Don’t Let Me Go.
«SE FOSSI STATO PIÚ ATTENTO
TUTTO QUESTO NON SAREBBE SUCCESSO!». Le gote rosse e rigate dalle
lacrime ardevano per la rabbia e i suoi capelli lunghi e color mogano iniziavano
già ad inzupparsi per la pioggia improvvisa e pungente che le cadeva sul
capo. Il Dottore la guardò, i cuori spezzati per il rimpianto e gli
occhi desiderosi di abbandonarsi alle lacrime. Non cedette, tuttavia; strinse i
denti e tentò di avvicinarsi a Clara, pian piano, aprendo le braccia e
tendendo le mani verso di lei.
«Clara…».
«Non avvicinarti un passo di più!», sbraitò lei,
piegandosi verso di lui in un grido, tentando invano di scacciare le tracce di
mascara sbavato sotto i suoi occhi. «È tutta colpa tua»,
mormorò poi con voce più leggera, riprendendosi un poco,
prosciugando con singhiozzi colmi di rabbia ogni lacrima ancora rimasta ad attendere
sotto le sue palpebre. «Perché non bastava portarmi nel pianeta
più desolato ed inquinato dell’intero universo, vero? Dovevi anche
decidere di volerlo esplorare proprio durante una guerra, GENIALE!». Il Dottore deglutì, ferito, ma mantenne la
testa ben alta e le braccia in aria e pronte ad accoglierla. «In quattro
ore ho visto una folla di bambini morire», continuò lei, imperterrita,
«sono stata infradiciata, quasi uccisa, buttata in mezzo ai cadaveri dopo
essere svenuta perché mi ritenevano morta e, come se non bastasse, ho
perso l’anello! QUELLO DI MIA MADRE! Sono fradicia, puzzo come un cane e
cammino verso la broncopolmonite. Contento, ora? No, ovviamente». E, con le
labbra sanguinanti per quanto forte se le stesse mordendo, senza scostare lo
sguardo di un millimetro dalla sua figura tremante, sussurrò qualcosa.
«No, ovviamente. A te non importa mai».
E il Dottore, occhi spalancati per il disonore e le braccia calanti di nuovo
sul suo stesso petto, esplose. Si scostò una ciocca di capelli fradici
dalla fronte e, esalando un respiro profondo, iniziò a soffiare fra i denti.
«Non osare», sussurrò, con tono così tanto basso che,
se lei non avesse avuto un buon udito, avrebbe stentato ad udire. «Non
osare nemmeno pensare che a me non importi. A me importa sempre – che sia
tu, un infimo alieno genocida o un bambino innocente -, a priori. Non osare
nemmeno credermi – io, il Dottore, il salvatore di mondi – una persona
a cui non importa».
Ma la ragazza, in piedi davanti a lui, tacque. Aspettò, con le braccia
appoggiate sui fianchi e il petto scosso dai singhiozzi, che lui facesse
qualcosa. Tuttavia lui imitò il suo silenzio, ostentando a piangere e
fissandola con sguardo serio e fiero di sé.
Non era più il Dottore.
Era la Tempesta in Arrivo.
«Io ci provo». Lo
sputò fra i denti digrignati, come se non avesse aspettato altro durante
la sua vita che urlare quelle poche parole in faccia a qualcuno. E, tremando e
lottando per non piangere, cedette alla rabbia. «Ma sono contornato da
scimmie che non capiscono. Vuoi vedere l’universo? Non ti devi aspettare solo
piaceri e banchetti. Questa è la vita. VIVILA E NON FRIGNARE! Il dolore esiste. Apri gli occhi e guardalo,
diamine!».
Clara non resse.
Indietreggiò davanti alle braccia ora di nuovo aperte del Dottore che,
piano piano, tornò ad avvicinarsi a lei.
