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Autore: ermete    25/06/2013    20 recensioni
"Fu il turno dell’ex soldato di ridere “Il gioco non è finito.” mutò poi espressione, tornando serio. Fin troppo serio per quello che aveva definito un gioco “Catene.”
Sherlock registrò il cambio di espressione dell’uomo, ma non seppe attribuirvi la motivazione. L’uomo del mistero lo aveva stupito ancora “Catene?”
L’ex medico militare non attese la spiegazione dell’indizio, fornendo subito il successivo in un crescendo di impazienza e aspettativa “Sbarre.”
Sherlock era decisamente confuso “Ora stai dicendo parole a caso.”
“Specchi.” fu la risposta sempre più atona dell’uomo."

AU in cui John torna dalla guerra e, semplicemente, non è più lo stesso
Hurt/Comfort a palate e leggermente Noir
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La vostra anima è il vostro specchio: è tutta voi



Durò tutto pochissimi secondi: evitò il DVD, vide le foto, osservò il volto di Douglas, lesse le parole sottolineate con l'evidenziatore e l'unica che cosa che riuscì a fare fu urlare il nome di Sherlock con tutta l'aria che aveva nei polmoni.

 

Sherlock era sdraiato sul proprio letto in posizione supina. Dopo aver messo a ferro e fuoco l'appartamento, infatti, si era messo a rimuginare sull'ultimo incontro avuto col notturno: provava un senso di malessere a riguardo, come se qualcosa gli fosse sfuggito tra le mani in maniera così banale da rasentare la stupidità. Anche l'intuizione avuta solo dopo dieci mesi vissuti assieme lo faceva imbestialire: come aveva potuto non capire perché sia il diurno che il notturno evitavano  sistematicamente il suo sguardo? Inoltre, ancor peggio, nonostante quella stessa intuizione, mancava ancora qualcosa a completare il quadro: cosa aveva scatenato quella paura? Cosa era successo a Maiwand? Come era scattato il tutto? E, non di meno, il pensiero ormai consolidato nella sua mente che quello fosse stato il suo ultimo incontro col notturno gli aveva messo addosso quella malinconia e quella rabbia colpevoli di avergli fatto scatenare il finimondo nell'appartamento che divideva con John.

Fu proprio John a ridestarlo da quello stato di torpore e inerzia con un urlo che squarciò il silenzio del 221B: spalancò gli occhi allarmato e nel giro di pochi secondi valutò l'importanza di quel richiamo. John non lo stava chiamando per lamentarsi della confusione che aveva disseminato per casa, no. Quello di John era un grido disperato. Che fosse in pericolo? Un altro imitatore? Un nuovo criminale che era addirittura arrivato a introdursi nel loro appartamento per sfidarli?

Si alzò di corsa e piombò nel soggiorno in un battito di ciglia, ma così come si era mosso in fretta, si raggelò sul posto in un attimo.

Vide John, a terra, col fascicolo e le foto nelle mani, il respiro affannoso e gli occhi così spalancati da far tremare le palpebre, la bocca aperta alla disperata e istintiva ricerca di quell'aria che sembrava essere sparita dalla stanza.

“John...” Sherlock fece fatica a sillabare il nome del dottore, così come stentò a ritrovare la facoltà di movimento: mosse i passi che lo dividevano dall'altro con una lentezza inesorabile, incurante di calpestare i libri caduti durante tutto quel trambusto “John, io...”

“Stress post traumatico.” iniziò John, alternando lo sguardo tra due particolari foto e il foglio del fascicolo riguardante la propria perizia psichiatrica “Dissociazione psichica.” pronunciò ad alta voce: osservò il volto di Douglas McKnight sulla carta fotografica prima di tornare a leggere “Probabile disturbo da personalità multipla.” sottolineò con un tono aspro e adirato, quindi si concentrò sull'altra foto.

Era una foto di gruppo, notò Sherlock: erano otto soldati, metà dei quali accucciati davanti agli altri quattro in piedi sullo sfondo del deserto afghano. Erano sorridenti, urlavano la loro unione e la loro amicizia con ogni fibra del proprio essere: dalle braccia intrecciate tra loro, i sorrisi e gli sguardi fieri e fiduciosi. Poi c'era la foto che ritraeva esclusivamente Douglas: era vestito con la divisa da cerimonia, viso e postura orientati a tre quarti rispetto all'obbiettivo, cappellino in testa e sorriso raggiante. Sherlock provò la spiacevole sensazione del rimorso: si pentiva di non aver detto nulla a John, di non aver svelato nessuno di quegli scomodi segreti di cui era a conoscenza, di aver procrastinato e rimandato quel momento per paura e per mero egoismo. Non sapeva cosa dire, quindi lasciò inevitabilmente che fosse John a continuare a parlare per entrambi.

“Il fascicolo della battaglia di Maiwand.” pronunciò l'ex medico militare: scandì quelle parole meglio che poté mentre si rigirava la cartellina tra le mani. Non aveva ancora alzato lo sguardo verso Sherlock che, sentì, si era avvicinato lentamente fino ad accucciarglisi accanto “Te l'avrà procurato Mycroft, immagino. Chissà da quanto tempo è in tuo possesso. Chissà da quanto tempo tu sai tutto.”

Sherlock deglutì alla ricerca di ulteriore saliva, ma la bocca sembrava essergli diventata più arida del deserto afghano. Continuava a cercare delle parole che insistevano a non sovvenirgli: d'altronde cosa avrebbe potuto dire? Giustificazioni? Scuse? O avrebbe provato a ribaltare la frittata come era solito fare? Alzò la mano destra per posarla sulla spalla sinistra di John, ma non appena lo sfiorò l'altro si mosse.

John non riuscì a fare altro se non lanciargli addosso la cartellina, osservandolo duramente attraverso i fogli e le foto che svolazzavano tra di loro. Lo spinse poi all'altezza delle spalle ed indietreggiò fino a trovare l'appoggio necessario per alzarsi in piedi e allontanarsi da lui. Ringhiava sommessamente, lasciando fuggire di tanto in tanto qualche gridolino acuto smorzato solo dalla costante mancanza d'aria: alzò le mani sulle proprie tempie e continuò a muoversi per il soggiorno, incurante di scontrare il mobilio in cui incappava.

“John!” urlò Sherlock che, dopo essersi alzato, tentava di seguire i passi dell'ex medico militare “John, ti prego! Lascia che ti spieghi.”

“Spiegare cosa?” proruppe John allargando le braccia verso l'esterno: si era fermato accanto al tavolo del soggiorno e l'impulso di lanciare contro il muro tutti gli oggetti presenti su di esso era battuto solo dalla voglia di prendere Sherlock a pugni “Che mi hai ingannato per tutto questo tempo?”

“Non ti ho ingannato, John.” Sherlock avanzò verso l'altro ma si fermò quando vide che ad passo in avanti ne corrispondeva uno indietro da parte dell'ex medico militare “Ho solo...”

“Omesso delle informazioni?” lo interruppe John, sarcastico “Davvero? Davvero pensi di cavartela così?”

Sherlock detestava ricevere quel tipo di trattamento, ma non poteva certamente biasimare John in quel frangente: allargò a sua volta le braccia verso l'esterno in segno di resa e ammissione “Stavo per dire che stavo solo attendendo il momento giusto per dirtelo.”

John ringhiò continuando a liberare quella rabbia che era stata imprigionata da tempo “E quale sarebbe stato il momento giusto, Sherlock?”

Sherlock sospirò: sapeva che qualsiasi giustificazione avesse apportato in quel momento non sarebbe stata sufficiente a placare la furia e lo sconcerto di John, ma non poteva fare altro che rispondere alle sue domande “Che tu fossi pronto.”

“Pronto?” ripeté John, alzando irrimediabilmente la voce “Non hai mai pensato che svelandomi la verità sarei potuto guarire prima?”

Sherlock mosse un quasi impercettibile passo verso John “E se fossi peggiorato?”

John era troppo impegnato a combattere due battaglie per accorgersi del lento avvicinamento dell'altro: se da un lato assaliva Sherlock verbalmente, dall'altro provava a sfondare i muri che proteggevano i suoi preziosi ma terribili ricordi alla ricerca della verità “Peggiorato?” domandò dunque, la voce carica di sprezzante ironia “Peggio di così?”

Arrivato ad un metro da John, Sherlock alzò lentamente la mano destra verso di lui “Non stai male ora...” tentò, ma nello stesso momento in cui pronunciava quelle parole, sapeva che non avrebbe fatto breccia nelle difese rinnovate e caricate di rabbia dell'altro “...ti mancavano solo i ricordi della guerra.”

“Non puoi essere serio.” John, infatti, scrollò il capo incredulo e persino oltraggiato “Non puoi davvero essere serio.”

Anche Sherlock scrollò il capo, ma per altre ragioni “John...” sussurrò, la mano ancora tesa verso di lui.

“La dissociazione, Sherlock!” scoppiò John che, dopo aver schiaffeggiato la mano di Sherlock, gli si avvicinò abbastanza da battergli l'indice della mancina al centro del petto “Per mesi ho vissuto convinto che fossero dei sogni!” nella voce non c'era solo rabbia, ma anche tristezza, smarrimento ed un profonda delusione, ma non solo nei riguardi di Sherlock verso il quale, tuttavia, continuò a sfogarsi “E tu lo sapevi che non ero io, dannazione!”

Sherlock continuò a scuotere il capo, provando ad infilarsi nello sfogo di John con parole e con le mani con le quali provò a catturarlo nella propria presa “Tu non...”

John lo interruppe nuovamente: ormai gli argini si erano rotti e tutte le emozioni più forti fluivano da lui come un fiume in piena “Io mi sono fidato di te! Ciecamente!” sottolineò senza dargli alcun spazio per un replica “Mentre tu facevi buon viso a cattivo gioco! Tu e... e...” esitò qualche istante prima di esplodere nell'evidenziare il grande più dolore, il suo maggiore cruccio “...la mia seconda personalità!”

Sherlock continuò a negare col capo come se fosse entrato in un loop infinito, ma finalmente riuscì anche a parlare “Non è una seconda personalità!” pronunciò a voce abbastanza alta da farsi udire in mezzo all'incessante fiume di parole di John.

John si fermò qualche istante e sebbene non lesse menzogna negli occhi di Sherlock, gli risultò molto difficile credere alle sue parole “No? E cosa sarebbe?” domandò ironico prima di spingerlo all'altezza dei pettorali e allontanarlo da sé “Dimmi, Sherlock, cosa sarebbe quella cosa con cui tu passavi le tue notti? Tra abbracci, sfregamenti e aggressioni?” mentre per le prime due parole il tono si era alzato, sintomo di rabbia, per l'ultima si abbassò, sintomo di vergogna e pentimento “Io ti ho aggredito, Sherlock! Come hai potuto fingere che non fosse successo niente per tutto questo tempo?”

Sherlock si morse l'interno della guancia di fronte all'evidenza oggettiva che John stesse via via collegando molti dei pezzi di quel complicato puzzle che era la sua intera persona. E se da una parte era contento, dall'altra si ritrovò di fronte al lato più spiacevole della situazione: l'imbarazzo dei momenti sensuali vissuti col notturno, il senso di colpa per le cose non dette, la costante paura di perderlo. Ma non poteva trattenere oltre quelle informazioni, non ora che il vaso di Pandora era stato aperto “Non è una seconda personalità.”

