, falsa. Continuo a sorseggiare il mio Angelo Azzurro. Anche lui si gira e mi vede. Mi sorride, leggo le scuse nei suoi occhi. Ma vaffanculo tu, i tuoi capelli, il tuo metro e novanta, le tue iridi più verdi del verde stesso e quella vacca barra modella barra pianura padana che ti porti dietro. Con mio orrore si avvicinano, entrambi, lui la spinge.
“Ehi!” esclama lui. Colgo incertezza.
“Ehi.” saluto, neutra. La tipa mi guarda. E’ vestita come una escort di basso livello. Spero si allontani, o potrebbe anche già salutare la sua mascella simmetrica. NO. Calma. Calma. Cerco di rilassarmi.
“Lei è Cinzia, una mia amica.” la presenta come se fosse davvero solo un’amica e non la sua tromba mica attuale, quale è in realtà. Che palle.
“Ciao, Babette.” e mi stringe la mano, mollacchia, ma sufficientemente forte da piantarmi le unghie rifatte nella carne. Stringo più forte e, dolorante, la sfila.
“Che cos’è un "Babette" ?” chiede con voce stridula.
“Un nome, zuccherino.” replico fredda. Se ne va. La guardiamo incamminarsi verso il buffet, con quei tacchi altissimi e quei pantaloncini microscopici.
“Non stiamo insieme, se è questo che pensi” dice Massi, appena lei è abbastanza lontana. Lo guardo per un istante.
“Beh, perdonami, mi sento in dovere di frenare un discorso che certamente sarebbe stato commovente e strappalacrime ma che davvero, davvero, davvero” faccio una pausa, deglutendo “non mi interessa.” concludo, butto giù l’ultimo sorso e sorrido gentile. Mi guarda cosi… ferito. Mi verrebbe tanto da urlare ‘Hey bello, quella ferita qua dovrei essere io!’ ma mi contengo. Perché non sono ferita. E perché gli altri possono soltanto stare a guardare.
“Io volevo solo spiegarmi, dato che non me ne dai mai modo” scandisce, ancora più teso.
“Le sento come giustificazioni più che come spiegazioni” replico, ironica.
“Non so per cosa mi dovrei giustificare. Voglio dire, non sei mia madre o la mia ragazza… non dovrei dartene…” mormora, come se avesse paura, come se le pensasse davvero quelle parole, poste una dopo l’altra a formare una frase che suona cosi male ma che detta da lui adesso suona cosi innocente. Pietosa.
“Appunto.” e lo guardo negli occhi e spero che… basta sperare. “in ogni caso, devo andare. C’è Giulia di là che sta cantando, quindi… ciao” saluto, e fuggo da lei. Do’ la priorità a lei, che non va a cercarsi un’altra idiota per sfogarsi, ma che chiede a me e io ci sono. Volto le spalle e mi dirigo in bagno. La trovo là, seduta sulla tazza, a contare le piastrelle del bagno. Sembra quasi ubriaca.
“Che stai facendo?” chiedo, allarmata. Sta male.
“Credo che le piastrine siano venti. O forse erano quelle nel sangue” replica, strana. Ripensandoci, è seriamente ubriaca. Mi accovaccio e cerco i suoi occhi. Non piange. Soffre, in silenzio, in quello stesso silenzio dove si rinchiudono i pazzi e i timidi, ma soffre. Troppo. E non sei pazza o timida, Giulia, sei soltanto una persona che dice di non aver bisogno di un salvatore. Ma io lo so che ce l’hai, questo bisogno, e allora vengo e ti salvo. No, non è come tradire Bon Jovi, lui ti amerà per sempre, anche se verrai salvata. Le poggio una mano sulla spalla. Alza la testa fulminea e mi guarda. Sembra normale. Sembra.