Consapevole, disonorato, odiando sé stesso per le parole appena
dette, mosse un passo esitante con
le ginocchia molli, avvicinandosi a lei, tentando disperatamente di ripiegare
ai torti appena commessi. «Clara… ti
prego, io…».
Ma lei non volle. «Vai via», singhiozzò, ma tuttavia fu lei
quella ad andarsene. Ginocchia tremanti e occhi gonfi, membra gocciolanti e
vestiti appiccicati al petto, barcollò allontanandosi da lui. Mostro, gridavano i suoi occhi.
Così innocenti, così limpidi, così deboli. Singhiozzava e
continuava nella sua lenta retrocessione; ciononostante, mentre traballava e
arretrava, i suoi occhi non si staccarono mai dalla figura tremante del Dottore
che la sovrastava. E lui moriva dal bisogno devastante di avvicinarsi e di
coglierla fra le sue braccia, di stabilizzarla, scaldarla e prendersi cura di
lei; eppure era messo in soggezione dal suo sguardo, e dai suoi occhi gonfi per
colpa delle sue parole, e dalle sue braccia parate di fronte al suo corpicino
come a nascondersi dai suoi sguardi malvagi e mostruosi. E, come un bambino,
cadde sulle sue stesse ginocchia quando lei corse verso la boscaglia,
lasciandolo solo.
Clara si trascinò fra il muschio e i tronchi caduti per poco più
di qualche minuto. Poi, desolata e spezzata, crollò al suolo e si
accasciò sul fogliame.
Se la testa doleva, il cuore stava ancora peggio. E non c’era ragione di autoconvincersi che tutto sarebbe andato per il meglio:
perché, su qualunque cose tentasse di concentrarsi, l’unica cosa
che continuava a vedere sotto le sue palpebre era il Dottore. Il Dottore che la
insultava, il Dottore che l’accusava, il Dottore che non esitava a
ferirla.
Clara non fece alcuno sforzo per alzarsi da terra.
Le gote del Dottore non erano mai state così in fiamme.
S’era sentito cadere. Tutto qua. I minuti passavano: dieci, venti,
trenta. Eppure lui era lì, sul fango, senza alcun desiderio di rialzarsi
da terra. Piangere era il suo nuovo unico desiderio e mai nessuno aveva
ascoltato i suoi singhiozzi con tanto interesse quanto il fango che lo
infradiciava ed intorpidiva.
S’alzò da terra solo quando, capendo davvero grazie all’imbrunire
che ore si fossero fatte, realizzò quanto tempo fosse passato.
Puntellando i gomiti e gemendo s’alzò in piedi, non badando al suo
aspetto devastato e continuando per la sua via. Il bosco era cupo e ombroso, d’un
freddo disarmante, fosco. Barcollò, appigliandosi ai rami sporgenti che
trovava sul suo cammino, ma la preoccupazione s’era fatta troppo intensa
per badare ai tagli che i rovi gli procuravano sugli avambracci nudi. Clara, Clara, Clara, chiamava
mentalmente, percorrendo il sentiero, ma lei non c’era. E,volendo
scoppiare di nuovo in lacrime dopo l’immenso sforzo di placare i suoi stessi
singhiozzi, iniziò a chiedersi se davvero lei se ne fosse andata per
sempre.
Crollò al solo pensiero.
Si ritrovò di nuovo a piangere, frustrato, maledicendo sé stesso.
Era uno schifo totale, un mostro, uno scarto della natura. Forse era ora che
anche l’ultimo Signore del Tempo si dileguasse dalla terra. Forse era ora
che la facesse finita.
E, benché la sua mente desiderasse solo di spegnersi e di mandare all’aria
tutto, il suo cuore aveva ben altri piani. «Clara», iniziò a
sussurrare fra le lacrime, mischiando l’acqua salata alle gocce di
pioggia che già gli rigavano il viso. «Clara, Clara, Clara».
E lo stramaledettissimo sentiero avrebbe potuto anche andare a farsi benedire.