John spalancò gli occhi e la bocca: provò all'improvviso una sensazione di disagio di fronte alle proprie certezze che andavano via via sbriciolandosi “Dimmi cos'è, allora.” John era un dottore e pur non essendo un esperto di psichiatria conosceva la spiacevole alternativa che lo fece tremare improvvisamente “Vorresti dirmi che è lui la vera personalità ed io sarei quella fittizia?”

Sherlock inspirò a lungo, conscio che, una volta eliminata quell'opzione, la realtà sarebbe stata comunque spiacevole: qualsiasi essere umano ha come unica certezza la propria identità personale, quel qualcosa che per molto tempo si fatica a trovare e consolidare. E ora avrebbe dovuto negare quella certezza all'uomo di cui gli importava di più al mondo e capì che sarebbe stato doloroso come se quella particolare patologia lo avesse riguardato in prima persona “No...”

John assottigliò lo sguardo su Sherlock, tanto sicuro che non gli stesse mentendo quanto che fosse a conoscenza della verità “Dimmi cos'è, allora.”

“Nessuna delle due è la vera personalità.” sussurrò Sherlock, che nel silenzio del 221B risultò quanto mai udibile.

“Cosa?” domandò John istintivamente, ma la spiegazione a quella stessa domanda era già stata proiettata nel suo modesto ma efficiente Garage Mentale che gli presentò l'unica altra opzione possibile suggeritagli da quelle poche righe lette all'interno del fascicolo. Dissociazione psichica: scomoda e raccapricciante verità.

Sherlock si mosse rapidamente verso l'altro, provando a catturargli le spalle nella propria presa “John.”

Tuttavia, John si mosse in tempo per sfuggirgli da sotto le mani “Non mi toccare.” digrignò i denti e sbottò sarcastico “Non sono reale, d'altronde.”

Sherlock mugolò una lunga nota nasale, ma si trattenne dal commentare con ironia l'uscita sarcastica dell'altro “John, ti prego.” lo seguì nuovamente seppur cauto nei movimenti: era convinto che se fosse riuscito a imprimergli nella mente l'impronta fisica di un abbraccio non si sarebbe mai dimenticato di lui e, magari, lo avrebbe anche perdonato. Lo sentiva lontano pur stando nella stessa stanza con lui e la sensazione era terribilmente soffocante. Si sentiva perso: era uno di quei momenti in cui non si sarebbe sentito al sicuro in nessun dove e in nessun tempo, se non qui e ora, tra le braccia dell'uomo che in quel momento lo stava rifiutando “Ti prego, lascia che ti spieghi.”

“No.” John continuò a negarsi, arrabbiato per la propria condizione e per l'egoismo di Sherlock: non voleva un abbraccio, non voleva vederlo, non voleva nulla se non il paradossale desiderio di comprendere e al contempo fuggire da un mondo al quale sentiva di non appartenere.

Sherlock poteva capire e addirittura comprendere lo stato d'animo di John, ma non voleva accettare il fatto che lo escludesse. Continuò ad avanzare, dunque, lentamente “Se hai ricordato qualcosa, allora capirai che...”

“Non ho ricordato niente.” lo interruppe John, sempre più frustrato. Aveva letto velocemente il fascicolo, aveva visto i volti dei suoi vecchi compagni e appreso dolorosamente di essere l'unico sopravvissuto della battaglia di Maiwand, ma non si era ancora aperto il lucchetto del forziere che custodiva i suoi ricordi.

A quel punto Sherlock si bloccò e vide che, di rimando, si fermò anche John, ad un metro da lui “Non è possibile.”

“Sì che lo è.” stette in silenzio qualche istante, giusto il tempo di ricordare un dettaglio del proprio presente “Lui...” aggrottò le sopracciglia e riportò lo sguardo su Sherlock “...l'altro lo sapeva. E parlavate alle mie spalle.”

Sherlock scosse il capo e sentì un accenno d'ansia crescergli dentro “Non parlerei mai alle tue spalle.”

“Ma parlavate di me.” sottolineò John che, nonostante la rabbia provata al pensiero della presunta relazione di Sherlock con il suo alter ego notturno, desiderava apprendere quanto più avesse potuto dalla persona che, evidentemente, lo conosceva meglio.

“Sì.” ammise Sherlock, sforzandosi di mantenere un tono di voce rassicurante “Lui è la parte del vero John più predisposta all'adrenalina, all'aggressività e... alla malizia.” parlò lentamente anche per trovare il tempo necessario per usare le parole giuste per affrontare quel particolare e delicato discorso “Tu sei l'opposto. Ma con il tempo sei guarito e sei sempre più vicino a...”

John fermò Sherlock, sempre più sconcertato “Aspetta un momento. Il 'vero' John?” domandò non senza una punta di incredulità “Tu conosci...?”

Sherlock si rese conto troppo tardi di aver tirato in ballo il vero John con troppa leggerezza “Il DVD. Ci sono dei video-log registrati durante il tuo servizio.” era troppo tardi per ritirare la propria dichiarazione, quindi confermò tutto con un lieve cenno del capo “Ho visto il vero John.”

John si liberò in un sorriso tirato e sarcastico “Mpf. Ironico.” scrollò il capo prima di affrontare nuovamente lo sguardo dell'altro “Tu conosci ben tre John, ma io non conosco neanche uno Sherlock.”

Sherlock si mosse velocemente e, cogliendolo di sorpresa, riuscì a posare le mani sulle spalle di John e rimanergli vicino “John, cosa stai dicendo? Io sono Sherlock, io sono sempre stato vero con te.”

John rise sprezzante “Vero? Tu saresti stato vero con me?” non si allontanò subito, approfittandone per sfidarlo con lo sguardo “Sincero?”

Colpito e affondato “Io...” Sherlock capì in un istante il significato delle ricorrenti parole di Mycroft, il suo motto 'Caring is not an advantage' perché si ritrovò in evidente difficoltà di fronte a John, alle sue reazioni e a tutto ciò che ne derivava, cause ed effetti, timori e certezze. Ma scoprì anche il più complesso e vigoroso concetto di battersi per qualcuno di così importante da mettere in gioco tutto ciò su cui è basata la propria esistenza. Fu per quel motivo che non esitò a confessare la motivazione antistante la propria strategia, le bugie, gli inganni “John, avevo paura di perderti.”

John conosceva abbastanza Sherlock da ammettere quanto il consulente investigativo fosse cambiato in quei dieci mesi di convivenza. Sherlock lo aveva sempre posto su un piedistallo, lo aveva sempre trattato con maggior riguardo rispetto a tutte le altre persone con le quali interagivano ed era sicuro che lo avesse fatto perché provava per lui dei sentimenti che gli erano sempre sembrati sinceri. E anche lo stesso John sapeva di provare per Sherlock un sentimento molto simile all'amore: simile, ma non uguale. Gli era sempre mancato qualcosa, quello stimolo necessario a lasciarlo andare completamente, quella voce della coscienza che lo aveva fermato dall'andare fino in fondo. Mancava qualcosa, quel qualcosa. E John non poté che attribuire quella sensazione ad una sorta di istinto che lo avesse avvertito della non completa sincerità di Sherlock nei suoi confronti. Ma era stato veramente l'istinto? O l'altro John? O magari il vero John? Non rispose a Sherlock, troppo impegnato a veder crollare le proprie certezze come un castello di sabbia, ma ci pensò l'altro a distoglierlo dai propri pensieri.

“Pensaci.” lo esortò Sherlock, scrollandolo un poco all'altezza delle spalle “Come avresti reagito mesi fa, impaurito com'eri, se ti avessi detto che soffrivi di una dissociazione psichica?”

John si morse l'interno delle guance, risvegliandosi col dolore fisico dalle proprie altrettanto tormentose elucubrazioni “Non parlo di mesi fa, Sherlock e tu lo sai.” si scrollò le sue mani dalle spalle, ma non per allontanarsi: lo accusò puntandogli ripetutamente la punta dell'indice al centro del petto “Te l'ho chiesto ancora la settimana scorsa se mi stessi nascondendo qualcosa e tu mi hai detto no. Mi hai guardato negli occhi e mi hai detto di no. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Dopo che noi...” abbassò il tono di voce, come se stesse confessando un segreto così importante da non poter condividere neanche con le suppellettili circostanti “Dopo che mi hai guardato in quel modo, dopo avermi baciato, dopo averti confessato che provavo qualcosa per te.”

Sherlock mugolò frustrato, ma non si allontanò da John che, invece, provò a cingere all'altezza dei fianchi “John, anche io provo qualcosa per te! Lo sai! Non te l'ho forse dimostrato?”

“Certo!” sbottò John allontanandosi da Sherlock per fuggire alla sua presa “Amando me di giorno e l'altro di notte.” ringhiò letteralmente, palesando anche una consistente gelosia tra la vasta gamma di emozioni che, dopo molti mesi di quiete, stava finalmente sfogando “Due persone in un colpo solo, Sherlock, complimenti. Un gran miglioramento per uno che si definisce privo di sentimenti ed emozioni.”

Sherlock scrollò il capo e non rinunciò a seguirlo in cerca di un contatto che sentiva mancargli quanto l'ossigeno “Non farmi questo, ora. Non è giusto.”

John si fermò di fronte alle scale che portavano alla propria camera da letto: si voltò e non si stupì di trovare Sherlock ad un passo da sé “Tante cose non sono giuste, eppure sono state fatte.”

Sherlock glissò sull'ultima affermazione di John, quindi alternò lo sguardo tra lui e la rampa di scale  “Dove vai?”

“A dormire, Sherlock. Nella mia stanza.” sottolineò, dato che negli ultimi giorni era capitato spesso che avessero dormito assieme “Vorresti venire anche tu?”

Sherlock sapeva di trovarsi di fronte ad una domanda a trabocchetto, quindi evitò di rispondere. Trovò tuttavia doloroso che John giocasse coi suoi sentimenti. Giustificato, ma doloroso “John...”

John non avrebbe voluto infierire, non di fronte ad uno Sherlock così provato, ma sentiva la stessa forza istintiva di prima premergli da dietro la nuca e spingerlo. Non ad odiare Sherlock, ma a provare rancore verso di lui, a litigarci, ad allontanarsi da lui. Così fu con un sorriso sardonico che gli si rivolse “Ci tieni così tanto a vedere l'altro?”

Sherlock spalancò gli occhi e bloccò i propri movimenti, raggelato dalla domanda di John “Ti prego.”

“Lo ami?” infierì John, combattuto tra la gelosia, la brama di apprendere la verità e quell'impulso istintivo che non riusciva a controllare.

Sherlock si chinò lentamente allacciando le braccia attorno al busto di John sul quale appoggiò la guancia destra “John, ti prego.”

John rimase in silenzio qualche istante e combatté contro l'impulso di abbracciargli le spalle: sospirò, invece, cercando il suo viso sepolto nel maglione per prendergli il mento ed alzare il volto verso di sé “Chi ami? Lui o me?”