”Sei ubriaca?” le domando, facendola alzare e reggendola saldamente.
“Forse si forse no!” canticchia alla Marco Mengoni. Cazzo.
“vieni, nel bagno di casa mia ce ne sono almeno un centinaio” mormoro, ironicamente invitante. Ride sguaiatamente e, sorreggendosi a me lei, usciamo dal bagno. Stefano mi guarda interrogativo, io mi scuso con lo sguardo. Ci guardano tutti. O quasi.
“Scusate, noi abbiamo sonno, bye bye!” sbotto, fingendomi mezza ubriaca su un paio di tacchi troppo alti.
Massimiliano sa la verità.
“Attenta a non investire!” mi grida dietro Josè e rido sguaiata. Usciamo dal locale e ritorno seria. L’aria fresca di Bologna ci investe prepotente. “andiamo, su” sussurro, incitando me stessa. Sarà una notte lunga. Carico Giulia in moto, poi salgo anche io. Parto, senza casco, per fortuna siamo vicine casa. Entro in casa come una ladra, poi, accorgendomi della doppia mandata, mi rendo conto che siamo sole, del tutto. La trascino dolcemente in camera. La spoglio, le infilo il pigiama e la faccio stendere a letto. Blatera frasi senza senso a momenti. Ridacchio, cogliendo il lato comico. In realtà, non c’è un lato comico. Sospiro. Mi cambio e mi accomodo scomposta sulla poltrona di fronte al letto. Giulia tiene gli occhi chiusi. Non sta dormendo. Credo.
“Giuls” la chiamo, a bassa voce. Non apre gli occhi. Ma respira più forte.
“Lo so che non stai dormendo” sbuffo. Inizia ad essere scossa da colpi al petto. Sembra che stia ridendo.
“Che c’è da ridere?” chiedo, scocciata. Mi avvicino, e non sta ridendo. Le lacrime le bagnano il viso, il cuscino, il mio pigiama che le ho prestato, i capelli spumeggianti. Ha gli occhi chiusi.
“Ehi bimba, va tutto bene…” sussurro, poggiandole una mano sulla spalla e asciugandole le lacrime con l’altra. E i gemiti aumentano, come se più la consolassi più non servisse.
“Bimba, va tutto bene.” sussurro ancora, premendo la mia fronte con la sua. Apre gli occhi e il contatto per un momento la stabilizza. Un momento, due momenti, tre momenti. Poi resta.
“sh, sh” zittisco il mondo, per un attimo, per tutti il tempo che le serve, la camera illuminata solo dalla luce della luna che filtra dal mio balcone, il cielo stellato che grida pietà, per tutte le preghiere che ascolta ogni sera e ogni notte, il sole che non vede l’ora di alzarsi, Giulia che si addormenta, tenendomi la mano. E finalmente, dorme. Dormi Giulia, dormi, dimentica il dolore e trasformalo in grinta, come i nostri piedi camminando trasformano l’energia potenziale in energia cinetica, come il sole che trasforma una semplice reazione nucleare in bombe atomiche, lontane da noi anni luce. Come me, che trasformo il dolore in gelo. Mi alzo, mi stendo accanto a lei nel mio letto e dopo neanche trenta secondi il sonno mi coglie.
 