Non c’era più la rabbia, non c’era più l’orgoglio,
non c’era più l’onore. Rimaneva solo l’odio per
sé stessi e il rimorso che gli attanagliava le vene e lo faceva
barcollare. «Clara!», iniziò a chiamare, sempre più
forte.
E se se ne fosse andata da lui?
E se fosse stata ferita?
E se fosse morta?
«CLARA!».
Clara si svegliò con l’odore familiare di qualcosa di dolce.
«Dottore», tentava disperatamente di pronunciare, ma dalle sue
labbra fuoriuscivano solo sibili e mugolii. Faticava a respirare, a tenere gli
occhi aperti, a pensare. Ma, nonostante tutto, si sentì protetta.
«Mi dispiace», sentì singhiozzare al suo orecchio, e
sentì il suo cuore sciogliersi. Perché non c’era parola,
né ricordo, né incubo che potesse permetterle di odiare un uomo
che sussurrava con così tanta dolcezza le sue scuse dentro al suo
orecchio. «Mi dispiace così tanto». Qualcosa la avvolse,
stretta, e il profumo di miele e sole si fece più vicino. Tirò su
col naso, stringendosi nel tessuto morbido e familiare della giacca di tweed avvolta
attorno alle sue spalle. Sì senti sollevare e stringere forte tanto
quanto mai nessuno l’aveva stretta; faticava a respirare, sì, ma non importava. Voleva solo
essere abbracciata da lui tanto forte da essere fusa in un tutt’uno con
lui. E voleva dormire, solo dormire fra le sue braccia. Ma lui continuava a
scusarsi per crimini non commessi e parole non volute, e lei voleva piangere
così tanto…
«Dott…», sussurrò a
stento, e sfregò la punta
del naso contro la sua camicia bagnata.
«Sono qui». La sua voce, seppur addolorata e colpevole,
risuonò nelle sue orecchie stanche come un coro di campanelli d’argento.
E il dolore e le lacrime erano scomparse dai suoi occhi: la sua voce era
bastata a placarla, il suo respiro l’aveva cullata come una ninna nanna. Stretta
nel suo abbraccio caldo seppur fradicio, aveva avvinghiato il tessuto della sua
camicia, appendendovisi come avrebbe fatto ad un ancora di salvezza. «Va
tutto bene», sussurrò, desiderosa di tranquillizzarlo.
Ma lui fraintese.
«Sì, va tutto bene», ripeté il Dottore, appoggiandosi
alla porta della TARDIS per aprirla senza sballottare Clara fra le sue braccia.
Lei chiuse gli occhi e, dopo qualche secondo, si sentì appoggiare su
qualcosa di morbido. «No», sussurrò poi, e cercò con
lo sguardo di incontrare le sue iridi perfette. Ci riuscì. In quel
momento decise di non volerle lasciare andare mai più. «Va tutto
bene per davvero».
Ma i suoi occhi erano troppo stanchi per rimanere aperti e Clara cedette al
sonno. L’ultima cosa che sentì prima di cadere nelle braccia di
Morfeo furono le sue mani calde sulla sua, fredda e umida.
«Sì», mormorò il Dottore, prendendo dalla sua tasca
qualcosa trovato nel prato poco prima.
«Ora va davvero tutto bene». E rimise al suo posto l’anello
di Ellie Oswald.
NdA
È mezzanotte e io pubblico questa whouffle
random e abbastanza triste. Non l’ho riletta e
mi dispiace un sacco per eventuali errori di battitura/frasi pesanti/personaggi
OOC. Mea culpa, non l’ho autobetata.
:c
Spero comunque che la storia piaccia a qualcuno, anche se non credo
succederà, in quanto non ha nemmeno un gran senso.
E non preoccupatevi, lettori di “Come Scommettere Con Il Dottore E Riuscire
Comunque A Sopravvivere”! Aggiornerò presto. C:
A presto e grazie di tutto!
WJ