“Io amo John.” rispose Sherlock, dando la risposta più neutrale e sincera possibile “Amo tutto di John.” accentuò la stretta attorno all'addome dell'ex medico militare: non voleva lasciarlo andare. Non voleva, non voleva, non voleva. Ma sapeva che le proprie parole erano rischiose: la sincerità pagherà anche, ma la verità può fare ancor più male “E tu sei parte di John.”

John sospirò nuovamente: era una risposta sincera, certo, ma che lo escludeva almeno in parte da quella complessa equazione formata da molte incognite e ben poche cifre certe “Quindi se la psiche di John si fosse scissa in dieci personalità diverse, tu ameresti tutte e dieci?”

Sherlock ponderò sull'ironico fatto che se il clima di quella conversazione non fosse stato così teso, quella sarebbe potuta essere la più grande dichiarazione d'amore che sarebbe mai stato in grado di creare. Lui, che amava John in ogni sua sfaccettatura. Se John gli avesse detto, in un qualsiasi momento, che ama ogni piccola sfumatura del suo essere o  che avrebbe amato dieci Sherlock diversi se tutti avessero fatto parte di un'unica persona, lui sarebbe stato l'uomo più felice del mondo. Ma si rendeva anche conto che quella situazione al limite del paradossale non era lo sfondo adatto per quel tipo di dichiarazione, quindi non poté fare a meno di ripetere quella che per Sherlock era l’unica fondamentale verità “Io... amo tutto di John.”

John chiuse gli occhi prima di riaprirli su quelli di Sherlock. Sospirò, quindi gli accarezzò pesantemente il viso prima di allontanarlo da sé “Non ti azzardare a venire in camera mia.” gli intimò mentre slacciava con non poca fatica la presa di Sherlock dal proprio addome “Non vedrai quell'altro oggi, domani o il giorno dopo ancora.” si voltò per non dover affrontare lo sguardo ferito di Sherlock; d’altronde, ne aveva già molte ferite a cui badare “Non lo vedrai mai più.” sussurrò a denti stretti prima di salire le scale di corsa e chiudere a chiave la porta della propria camera da letto.

A terra, uno Sherlock dolorante per delle ferite non materiali, rinunciò a seguire John. Andò contro la propria indole che un tempo le avrebbe imposto di sfondare la porta a calci e martellare la psiche di John finché non avesse accettato incondizionatamente il suo parere. O, in questo caso, il suo amore. Lottò contro il proprio carattere perché, semplicemente, era cambiato. Ma non per tutti, non per il mondo intero. Solo per la persona per la quale valeva la pena soffrire per quello svantaggio chiamato amore, solo per John. E capì che John aveva bisogno di tempo, così come aveva bisogno di affrontare i propri demoni, il proprio ego frazionato in tre parti. John aveva bisogno di addormentarsi e incontrare le altre due metà di sé in un limbo costruito da neuroni e sinapsi e lottare. Lottare veramente.

Ma era davvero così scontato che sarebbe stato il vero John a vincere? Non più. Non dopo la reazione così prepotentemente volitiva del diurno. E Sherlock? Cosa avrebbe voluto? Cosa avrebbe fatto se il vero John non fosse mai più riemerso dai profondi meandri di quella mente frammentata?

A Sherlock non restava che aspettare che il nuovo giorno arrivasse, portando con sé il tanto agognato vincitore. Bianco come il giorno o nero come la notte? O, se la battaglia fosse stata tanto equa quanto inaspettatamente interessante, rosso come il crepuscolo.

 

Dopo che ebbe chiuso a chiave la porta della camera, John soffocò un urlo contro i propri pugni che congiunse sopra le proprie labbra. Non poteva essere vero. Non aveva veramente ignorato tutti i segnali che gli suggerivano la presenza di un’altra personalità, no, era impossibile. Eppure, come gli aveva insegnato Sherlock, una volta eliminato l’impossibile tutto ciò che rimane deve essere la verità.

Sherlock. Il suo Sherlock. Ora sapeva che i sogni che lo riguardavano non erano semplici fantasie derivate dalla sua attrazione per lui, né tanto meno orribili incubi in cui era arrivato persino a strangolarlo.

“Merda.” John osservò le proprie mani, quelle dita d'acciaio che aveva stretto attorno al collo di Sherlock e sentì un rigurgito inacidirgli la bocca. Tossì violentemente e sbandò all'interno della camera da letto per dei passi che furono fermati solo dall'armadio entro il quale teneva alcuni vestiti e pochi altri effetti personali.

Fu colto da un'intuizione, poi, quando ricordò un libro che si era ben guardato di rileggere durante la propria permanenza nel garage e, poi, proprio lì a Baker Street. Aprì l'anta centrale del mobile e scavò dentro uno scatolone infilato dentro alla bene e meglio, quindi trovò ciò che stava cercando: aprì con curiosità “La macchina del tempo” di Herbert George Wells, il cui segnalibro era niente meno che una foto vecchia di almeno sei anni che lo ritraeva assieme ad un altro soldato. Sullo sfondo del deserto afghano, si innalzavano le due figure sorridenti: John indossava la divisa militare, i bottoni della camicia slacciati alla ricerca di un po' di fresco, il viso abbronzato così come quello del suo commilitone che gli cingeva le spalle con entrambe le braccia nude, così come il resto del torace sul cui fianco destro spiccava il tatuaggio di un folletto irlandese appeso a testa in giù con le ginocchia piegate attorno al ramo di un albero.

A John fuggì un sorriso leggero di fronte all'armonia sprigionata da quelle due figure così vicine eppur così distanti nella memoria: accarezzò un volto che riconosceva solo perché gli apparteneva fisicamente, ma deglutì di fronte alla lampante consapevolezza di non aver ancora alcun ricordo a riguardo. Cosa, a quel punto, avrebbe potuto far scattare il meccanismo dei propri ricordi? Richiuse poi la foto dentro al libro perché all'improvviso gli sovvenne la risposta a quella domanda: sapeva chi avrebbe potuto aiutarlo.

Appoggiò il libro nello scatolone e si voltò verso l'ampia e antica cassettiera in legno scuro corredata di un altrettanto grande specchio coperto rigorosamente e, col senno di poi, ironicamente con la Union Flag che gli avevano donato al congedo dal servizio militare. Essendo sistemato contro la parete opposta della camera, John scavalcò il leggero disordine della stanza per portarsi di fronte al mobile davanti al quale esitò per qualche istante. Sapeva chi avrebbe trovato al di là della bandiera inglese, o meglio, ora che era al corrente dei fatti, conosceva anche l’identità di colui del quale conosceva l’aspetto. Riflesso in quello specchio non avrebbe trovato se stesso e tanto meno il notturno, ma il vero John. Colui che l’aveva sempre spaventato, il riflesso dal quale era sempre fuggito pur non conoscendone il motivo.

Come sapeva che non era il notturno? John aveva potuto conoscere, in qualche modo, il notturno: negli ultimi mesi, quando lui era diventato abbastanza forte da assistere a quelli che credeva essere dei sogni riguardanti nient’altro che se stesso, lo aveva conosciuto. I suoi atteggiamenti, i suoi sorrisi e, più di ogni altra cosa, il suo sguardo: tutto era completamente differente dal mostro che vedeva riflesso in ogni superficie lucida. Tutto, compreso lo sguardo carico d’odio e di vendetta con il quale provava, o meglio, riusciva ad intimorire sia lui che il notturno.

Poi John pensò a Sherlock e fu grazie a lui se trovò il coraggio di osare. Perché era solo grazie a lui se era arrivato al punto di affrontare il suo demone più terribile pur di reagire e decidere che valeva la pena cercare se stesso. Perché se non fosse stato per l’insistenza e per l’affetto di Sherlock, sarebbe ancora in quel garage, sarebbe ancora spaventato e, di certo, non sarebbe stato più in grado di trovare il coraggio per amare qualcuno. Perché amare richiede anche coraggio. Perché amare Sherlock Holmes, inoltre, richiede anche una certa dose di follia che John sapeva di avere, ma che non avrebbe mai scoperto grazie all’uomo contro il quale aveva sfogato la propria rabbia. Rabbia e timore che erano stati ingigantiti dall’evidenza oggettiva dl legame che li univa e che temeva di perdere se lui stesso si fosse smarrito in un nessun dove, come amava chiamarlo Sherlock, a discapito di un’altra sua personalità dominante.

Dunque fu per amore, ma non senza un accenno di paura, che riuscì a trovare il coraggio di afferrare gli angoli superiori della Union Flag e liberare lo specchio di tutto il potere riflettente e metaforico che portava con sé. John strinse la stoffa della bandiera con le nocche sbiancate prima di lasciarla cadere ai propri piedi, quindi alzò lo sguardo.

Trasalì di fronte allo specchio che non stava riflettendo la sua immagine né tanto meno lo sfondo della camera da letto entro la quale si trovava. Trasalì perché si ritrovò di fronte al vero John che lo stava osservando con uno sguardo di sfida, un sorriso strafottente che trasudava sicurezza da tutti i pori nonostante non fosse certamente nella condizione di poterlo fare. Perché non era nella condizione di farlo? Perché era incatenato: le braccia erano alzate verso l'alto e i polsi ammanettati al muro sul quale era appoggiato con la schiena. Di fronte a sé, inoltre, si innalzavano delle sbarre che non sembravano aver fine, né a destra e tanto meno a sinistra. Ma nonostante tutto sorrideva, il vero John, osservando colui che aveva dato vita a quel riflesso e che tremava leggermente di fronte al suo personalissimo mostro.

Nella camera da letto invece, il John diurno deglutì spaventato come se avesse di fronte non il proprio riflesso, ma la creatura più spaventosa che la psiche umana potesse mai immaginare. Ben conscio di cosa avrebbe trovato nel proprio riflesso, non aveva affrontato uno specchio da prima di trasferirsi nel garage, quindi il contraccolpo emotivo ebbe la forza di una potente deflagrazione.

Certamente osservare se stesso dentro ad uno specchio non era come guardare negli occhi di Sherlock abbastanza da vicino da riuscire a intravedere il proprio riflesso nelle sue iridi chiare. Per questo, tranne che per due uniche eccezioni, non aveva baciato Sherlock. Non perché non lo desiderasse, ma perché la paura di affrontare il mostro era superiore a qualsiasi altro impulso. E l'idea di baciare Sherlock provando l'incessante terrore di essere divorato da dentro non avrebbe reso giustizia al piacere che invece avrebbe sempre voluto provare crogiolandosi sulle sue labbra.

Scacciò il pensiero di Sherlock perché aveva bisogno di tutta la concentrazione per affrontare   il vero John: inspirò a lungo ed alzò lo sguardo verso l'uomo incatenato, lo stesso mostro dal quale, ne era certo, partivano gli impulsi che lo spingevano a litigare con Sherlock e lo frenavano dallo spingersi troppo oltre con lo stesso consulente dal punto di vista sentimentale “Bastardo.” sibilò contro quell'uomo che, notò solo in quel momento, era vestito da soldato.

L'altro, il vero John, rise di rimando e mosse le labbra come se stesse pronunciando delle parole che però il diurno non riuscì ad udire. L'uomo incatenato non si scompose tuttavia e continuò a ghignare anche quando i suoi vestiti iniziarono a macchiarsi di sangue.