 
“Come va?” le chiedo, appena fa il suo ingresso nel soggiorno, la tavola apparecchiata per la colazione e le occhiaie miste a trucco residuo. Accenna un sorriso.
“Meglio.” risponde. Non è tesa. Nemmeno rigida. Neanche fredda. E’ sola nella sua più totale purezza e vitalità. Si è ripresa. Non del tutto, forse, ma abbastanza.
“Grazie.” soffia poi, d’un tratto, seria, fissandomi con quei suoi occhi grandi che mi mettono in soggezione quanto basta per sorridere.
“Dovere.” e le passo la tazza con una mucca stampata sopra. Ci accomodiamo al tavolo e scoppia a ridere notando il disegno. rido anche io.
“Che dici, non assomiglia un poco a quella vacca di Cinzia?” chiedo ironica mimando con le virgolette il nome dell’ ‘amica’ di Massimiliano. Scoppia a ridere più di prima.
“No, dai, poverina…” “… la mucca sulla tazza” aggiunge, e poi sai, Giulia, le nostre risate si disperdono nell’aria e sai, una come te non esiste nemmeno su Marte… e là si che c’è gente schizzata. E sclerata. E strana. E speciale.
 
 
“Babette?” mi chiama qualcuno. Mi volto di scatto ed è Massimiliano.
“Ciao” lo saluto.
“Come stai?” mi chiede.
“Normale.” rispondo. Ormai è tutto un botta-risposta e io non glielo chiedo come sta perché voglio davvero, sul serio, voglio convincermi che non voglio chiederglielo. E difatti così succede, e mi controllo. Perché so controllarmi.
“Senti, volevo dirti che…” si blocca un poco. Sono le dieci e mezza e io vorrei davvero tornare a casa perché sono stanca e sudata e devo finire di studiare e c’è la nebbia, e invece no, sto qua ad aspettare che si decida a parlare.
“Come sta Giulia?” mi chiede allora. Maledizione, non ci credo.
“Benissimo!” esclamo.
“Si è ripresa? Va tutto bene?” continua a chiedere.
“Tutto normale.” e io continuo a rispondere, a sillabare. E dentro di me lo so che so parlare, scrivere, leggere, pensare. Ma basta sprecare risorse per chi non se le merita. La carne all’uomo, le ossa al cane.
“Ti senti bene?” insiste.
“Si.”
“Ho parlato con Stefano.” il suono di un nome che in realtà è un lamento.
“Dunque?” domando. Sempre sulla difensiva. Sempre arrabbiata. Sempre io.
“Dunque non sapevo che Giulia stava male. Potevi dirmelo.” dice. Come se quasi non avesse paura a parlare. Non più di prima. Sono sorpresa. E arrabbiata, perché Giulia è roba mia e lui non ci deve neanche provare a estorcere informazioni. E pazza, perché il pensiero che lui vada a riferire, a parlare, a nominare me o lei a qualcuno, davvero, mi fa diventare pazza. Il borsone mi cade dalla spalla e lo lascio crollare sul pavimento. Siamo soli, all’entrata della palestra, fuori, all’aria aperta. Chiudo per un momento gli occhi e li riapro. Mi avvicino a lui. Lo guardo negli occhi.
“Il discorso è che io non volevo dirtelo. Perché mi dai fastidio. Perché parli con Stefano e decidi che si, puoi farti i fatti miei, capire quello che è successo, mettere in chiaro le cose e pace fatta. E invece no, la tua pace puoi mettertela in cameretta sul comodino, perché io non la voglio, è una pace falsa. Ed è falsa nell’esatto momento in cui poi ti ripresenti da me e mi dici 'come va', 'mi dispiace', 'potevi dirmelo' con quella voce afflitta, e arrabbiata e magari dispiaciuta, scossa, disperata. Ma che ti frega, eh, Massi, che ti frega? Che ti frega di come sto? Che ti frega che ti dispiace? Che ti frega che potevo dirtelo e in realtà poi sono stata zitta? Ma basta con ‘ste cazzate, Massi, basta. Basta tu che cerchi di fare la voce grossa e in realtà caschi come uno spaventapasseri senz’anima. Basta anche tu che poi sei risentito. Ma risentito, esattamente, di cosa? Mi chiedi come sto, o come sta lei, e io ti rispondo che magari sta morendo, oddio, la malattia, aiuto, mi taglio, che schifo il mondo. Tu sei fuori come un balcone, fattelo dire… e io non ti dirò mai come stiamo.” e i suoi occhi sono verdi ma sono troppo saccenti per capire.
“Ti auguro una buona serata.” concludo, raccolgo il borsone e me ne torno a casa in moto. Non gli ho dato il tempo di replicare. O meglio, lui non se l’è preso.






VVB a tutte, lettrici! Scusate l'assenza, ma grazie a chi è rimasta!

p.s. CIAO GIULIA SEI MIA CIAO

                                                                                                                                                                                                                       la vostra Eleonora.

  
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