Il John diurno si tastò istintivamente le parti del corpo che iniziarono a sanguinare alla sua immagine riflessa: la spalla sinistra in particolare, poi il viso e le braccia che si riempirono di tagli. Inorridì come se avesse assistito alla sua stessa morte, continuando a toccarsi le braccia in modo compulsivo e sopprimendo sul nascere le urla straziate che avrebbero attirato l'attenzione del suo coinquilino. D'altronde, confermare a Sherlock l'esistenza della propria già conclamata psicosi era totalmente fuori discussione.

Ma se John avesse pensato che quello sarebbe stato il peggio, si sbagliava di grosso.

“Ehi, finto John.”

Il John diurno trasalì quando riuscì a sentire una voce identica alla propria chiamarlo con disprezzo misto a sarcasmo: alzò lo sguardo verso lo specchio ed impallidì di fronte a ciò a cui assistette.

Il vero John ringhiò potente e strappò le catene che gli legavano i polsi con una facilità disarmante.

“È tutto nella mia testa.” ripeté il diurno più volte, come se quella verità potesse indorare la pillola.

“No. È nella mia di testa.” ribatté il vero John che si staccò dal muro ed iniziò a farglisi incontro “Bastardo. Mi riprenderò il mio corpo.”

John ammutolì, letteralmente. E si immobilizzò, tanto che non riuscì a fuggire dal riflesso che lo aveva imprigionato tanto quanto stava liberando il vero John. Lo vide incedere verso di sé e quando pensava di essere sicuro, giacché l'altro aveva ancora l'ostacolo delle sbarre da superare, si dovette ricredere.

“L'altro l'ho già fatto mio, ora tocca a te, mezza sega.” lo provocò il vero John che, una volta trovatosi davanti alle sbarre, le piegò senza alcun problema per potervici passare attraverso. E incedette, camminò ancora fino a che a al diurno non parve di vedere il suo braccio sinistro insanguinato tentare di ghermirlo al centro del petto.

Fu a quel punto che il diurno balzò all'indietro cadendo irrimediabilmente sul letto: svenne per lo shock, immergendosi in vividi e angoscianti sogni che iniziarono a narrargli i ricordi sepolti in un angolo buio della sua psiche.

 

°oOo°

 

Sherlock rimase per buona parte della notte seduto davanti alle scale, controllando che John non avesse incubi e, ancor più importante, che non facesse fagotto e abbandonasse il 221B di Baker Street.

‘Che cosa ho fatto?’

Aveva tirato quella faccenda per le lunghe e alla fine John aveva scoperto da sé la mole di segreti che lo riguardavano e di cui era a conoscenza a suo discapito. E ora, ovviamente, John era furibondo con lui. Non poteva certamente biasimarlo, ma non per questo riuscì a sentirsi meglio. L'unica cosa che lo faceva sentire meglio, era la consapevolezza che, molto probabilmente, tutti i suoi ricordi sarebbero emersi: nonostante ciò che aveva detto John, infatti, trovò plausibile pensare che i meccanismi di difesa innalzati dall'ex medico militare erano ormai sul punto di infrangersi e rivelare al proprietario di quel corpo la vera storia che lo riguardava. L'ultimo John con cui aveva avuto a che fare, inoltre, non era altro che una pallida reminescenza dell'essere spaventato conosciuto mesi prima: durante la lite, infatti, poté riconoscere lo sguardo acceso di un uomo dotato di tutte le emozioni e fu persuaso di credere che colui col quale si era scontrato quella sera altri non era che una copia molto somigliante del vero John. Quindi Sherlock si sentiva, oltre che in apprensione per un nuovo confronto col diurno, anche in trepidante attesa di conoscere il vero John. Colui che aveva cercato in lungo e in largo nei video-log contenuti nel DVD consegnatogli da Mycroft. Colui che cercava nello sguardo di John, se solo non fosse sempre stato così spaventato da negargli un'eccessiva vicinanza, ma che gli pareva comunque di trovare in qualche sporadico e rapidissimo istante quando il diurno era troppo assorto nei propri pensieri da risultare completamente lucido o presente.

Sherlock rimase in un limbo decisionale per molto tempo, soprattutto quando gli parve di sentire dei rumori provenienti dalla camera di John: era molto tentato di alzarsi per andare a sincerarsi delle sue condizioni, ma sapeva che in quel momento sarebbe stato meglio lasciare all'ex medico militare il tempo di metabolizzare l'enorme quantità di informazioni che lo aveva chiaramente sconvolto.

E pensare che Sherlock avrebbe solo voluto abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe stato il faro nel buio della sua psiche in modo che non si potesse perdere qualunque fosse stato il verdetto finale, che avrebbe legato le loro anime in una sola per poter essere una, due, tre, quattro persone unite nello stesso nucleo amalgamato da nient'altro che dall'amore che li legava.

Si alzò dal pavimento quando non udì più alcun rumore provenire dal piano di sopra e, per la prima volta in vita sua, sentì il bisogno di mettere in ordine il caos all'interno di quella stanza, come se in quel modo avesse potuto rimediare ai propri errori. Si concentrò in particolare sulla libreria, sulla quale riordinò i volumi caduti a terra: lasciò per ultimo il fascicolo di Maiwand davanti al quale si inginocchiò e che raccolse sulle proprie gambe. Osservò le fotografie che si era sempre premurato di evitare, studiando per la prima volta il volto di Douglas: non poté fare a meno di elencare i molti particolari che li differenziavano. A quel punto, domandarsi se sarebbe piaciuto anche al vero John fu il dilemma successivo che il suo incredibile cervello gli propose e che preferì scartare vigliaccamente analizzando le altre foto. Non diede molta importanza a quella di gruppo, focalizzandosi invece su una delle tante che inquadravano solo ed esclusivamente John: sospirò avvicinandone una al viso, opacizzandola con il suo stesso fiato che scaldava il viso del soldato impresso sulla carta. Quando poi rimise tutte le foto a posto, lo sguardo gli cadde sul DVD: gli mancava l'ultimo video-log della lunga serie con il quale aveva imparato a conoscere il vero John. Decise di guardarlo perché era incredibile, impossibile, oltremodo irrazionale che gli mancasse John, eppure era così. Erano passate solo poche ore dal loro ultimo incontro, avevano litigato, si sentiva bistrattato da lui, eppure non poteva farne a meno. Accese il computer portatile e, dopo aver dato un'occhiata in direzione della camera di John, aprì il file dell'ultimo video-log.

 

Quando il filmato parte, l'inquadratura della videocamera è posizionata su due paia di anfibi neri e nel momento in cui si attiva anche l'audio si possono udire due diverse risate come sottofondo sonoro. Poi una delle due paia di piedi presenti nell'inquadratura si muove in avanti e sistema l'apparecchio in modo che l'obbiettivo registri l'immagine dei protagonisti del video alla giusta altezza: seduto sul solito sgabello, infatti, è ora visibile John sulle cui gambe è a sua volta adagiato un sorridente Douglas che ha il braccio destro appoggiato morbidamente sulle spalle del commilitone. È Douglas il primo a parlare.

“Visto che sono riuscito a strappare a Johnny la confessione che in questi video-log lui parla spesso di me, questa volta parteciperò anche io! Buongiorno, sono il tenente Douglas Osbourne McKnight e sono il miglior amico, nonché amante del Capitano John Hamish Watson.”

John tappa la bocca di Douglas ed entrambi scoppiano a ridere, ma prima che il capitano possa correggerlo, il tenente si libera e riprende a parlare.

“Non capisco come Johnny possa passare dall'essere chiamato 'Watson tre continenti' a 'frocetto' nel giro di mezzo minuto! Uomini, donne e se non stiamo attenti si farebbe pure qualche animaletto!”

A quel punto John schiaffeggia la nuca di Douglas e minaccia di farlo cadere a terra allungando le gambe in una pedana improvvisata, ma il tenente stringe le braccia attorno al collo del capitano e si salva dal pavimento. Tuttavia, John ne approfitta per tappare la bocca di Douglas in maniera più consistente.

“Bene, ora sono diventato tombeur de femme, frocetto e pure zoofilo. Gli psichiatri avranno molto su cui lavorare al mio ritorno in patria.”

Douglas protesta e riesce a pronunciare una parola che John riesce ad udire solo perché si trova a stretto contatto con lui.

“Oh, sì, il nostro ritorno in patria. Tranquillo, Doug, rinchiuderanno anche te.”

Douglas lecca il palmo di John, riuscendo a liberare la propria bocca dalla mano dell'altro che, nel frattempo, si pulisce teatralmente schifato sulla sua maglietta.

“Basta che ci rinchiudano assieme, amore mio.”

John scontra la fronte di Douglas abbastanza forte da farlo piegare per il dolore e da zittirlo per qualche istante.

“Dicevamo, sì. Douglas ha insistito per assistere all'ultimo video-log. Ultimo? Ebbene sì, oggi affronteremo l'ultima missione e poi torneremo a casa...”

John viene brutalmente interrotto da un pugno che Douglas gli assesta all'altezza dello stomaco.

“Johnny! Non si dice che è l'ultima missione! Porta male! Maledetti te, i leprocauni e tutti i folletti a pecorina! Se oggi ci ammazzano sarà tutta colpa tua!”

John non fa in tempo a riprendersi dal pugno, che il suo stomaco riprende a ballare grazie alle risate scatenate dalla pittoresca imprecazione di Douglas.

“I folletti a pecorina?! Ma poverini! Ad ogni modo, io non credo a queste superstizioni! Solo voi irlandesi riuscite a tirare fuori queste strane scaramanzie! Ma... cosa fai? Smettila... Doug! Dai, che sei brutto come la fame! Brutto e peloso!”

John ride mentre spinge lontano da sé il viso di Douglas che prova a baciarlo insistentemente e palesemente per finta: le labbra, infatti, sono tese all'infuori e quando il capitano lo blocca all'altezza del mento e della fronte, l'irlandese gli mostra la lingua in un modo che può esser descritto in modi, ma sicuramente non sensuale o romantico. Scherzano come dei veri amici, come se non fossero veramente in un contesto militare, come due adolescenti che non hanno ancora nessun problema da affrontare, come due bambini che giocano alla lotta per il puro gusto di sporcarsi i vestiti per terra. Poi, quando Douglas smette di scherzare, entrambi rilassano i movimenti in una postura affettuosa e fraterna.

“Va bene, facciamo i seri per un momento. Johnny è il fratello che non ho mai avuto, gli voglio un bene dell’anima e farò di tutto per parargli il culo anche in questa nostra missione… che non sarà l’ultima, va bene? Capito, divinità celtiche? Johnny scherzava! Quindi non tiratecela male, eh?”

John sorride di fronte ai diversi gesti scaramantici di Douglas, rituali che si interrompono quando entrambi sentono i propri nomi provenire dall’esterno. Dopo aver urlato di rimando che li avrebbero raggiunti in un istante, John si rivolge nuovamente alla telecamera.

“Bene, vi ho presentato il famoso Douglas. Direi che ne avete avuto abbastanza di lui, quindi non chiedetemi di potarlo con me nelle future sedute psicoanalitiche, se ci saranno, perché non ho alcuna intenzione di farlo. Insomma lo vedete com’è. È intrasportabile.”

John scuote il capo divertito e Douglas si sente in dovere di aggiungere qualcosa.

“Sì, insomma, se proprio vorrete vederci insieme sarà per delle terapie di coppia.”

John fa alzare Douglas alla svelta, schiaffeggiandogli pesantemente il sedere prima che il tenente se ne vada dalla stanza: anche il capitano lo sta per seguire, ma prima di spegnere la videocamera sorride vicino all’obbiettivo.

“Ancora l’ultima missione, poi tornerò a casa assieme a quel pazzo irlandese. Maiwand, ecco come si chiama la cittadina in cui andremo a fare il sopralluogo: sembra tranquilla, a giudicare dalle immagini inviate dei satelliti. Forse troppo tranquilla, come se… ma no, mi sbaglio sicuramente. Ora vado. Addio, strizzacervelli.”

John ammicca e spegne la telecamera.

 

Sherlock rimase a lungo a fissare il desktop del portatile quando, una volta terminato il filmato, chiuse il programma. Se avesse voluto estrapolare fotogramma per fotogramma, parola per parola ed ogni concetto pervenuto da quel video-log, avrebbe dovuto impiegare ore per riuscire a farlo.

C'erano la speranza e la gioia di tornare a casa sani e salvi, cosa che non si avverò per nessuno dei due: Douglas sarebbe morto in mano ad una cellula terroristica e John sarebbe tornato dilaniato al punto da perdere se stesso all'interno del suo stesso corpo.

C'era quella frase di Douglas 'Se oggi ci ammazzano sarà tutta colpa tua!' detta quasi a cuor leggero e rivelatasi una mezza profezia. Una frase che, durante la loro prigionia nelle sudice prigioni afghane, sarà rimbombata nella testa di entrambi fino al termine della vita di Douglas e alla fuga di John. Per l'Irlandese nella consapevolezza che stesse facendo soffrire il capitano e per il dottore che non aveva mai creduto nella sfortuna fino a quel momento, additando se stesso come il peggiore dei menagrami.

C'era la pulce che pizzicava l'orecchio di John che si sarà sentito uno stupido per non aver seguito l'istinto che gli suggeriva che qualcosa in quella missione non andava, che quel posto era troppo tranquillo per trovarsi nel centro nevralgico degli scontri tra gli estremisti e gli alleati degli americani.

E poi, ovviamente, c'era il rapporto tra John e Douglas sul quale, nonostante i molti sforzi, non riuscì a sorvolare: erano un duo eccezionale, la loro complicità era palpabile e se Sherlock non fosse stato emotivamente coinvolto con il dottore, probabilmente avrebbe concluso che tra i due sussisteva per certo una relazione di tipo sentimentale. Ma Sherlock era coinvolto con uno dei due, col suo John, con quello stesso medico militare che nel filmato era così affiatato con quell'irlandese che sembrava non volerlo mollare per neanche un istante. Il loro rapporto era fraterno? Sherlock non poteva dirlo per certo, dato che lui per primo non sapeva cosa volesse dire amare un fratello.

'John è il fratello che non ho mai avuto.'

Pensò inevitabilmente a Mycroft e la cosa non gli piacque per niente. Pensò agli amici che non aveva mai avuto e tutto ciò gli piacque ancor meno. Pensò che se le cose fossero andate diversamente, John in quel momento starebbe convivendo con Douglas e lui sarebbe tre metri sotto terra da dieci mesi. E la cosa che proprio non riusciva a sopportare, era che se così fosse accaduto, a Sherlock non sarebbe neanche importato di nulla. Di Mycroft, di morire, di John.

Chiuse il portatile in malo modo e si alzò dalla sedia con movimenti rapidi e nervosi, abbastanza sconvolto da decidere di infrangere il volere di John e disturbarlo nonostante il dottore gli avesse chiaramente intimato di lasciarlo in pace. Ma aveva bisogno di lui. Lo sentiva nelle vene. Le opzioni erano due: John o la cocaina che ormai non usava da diverse settimane. Sherlock non lo sapeva, ma esisteva anche una terza opzione: il suo cellulare lo avvisò dell'arrivo di un SMS.

 

Stavamo inseguendo un sospettato ma lo abbiamo perso a Chelsea. Tracce ancora fresche. Mi aiutate? GL

 

Arrivo. SH

 

Anche John? GL

 

Solo io. SH (1)

 

Sherlock non sapeva se John avrebbe approfittato della sua assenza da casa per andarsene, ma era certo di una cosa: aveva bisogno di distrarsi, di tenere il cervello impegnato in qualcosa che non fosse il pensiero costante del suo adorato, problematico, amato dottore.

Fece scivolare un foglietto sotto la porta della camera di John, riempì abbondantemente la ciotola di Douglas e, dopo aver raccolto cappotto e sciarpa, lasciò il 221B diretto a Chelsea.

 

°oOo°

 

Il corpo di John dormì per otto ore filate, ma non si poté dire che fu un sonno tranquillo. Durante la notte, infatti, fu investito da tutti i ricordi dai quali si era completamente dissociato fino a scindere la propria psiche in tre personalità diverse. Tre personalità che si erano incontrate a metà strada in un sogno in cui tutti e tre rivissero la battaglia di Maiwand dall'inizio alla fine. Fu doloroso e così vivido che la sofferenza mentale sembrò ripercuotersi sul fisico: tutte le sue cicatrici bruciarono e fu sul punto di svegliarsi molte volte, ma i ricordi continuavano a trascinarlo in un vortice dal quale non sarebbe più stato possibile uscire.

L'alba del giorno seguente, quando si ridestò era sudato e, se possibile, più stanco di prima. Alzò la mano destra sulla spalla sinistra strizzandola forte alla ricerca di un dolore fisico che gli confermasse di essere sveglio, vivo, reale. Osservò le proprie mani poi i polsi in cerca di qualcosa che non trovò, quindi il proprio corpo, soprattutto le cicatrici.

Poi lasciò spaziare lo sguardo sulla stanza attorno a sé fino a che non si soffermò sullo specchio denudato della bandiera che lo copriva. Si alzò in fretta dal letto e si precipitò davanti alla cassettiera in attesa di un verdetto che lo fece sorridere: toccò il proprio riflesso e non vi era l'ombra di neanche un briciolo di timore nel farlo.

La sua attenzione fu poi attirata dal foglio che Sherlock aveva fatto passare sotto la porta, quindi si avvicinò e lo raccolse: annusò la carta alla ricerca del profumo dell'unica persona che avrebbe potuto lasciargli quel messaggio, ma mugolò frustrato quando non ne trovò alcuna traccia. Dunque lo aprì e lesse.

 

A Chelsea per un caso.

Ho dato da mangiare a Douglas. Mi ha fatto le fusa. Tante fusa. Gli piaccio.

John. Sei il mio conduttore di luce. Sei il faro che fa sì che non mi smarrisca nel buio entro il quale cado per colpa delle mie stesse mani. Sei il tempo che scandisce le mie giornate altrimenti acroniche.

Sei il mio sempre e il mio ovunque.

Perdonami.

SH

 

John rimase in silenzio, ma infine sorrise. Tra tutte le emozioni che avrebbero potuto contagiarlo in quel momento, dopo la sera precedente, dopo la notte appena trascorsa, dopo i ricordi che lo avevano sopraffatto, decise di sorridere.

Poi, però, arricciò le labbra: non gli piaceva l'idea che Sherlock fosse sul campo senza di lui. Il ricordo del Sarto di Jermyn Street e del loro primo incontro, era vivido e realistico come se fosse accaduto il giorno precedente. Cercò dunque il cellulare nelle proprie tasche, ma solo quando non lo trovò ricordò di averlo lasciato in salotto la sera precedente.

Non appena si palesò in salotto, la prima cosa che gli accadde fu ritrovarsi il felino rosso appiccicato ai polpacci: si chinò e lo prese in braccio, scuotendo più volte il capo mentre lo osservava a lungo, accarezzandolo con cura come se fosse stata la prima volta che aveva a che fare con lui “Gatto...” lo chiamò genericamente, perché scoprì che pronunciare il suo vero nome, ora che ricordava, gli provocava una fitta allo stomaco. Lo lasciò andare quasi subito, tuttavia, quando individuò il proprio cellulare appoggiato sul tavolino: doveva chiamare Sherlock, doveva parlargli subito, doveva comunicargli la notizia più importante che entrambi stavano aspettando da molto tempo.

Tuttavia, quando sentì rispondere dall'altro capo del telefono, spalancò gli occhi e dimenticò tutto quello che stava per dire. Rimase in ascolto il tempo che bastava per intuire la situazione e, dopo aver recuperato in fretta e furia la propria pistola, uscì di casa col cellulare ancora in mano.

 

Meanwhile in Chelsea...

 

Il fuggitivo con cui il team di Lestrade e Sherlock avevano a che fare era accusato di rapina a mano armata ai danni dello Sheffield Yeoman di Chelsea e conseguente fuga con ostaggio, la signorina Corman, commessa del suddetto negozio di antiquariato.

Gli Yarder e Sherlock si erano separati nel momento in cui le tracce rilevate da Anderson portavano nella direzione opposta intuita dal consulente investigativo. Così, mentre Lestrade e il suo team si infilarono nei tunnel della Tube, Sherlock si era ritrovato ben presto a cercare il sospettato in un complesso di appartamenti in costruzione al confine tra i quartieri di Chelsea e Fulham. La conferma che era sulla pista giusta, gli fu data quando trovò la signorina Corman in lacrime accovacciata all'ingresso del cantiere edile: dopo averla rimessa in piedi con ben poca grazia, le intimò di chiamare subito Scotland Yard, chiedere dell'ispettore Lestrade e di indirizzarli in quel punto preciso.

Dopo aver ispezionato a vuoto molti degli appartamenti ancora in costruzione, ebbe una fortissima sensazione di deja-vù. L'ultima volta che si era ritrovato da solo sul campo in una situazione del genere, risaliva al caso del Sarto di Jermyn Street: accovacciato dietro una pila di sacchi di sabbia in un appartamento ancora da stuccare, in svantaggio rispetto al proprio rivale, disarmato e con una spiacevole consapevolezza che albergava nel proprio petto. Ma era una sensazione diversa. Ai tempi del Sarto non gli sarebbe importato morire da solo per mano di un serial killer, né avrebbe avuto rilevanza se qualcun altro avesse pianto la sua dipartita: la sua stessa vita non aveva alcun peso, né per sé, né per gli altri.

Ma ora c'era John. John, che aveva dato importanza a tutto, che aveva reso rilevante la sua esistenza perché gli aveva insegnato cosa volesse dire amare ed essere amati e, semplicemente, ne voleva ancora. Non erano bastati quei mesi insieme a lui, voleva vivere con John ancora altri giorni, mesi, anni, tutto il tempo che avevano a loro disposizione. John, che aveva dato importanza alla sua vita, che gli aveva dato il senso che non si era neanche disturbato di cercare perché non pensava che la sua esistenza potesse averne uno. Prima di John la sua stessa vita gli era indifferente, invece ora era indispensabile. Prima sopravviveva, ora viveva.

Fu per quelle consapevolezze che quando sentì il proprio cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni, accolse con un sorriso il nome di John come mittente della telefonata.

Tuttavia, fu anche in quel momento che Sherlock si distrasse al punto da accorgersi troppo tardi dell'arrivo del sospettato alle proprie spalle. Riuscì ad accettare la chiamata in tempo per nascondere il cellulare nella tasca del cappotto ed alzare le braccia in segno di resa.

Il resto del piano? Parlare a voce alta e cercare di comunicare con noncuranza la propria attuale posizione a John.

“Va bene, mi hai trovato.” iniziò la propria pantomima mentre si alzava da terra con le mani in alto “Mi arrendo, per cui puoi anche abbassare quella pistola.” sottolineò per far capire a colui che lo stava ascoltando attraverso l'altoparlante del cellulare che il sospettato era armato “Molto arguto da parte tua fare in modo che le tue tracce portassero nei cunicoli della Tube quando invece eri diretto nella direzione opposta.” continuò pur non marcando la mano per non risultare innaturale “Sei stato furbo anche a scegliere questo complesso edile. Nessuno avrebbe mai pensato che ti saresti spostato nel confine tra Chelsea e Fulham. Hai fatto bene a rilasciare l'ostaggio, inoltre. Non le hai fatto nulla, almeno non ti accuseranno di...”

“Basta!” urlò il sospettato, innervosito dal fiume di parole sproloquiato da Sherlock “Non c'è bisogno che mi fai la radiocronaca in tempo reale! So quello che ho fatto!” gli puntò addosso la pistola, il braccio che tremava per quella che Sherlock identificò come paura mista ad una indomita crisi di astinenza da sostanze stupefacenti.

Sherlock non si preoccupò di chiudere di nascosto la telefonata perché aveva praticamente detto tutto quello che c'era da sapere sull'attuale situazione: l'ostaggio era stato liberato, il sospetto era armato e si trovava in un cantiere edile nel confine tra due quartieri. John avrebbe potuto trovarlo facilmente e con l'aiuto di Lestrade avrebbero probabilmente potuto risolvere la faccenda senza che nessuno si facesse del male.

Tuttavia, sarebbe comunque dovuto rimanere da solo con una persona che gli puntava una pistola all'altezza del petto, quindi si premurò di analizzare colui con il quale aveva a che fare e, per l'amor di dio, di farlo in silenzio, evitando di innervosirlo ulteriormente con il potere veritiero e incredibilmente fastidioso che solitamente avevano le sue deduzioni ai danni degli altri. Valutò che il sospettato avesse un'età compresa tra i venticinque e i ventisette anni, disoccupato, probabilmente con gli spacciatori con il fiato sul collo, motivo per il quale si era lanciato in quel furto ad un negozio contenente oggetti di tale valore. Era il suo primo crimine a mano armata e la pistola che reggeva con mani tremanti doveva essergli stata data dagli stessi spacciatori che erano tanto incuranti del futuro del ragazzo quanto desiderosi di mettere le mani su qualche oggetto di valore che il giovane avrebbe rubato per pagarsi la dose successiva, curiosamente inconsapevole del fatto che con un monile del genere, piazzato con maestria nel mercato nero, avrebbe potuto pagare un'intera partita di cocaina. Le mani gli tremavano non solo per l'agitazione derivata dal crimine appena commesso, ma anche per la crisi di astinenza che, infine, lo aveva spinto a quel folle gesto senza aver pianificato nessun dettaglio. Era semplicemente entrato in uno dei negozi di antiquariato più lussuosi e forniti di Londra, aveva arraffato una collana d'oro a giudicare dal pezzo di catena gialla che gli ciondolava dalla tasca del cappotto e trovandosi di fronte l'agente di sicurezza addetto al negozio, aveva preso in ostaggio la commessa usando la pistola come lasciapassare. Aveva lanciato il proprio zainetto vuoto sulla rampa di scale che portavano ai corridoi della Tube e aveva preso la direzione opposta; sapeva che avrebbe trovato un cantiere edile nelle vicinanze perché era probabilmente uno dei posti che utilizzava per cercare il piacere soffice e inconsistente della cocaina e una volta sentitosi al sicuro aveva liberato l'ostaggio senza torcerle un capello. Conclusione: Sherlock aveva di fronte un ragazzo inesperto di armi e rapine che non aveva alcuna intenzione di far male a qualcuno. Tuttavia, dato lo stato febbrile dell'astinenza e l'incompetenza circa l'uso di quella stessa pistola che stava reggendo tra le mani tremanti di paura, la situazione sarebbe potuta precipitare da un momento all'altro. Avrebbe dovuto prestare molta attenzione. E prendere tempo.

“Se tu ora restituisci la collana e mi consegni la pistola, non passerai guai seri.” tentò Sherlock, avanzando di un passo verso il giovane.

Ma il giovane, complici le sirene delle volanti della polizia in avvicinamento, finì con l'agitarsi ulteriormente “No, no, no, no, no!” continuò a puntare l'arma contro Sherlock che indietreggiò nuovamente “È troppo tardi, ormai ho fatto il casino.”

“Non hai fatto male a nessuno, per ora.” Sherlock lanciò una rapida occhiata alla pistola del giovane e notò con disappunto che la sicura era tolta “Appoggiala lentamente per terra.”

“Non potevi farti i cazzi tuoi?! Non potevi farmi scappare in pace?!” il giovane urlò frustrato e posò l'indice sul grilletto “Non sei neanche un poliziotto!”

“Non posso lasciarti scappare.” mormorò Sherlock che indietreggiò di un altro passo: studiò il volto del ragazzo e si immedesimò in lui. Con una crisi d'astinenza in pieno corso, le sirene delle auto degli Yarder gli stavano sicuramente rimbombando nelle orecchie, il cervello andava via via sempre più in confusione, la disperazione e la paranoica sensazione di non riuscire a fuggire da quel problema si stavano impadronendo di lui: la situazione stava degenerando velocemente.

“Sei stato tu a chiamare la polizia?” ansimò il giovane il cui volto era una maschera di sudore, panico e dolore “Avresti dovuto lasciarmi andare.” domandò, evidentemente in confusione mentre con l'ultimo briciolo di lucidità che gli rimaneva gli puntò il braccio armato all'altezza del cuore.

Sherlock percepì il rumore di uno sparo e chiuse gli occhi: attese che il dolore lo investisse come si aspetta l'inevitabile e quando non sentì il proprio petto bruciare temette sul serio di essere morto, di essere trapassato così velocemente da non aver sentito nulla, neanche il minimo spasimo.

Riaprì gli occhi che le orecchie gli fischiavano, ma non si trovava in uno qualunque degli aldilà descritti nelle più disparate bibliografie: era ancora in quell'appartamento vuoto e sporco di cemento. Si tastò istintivamente il petto mentre abbassava lo sguardo: riacquistò anche il dono dell'udito quando si ritrovò davanti la più improbabile delle immagini a cui avrebbe pensato di assistere.

Era stato John. John aveva sparato al braccio destro del ragazzo e, dopo avergli tolto la pistola dalle mani, si stava già prendendo cura di lui stringendogli la cintura alla base della spalla per fermare la fuoriuscita di sangue. Sherlock stava osservando John di spalle, lo stesso John che gli aveva appena salvato la vita sparando ad un ragazzo del quale si stava prendendo cura. Non riuscì a dirgli nulla, complice il repentino arrivo di Lestrade e alcuni Yarder che si sostituirono a John, recuperando la pistola del giovane sospettato e prestandogli le prime cure con l'ausilio di due paramedici che li avevano seguiti a ruota. Vide Lestrade confabulare sottovoce con John, il quale, pochi istanti dopo fu finalmente libero di voltarsi verso di lui.

Sherlock aveva ancora gli occhi spalancati verso John, la cui sicurezza consolidata e quasi ostentata gli fece credere di avere a che fare col notturno: deglutì di fronte a quel pensiero, confuso a riguardo, incredulo nei riguardi di quell'opzione che, invece, aveva scartato a priori.

John annullò la distanza che li divideva in due falcate ed afferrò i due lembi del lungo cappotto di Sherlock, accertandosi che non avesse subito alcuna ferita di grave entità: lo preoccupava il fatto che l'amico stesse in silenzio, quindi gli afferrò le mani nelle proprie e provò a chiamarlo con la stessa dolcezza col quale era solito chiamarlo il diurno “Sherlock? Non sei ferito, vero?”

“John.” Sherlock ricambiò la stretta, incastrando le dita tra quelle dell'altro “Hai sparato.”

John sorrise, rincuorato che il consulente investigativo stesse bene “Non è da te constatare l'ovvio, Sherlock.” scherzò e, con movimenti fintamente casuali, alzò l'intreccio delle quattro mani fino al proprio viso e respirò il profumo di Sherlock contraffatto dall'odore della polvere da sparo. Chiuse gli occhi e si concentrò su quelle sensazioni tattili e olfattive delle quali aveva sentito la mancanza.

Sherlock non dovette neanche sforzarsi a notare il gesto di John verso il quale chinò un poco il capo alla ricerca del suo sguardo “John. Hai sparato.” ripeté e solo in quel momento ricordò la lite della sera precedente e gli sembrò strano, oltre a tutto il resto, che John non sembrasse minimamente turbato dalla loro vicinanza.

John mugolò, sopraffatto dal profumo di Sherlock che in quel momento lo colpì maggiormente data la prossimità col suo viso: inspirò la fragranza dolce dello shampoo e la nota leggermente salina del sudore colatogli sul collo poco prima, quando la situazione con il sospettato era radicalmente precipitata. Gli sfiorò la guancia con la punta del naso prima di ritirarsi e prestare veramente ascolto alle parole di Sherlock “Ah, vero. Capisco la tua sorpresa.” mantenne lo sguardo su Sherlock e si intenerì quando lo vide chinare il capo di lato al pari di un cucciolo “L'altro non riusciva a sparare.”

Sherlock trasalì al punto di indietreggiare di un passo, ma il contatto con le mani di John non cessò “L'altro?”

John annuì e sorrise a labbra aperte “Mi hai liberato, Sherlock.” svelò un segreto che non aveva la minima intenzione di mantenere e nel farlo riguadagnò il passo che Sherlock aveva percorso in senso contrario “Sono, come mi hai chiamato tu, il vero John.”

 

°oOo°

 

Lestrade cacciò John e Sherlock dal complesso edile abbastanza in fretta da nascondere il loro coinvolgimento nel caso: consigliò all'ex medico militare di far di tutto pur di non risultare positivo al test del guanto di paraffina e sgridò il consulente investigativo per aver affrontato il sospettato prima del suo arrivo. Salirono dunque sul taxi che non ebbero ancora avuto modo di parlare della tanto attesa quanto sconcertante bomba sganciata da John: era tornato. Non c'erano più diurno o notturno, era il vero, autentico, unico John Hamish Watson.

Mentre John sembrava troppo impegnato ad osservare con curiosità e meraviglia fuori dal finestrino come se fosse la prima volta che vedeva Londra, Sherlock si sentiva leggermente in disagio di fronte a quella persona nuova. Si voltò ad osservarlo, sorridendo ogni qual volta John si stupisse nel notare dei cambiamenti nei negozi, nelle vie, nei sensi di marcia della sua amata città che, nei suoi anni di lontananza, non si era fermata ma era andata avanti con la propria frenetica vita.

“Ehi!” lo sentì poi interpellare il giovane tassista “Il Chelsea ha combinato qualcosa di buono negli ultimi anni?” (2)

“Pfff.” il tassista sbuffò incredulo “Ha vinto la Champions League l'anno scorso! Come fai a non saperlo?”

John spalancò occhi e bocca “Ma figurati!” scosse il capo, di fronte alle parole del giovane “Mpf.” John soffiò a sua volta un po' d'aria dalle narici “Diciamo che sono stato via parecchio tempo.”

Il tassista scrollò le spalle, poi tornò sull'argomento principale della conversazione “E comunque quest'anno giochiamo la finale per l'Europa League.”

“Fantastico!” gioì ridacchiando “Questa finale non me la perdo.”

Sherlock osservò John in silenzio e trovò meraviglioso vederlo interagire con persone normali,  discutendo di argomenti leggeri, con il sorriso sulle labbra e l'entusiasmo di un bambino. Dunque era questo il vero John: il diurno non aveva mai mostrato così tanto entusiasmo e così tanta spontaneità, limitandosi ad interagire solo se richiesto e il notturno... beh, lui era piuttosto monotematico. Ma questo John, il vero John sembrava strepitoso, pieno di energie come quello che aveva visto nei primi video-log. Eppure Sherlock si chiese se fosse tutto lì: dove erano finiti gli orrori della guerra? I ricordi terribili, la battaglia di Maiwand, le ferite. Dov'era finito Douglas?

“Sei silenzioso.” bisbigliò poi John, risvegliandolo dai suoi pensieri “È strano che tu non mi dica tutti i dettagli su come hai fatto ad intuire dove fosse fuggito il sospettato.” gli sorrise con bocca e occhi, entusiasta “A te piace farlo e a me piace ascoltarti mentre lo fai.”

“Davvero?” chiese Sherlock pensando che fosse una domanda più che legittima da fare. Certo, il diurno era sempre rimasto affascinato dalle sue deduzioni, ma il vero John cosa ne sapeva? Come erano funzionate le cose per tutto quel tempo?

John riempì le guance in una smorfia sorridente e dalla sua espressione Sherlock capì che non lo biasimava. Allungò poi la mancina sul sedile centrale che li divideva, offrendogliela in un simbolico dono “Hai delle domande, è chiaro. E io ho le risposte che cerchi.”

Sherlock osservò prima John, poi il palmo che gli offriva, ma fu quando tornò ad immergersi nel blu degli occhi sicuri, vivaci e terribilmente accattivanti dell'ex medico militare che decise di allungare a sua volta la mano per poggiarla sulla sua. Non disse nulla, ma il sorriso che gli donò bastò a chiarire che era pronto ad ascoltare, qualora avesse avuto voglia di parlare.

John giocò con la mano di Sherlock toccandola in molti modi: prima la punzecchiò con la punta dell'indice, poi fece sentire le proprie unghie abbastanza da fargli percepire una consistenza diversa, quindi la pizzicò tra i dorsi del secondo e del terzo dito. Poi aprì il palmo per avvolgerla tutta: la strinse forte, poi con delicatezza, contando tutte le quattordici falangi con stupore e reverenza. Dopo la girò ed iniziò ad analizzare il palmo, disegnando con l'unghia dell'indice le diverse linee che la rigavano studiandole con la precisione di una chiromante, per poi premere i polpastrelli laddove spiccava una piccola bruciatura causata da una goccia di acido cadutagli addosso tempo addietro. Infine, quando la silenziosa analisi fu completata, John infilò le dita tra quelle di Sherlock stringendogli la mano in una presa morbida ma salda.

Sherlock osservò tutto e gli parve magnifico: il bisogno di John di avere una continua riconferma sul piano fisico della propria esistenza era, per l'appunto, tangibile e lui si sarebbe offerto volentieri come cavia per permettergli di sentirsi il più possibile a suo agio in quel mondo da cui era mancato per più di dieci mesi. Osservò il suo sguardo incantato, potendo percepire chiaramente il suo desiderio di toccarlo in prima persona e non attraverso il filtro impostogli dalla sua psiche fratturata e ora riaggiustata non senza fatica. Lo vide muovere la bocca in tacite parole che avrebbe voluto registrare per ascoltare all'infinito il suono del suo silenzio sospirato. Era calmo, John, ma Sherlock lo sentiva urlare mille e più nuove informazioni che lo riguardavano e che non vedeva l'ora di dedurre e registrare nel proprio Palazzo Mentale.

 

Quando il taxi si fermò davanti al 221B, John si precipitò fuori dalla vettura quando vide la signora Hudson uscire dal portone di casa.

“Signora Hudson! Che piacere!” la abbracciò affettuosamente per poi donarlo un sonoro bacio sulla guancia.

“Oh, mio caro!” squittì la donna, arrossendo con gioia di fronte all'affetto donatole da John “Come sei allegro! È successo qualcosa di bello?” domandò osservando Sherlock con aria sorniona.

“Sì!” confermò John, pur non specificando nulla: sapeva che Sherlock non aveva rivelato nulla circa la propria condizione, quindi la lasciò bearsi in quell'innocente e insaputa mancanza.

Entro poi nel portone e si fiondò al piano di sopra seguito da un curiosissimo Sherlock che non voleva perdersi neanche un istante di quelle piccole ma nuove scoperte che stavano rendendo il proprio coinquilino l'uomo più felice del mondo.

John si tolse la giacca ed iniziò ad osservare l'appartamento da vicino, divertito in particolare dallo smile giallo ucciso da più proiettili e dal teschio umano appoggiato sulla mensola del caminetto. Fu proprio di fronte al focolare che fermò i propri frenetici passi, alzando lo sguardo sulla kefia che copriva il grande specchio del soggiorno. E in quello stesso momento si accorse che anche Sherlock si era immobilizzato alle sue spalle, osservandolo con una tensione che poté definire palpabile senza alcuna difficoltà. John si voltò verso Sherlock e sorrise con tranquillità, quindi lo fece.

John alzò le braccia e con un movimento fluido tirò via la kefia alzando una discreta quantità di polvere che, tuttavia, non lo disturbò in alcun modo. E si specchiò.

Sherlock stava letteralmente trattenendo il respiro per la curiosità, l'emozione e la paura: non sapeva che John si era già specchiato, non sapeva che aveva già fatto quella prova e che, soprattutto, l'aveva già superata.

John osservò la propria immagine riflessa, quindi alzò lo sguardo cercando quella di Sherlock alle proprie spalle e, vedendolo teso come la corda di un violino, decise di rincuorarlo. E lo fece sfogando una risata che riempì presto il soggiorno e il salotto dell'appartamento. Era una risata liberatoria con la quale scacciava via tutta la tensione accumulata dal suo corpo in quelle ventiquattro ore e con cui assicurava a Sherlock che sì, poteva osservare il proprio riflesso perché non aveva più nulla temere, perché era tornato ed era padrone del proprio corpo.

Sherlock sospirò di autentico sollievo rilassando a sua volta le spalle e il collo in tensione da così tanto tempo che neanche sapeva quantificarlo. Le bugie, le verità nascoste, i casi, l'astinenza, John. Era un sollievo poter finalmente dipanare le molte ansietà con le quali si era stressato negli ultimi tempi. Ma se la risata entusiasta del vero John era il premio per aver sopportato tutto, allora ne era davvero valsa la pena.

John fece scemare via via la risata, ma sul suo volto non scomparve il sorriso che rivolse a Sherlock direttamente attraverso il riflesso dello specchio che li inquadrava entrambi. Sapeva quanto doveva essere stata duro anche per lui quel lungo periodo di stallo ed era anche conscio del fatto che se non fosse stato per Sherlock, sarebbe ancora incatenato in quella prigione di specchi che lui stesso aveva innalzato attorno a sé. Decise di dirglielo, dunque, perché se lo meritava e perché gli era veramente grato per questo “Sherlock.” lo chiamò e quando vide il proprio sguardo ricambiato attraverso lo specchio continuò “Questo è tutto merito tuo.”

Sherlock deglutì e abbassò lo sguardo in lieve imbarazzo “Io ti ho solo aiutato in piccola parte.” tornò ad osservarlo, poi, cercandone in particolare lo sguardo “Tu sei la tua stessa forza. Era una battaglia che non avresti potuto vincere se tu non avessi avuto una grande forza di volontà.”   

“Sherlock.” lo richiamò John: il tono gentile ed affettuoso era come una carezza vellutata per le orecchie dell'altro “Senza di te non ce l'avrei mai fatta.” fu tentato di voltarsi, ma la verità era che gli piaceva che quella conversazione si svolgesse in quel modo. Un riflesso per un altro riflesso: era simbolico e a John piaceva come idea “Grazie.”

Fu a quel punto che Sherlock si mosse: erano piccolissimi passi, lentissimi, quasi impossibili considerata l'ampiezza della sua abituale falcata. Vide John sorridere in attesa, quindi acquistò il coraggio necessario per raggiungerlo. Una volta arrivatogli alle spalle, insinuò le mani tra le braccia e i fianchi di John cingendolo in una presa così leggera da sembrare inconsistente. Vide John chiudere gli occhi e reclinare appena il capo di lato in una dolce offerta: avvicinò anche il volto, dunque, appoggiandoglielo sul profilo destro e su parte del collo sul quale nascose il viso.

John posò le proprie mani su quelle di Sherlock assicurando quella stretta di cui sentì di aver bisogno. Ruotò nuovamente il capo, poi, questa volta per andare incontro al volto di Sherlock sulla cui tempia sinistra strusciò la fronte e gli occhi ancora chiusi. Chiamò a bassa voce il nome dell’altro quando percepì ancora una un velo di tensione imbrigliare i movimenti e i pensieri di Sherlock, posandogli poi un leggero bacio sullo zigomo a lui più vicino.

Sherlock accentuò con una sola mano la stretta attorno alla vita di John, mentre gli fece salire l’altra sul viso in una carezza delicata che si spostò presto sui capelli corti color sabbia. Alzò lentamente il viso ritrovandosi a sfiorare quello di John col proprio profilo a causa della prossimità che entrambi erano andati desiderando. Poi Sherlock aprì le labbra e soffiò il proprio pensiero con la voce rotta dall’emozione “Ti ho cercato così tanto.”

“E mi hai trovato, Sherlock.” sussurrò John che a quel punto non fu più in grado di restare fermo. Ruotò il tanto che bastava per trovarsi di fronte a Sherlock per poi allacciargli un braccio attorno al collo ed uno sul fianco “Grazie a dio, mi hai trovato.” chiuse le già brevi distanze tra loro e lo baciò.

Sherlock si abbandonò a quel bacio che non era esitante come quello del diurno o troppo irruente come quello del notturno. Era dolce e al sicuro allo stesso tempo, era come il vero John, era come se l’era immaginato, solo che la fantasia non poteva in alcun modo battere le potenti sensazioni provate in quel momento.

Quando si staccarono la prima volta, si osservarono dritti negli occhi con le fronti e i nasi a contatto tra loro, soffiando il respiro accaldato sulle loro labbra che tornarono a cercarsi con baci più brevi ma ricorrenti. Sembrava che stessero sfogando un'attesa che era stata così lunga e frustrante da non riuscire a mitigare quel lieve ma persistente dolore emotivo che portava con sé una moltitudine di pensieri e che era difficile da trascurare. Potevano finalmente vedersi e toccarsi, ma erano entrambi consci del fatto che c'erano troppe questioni irrisolte per poter vivere in totale felicità.

Fu John a staccarsi per primo da quella serie di baci perché, nonostante tutto, in quel momento era il più stabile tra i due. E Sherlock, pur mugolando frustrato, capì. Capì perché John glielo rese facile, perché non si allontanò di colpo sfuggendo dal suo sguardo, bensì gli rimase vicino, stringendolo in una presa morbida che sciolse solo per fare in modo che lo seguisse. Si sedette infatti sulla vicina poltrona portando Sherlock con sé, lasciandolo poggiare sulle proprie gambe e avvolgendolo con le braccia. E Sherlock lo assecondò, confermando parte dell'idea che si era fatto dell'ex soldato: era questo il John che aveva sempre cercato, era un uomo che sapeva sorridere e difenderti senza alcuna esitazione, che ti accarezzava con indicibile dolcezza con quelle mani che sapevano anche premere grilletti e colpire esattamente dove volevano, che sapeva gioire di fronte alle piccole cose pur nascondendo terribili segreti nell'intimo della sua psiche. E poi era protettivo, come l'abbraccio in cui l'aveva stretto in quel momento. Perché anche se stavano per affrontare un discorso molto difficile, lui voleva fargli sapere che era lì, saldo come una roccia e carezzevole come la brezza d'estate. Sherlock, d'altro canto, si adeguò subito a quella piacevole sensazione di protezione, rifugiandosi sulle gambe di John, rannicchiandosi fino a posare la tempia destra sullo schienale della poltrona e stringendo tra le proprie mani quella che l'altro gli aveva appoggiato sulle ginocchia  piegate. Quando stava per iniziare a parlare, poi, John lo anticipò.

“Farò tutto ciò che è in mio potere per farti vivere serenamente.” iniziò John che, quando lesse un sincero stupore sul viso di Sherlock, sorrise amabilmente “Perché tu ora non stai bene, Sherlock. Lo sai, vero?”

Sherlock strizzò gli occhi più volte, incredulo: com'era possibile che John, tra i due, lo identificasse come quello che aveva maggiore bisogno di aiuto? Non sapeva a cosa l'altro si stesse riferendo, poiché era veramente convinto del fatto che non fosse mai stato così bene in vita propria: aveva le proprie facoltà intellettive intatte, non aveva problemi fisici e contro ogni più rosea prospettiva aveva addirittura trovato una persona che lo amasse nonostante i propri innumerevoli difetti. Cosa, dunque, riusciva a vedere John che non andasse?

John gli accarezzò la schiena e fu infinitamente intenerito dall'espressione stupita dipinta sul volto di Sherlock: era magnifico vederlo da così vicino. Era un'emozione che aveva atteso da molto tempo, da quando era ancora incatenato nella sua stessa testa. Sentiva il cuore scoppiare di fronte agli occhi di Sherlock, così chiari da potervici tuffare dentro; eppure percepiva una sensazione di tristezza alla totale inconsapevolezza che provava l'uomo che aveva tra le braccia e si domandò cosa ne sarebbe stato di lui se non lo avesse salvato dalle agghiaccianti cure del Sarto di Jermyn Street. Non resistette a baciargli la guancia prima di rispondere ai suoi taciti quesiti “La tua paranoia è decisamente aumentata da quando mi conosci, Sherlock. Quindi me ne assumo la responsabilità.” sospirò colpevole, continuando ad accarezzargli la schiena con fare consolatorio “Il prolungato uso di sostanze stupefacenti provoca questo tipo di inconvenienti che ti ha portato nel circolo vizioso tipico dei tossicodipendenti: tu ti fai, poi diventi paranoico durante l'astinenza e questo ti porta a cercare una nuova dose.” vide Sherlock sbuffare e voltare lo sguardo altrove, ma era tranquillo perché non si sarebbe aspettata una reazione diversa da quella “E poi sono arrivato io, che ho peggiorato la situazione.”

Così come si era voltato ad osservare altrove, Sherlock tornò subito su John dopo la sua ammissione di colpa “John, non è vero. Tu hai migliorato ogni fibra del mio essere. Mi hai reso in grado di provare sentimenti dai quali mi ero sempre scostato.”

“Lo so, non intendevo questo.” lo rassicurò John “Ma questi dieci mesi non sono stati facili per te, soprattutto gli ultimi due. Hai sempre vissuto con la paura di perdermi, con il timore che potessi sparire e questo ti ha stressato, Sherlock.”

“Sì, ma...” sospirò Sherlock, nascondendo il viso tra la spalla e il collo di John “A livello conscio non è stato un peso. Desideravo così tanto incontrarti.”

“Sì, ma a livello inconscio è stato un trauma continuo per te.” John approfittò della vicinanza di Sherlock per inspirare il suo odore direttamente dai suoi capelli: era così bello poter percepire a livello fisico dopo mesi di insensibilità sensoriale “Poi ci sono state le liti e gli episodi con quella parte di me che viveva di notte che...”

Sherlock lo interruppe e tirò fuori il volto dal proprio nascondiglio per poter osservare John in volto “Tu hai visto tutto?” domandò a metà tra l'incredulità e la curiosità “John, ti prego, dimmi come funzionava. Svelami l'enorme mistero che sei!”

John sorrise di fronte allo sguardo acceso di Sherlock: aveva sempre adorato quel lato di lui e non vedeva l'ora di saziare la sua curiosità per bearsi della sua espressione stupita “Non so se riesco a spiegarmi bene, ma era come se fossi in secondo piano. Come se fossi un'unità a parte all'interno del mio stesso cervello e il mio corpo fosse un automa che si muoveva secondo il volere di qualcun altro.” vide il solitamente logorroico Sherlock rimanere silente durante la spiegazione e non poté che sorriderne “Il mio stesso  cervello aveva ideato questa metafora che vivevo ogni giorno e ogni notte: io ero...” si fermò un istante, indugiando appena.

“Eri?” domandò Sherlock, smontando dalle sue gambe per inginocchiarglisi di fronte e assorbire tutte le informazioni che gli stava fornendo.

John si chinò un poco in avanti “Ero incatenato con i polsi sopra la mia testa, ero dentro una prigione ed era come se fossi davanti ad un enorme schermo dal quale potevo assistere alla vita che conduceva il mio corpo.”

“Catene, sbarre, specchio.” mormorò Sherlock, dandosi mentalmente dello stupido per non aver intuito quel passaggio.

John annuì “E assistevo impotente a tutto ciò che accadeva. Soprattutto all'inizio.” avvicinò la mancina al mento di Sherlock che alzò verso di sé “Poi ti ho incontrato.”

Sherlock sorrise “E man mano che guarivi...?”

“Sentivo le catene allentarsi. Ma è stato un processo molto lungo.” John sospirò e ritirò la propria mano, appoggiandosi allo schienale della poltrona “All'inizio ero il primo a non voler reagire. Il dolore era troppo grande e avevo bisogno di tempo per...” sbuffò alla ricerca delle parole adatte “Per...” esitò ancora qualche istante “Per elaborare il lutto.”

Sherlock si morse l'interno del labbro inferiore “Parli di Douglas?”

“Tu sai di Doug?” si stupì John, per poi annuire “Ah, vero. Hai letto il fascicolo.”

“A dire il vero no. Aspettavo di conoscere la verità da te.” Sherlock decise di omettere, almeno per il momento, di aver visto i video-log “Ho visto la sua foto, sapevo che era irlandese e il gatto mi ha aiutato a dedurre che fosse qualcuno di molto importante.”

John assottigliò lo sguardo su Sherlock: aveva avuto modo di osservarlo molto bene durante la propria prigionia nella sua stessa psiche, quindi era certo di sapere quando l'altro mentiva. Tuttavia decise di lasciar correre, in quel momento “Il lutto non era solo per Doug, ma per tutta la mia squadra.” liquidò in fretta quel discorso, quindi alzò lo sguardo nel punto in cui era nascosto il fascicolo “Di certo tu saprai che sono l'unico sopravvissuto.”

“Sì. Me l'aveva comunicato Mycroft nel momento in cui mi diede il fascicolo.” Sherlock deglutì di fronte allo sguardo indagatore di John, quindi gli prese la mano per distogliere la sua attenzione dal fascicolo “John. Guarda me.”

E John lo fece: tornò ad osservare Sherlock indagando ora su di lui “Ti guardo, Sherlock.”

“Dimmi di più.” lo pregò mentre sentiva seccarsi la gola di fronte al suo sguardo. Il vero John era bello, aveva gli occhi accesi e sprizzava forza da tutti i pori: a Sherlock sembrava un sogno poter finalmente parlare con lui “Perché avevano paura quando si specchiavano? Cosa vedevano?”

John sorrise maliardo “Vedevano me.” allungò un braccio in modo da raggiungere i capelli di Sherlock con la mano: gli accarezzò il capo, quindi la guancia “Vedevano che ero furente. E lo ero perché loro potevano vederti, toccarti e addirittura baciarti, mentre io ero relegato lì in attesa che le catene si spezzassero.”

Sherlock seguì inconsciamente la mano di John e, pur rimanendo in ginocchio, si sporse in avanti fino ad appoggiarsi col busto sulle sue gambe “Ma loro non sapevano di essere parte di un'altra personalità. Non il diurno quanto meno, infatti è stato uno shock per lui quando ha scoperto della dissociazione.”

“Il diurno...” John rise e scosse il capo di fronte a quell'epiteto. Accolse poi il busto di Sherlock sulle proprie gambe, continuando ad accarezzargli i capelli “Lui era spaventato da molte cose. Nello specifico aveva paura che dentro di lui potesse vivere un mostro. Qualcuno che potesse farti male, qualcuno che, ad esempio, potesse strangolarti.” mormorò una parola di scusa a quel proposito, accarezzando i punti dove, poche settimane prima, le proprie mani avevano lasciato quei brutti segni sul suo corpo.

Sherlock sorrise pacificamente e offrì il proprio collo alle carezze di John senza alcun timore come dimostrazione del fatto che quell'incidente era stato archiviato già da molto tempo “Aveva paura di se stesso.”

“E, in un certo senso, ci aveva azzeccato. Anche se non nel modo che credeva lui.” John si spostò un poco, offrendo nuovamente a Sherlock il posto affianco a sé: voleva toccarlo il più possibile per cercare di recuperare tutto quel tempo in cui vedeva le proprie stesse mani, che in quel momento erano pari a quelle di un estraneo, lambirlo e bearsi del contatto con lui.

Sherlock lo accontentò, quindi risalì sulla poltrona, ma invece di sedersi a metà tra cuscino e bracciolo, riguadagnò la propria posizione sulle gambe di John. Gli avvolse il braccio sinistro attorno al collo e riprese a parlare “Com'è avvenuta la dissociazione?”

John scrollò il capo “Non ora. Non oggi.” il tono era perentorio, molto vicino al carisma tipicamente militaresco “Torniamo al discorso di prima.”

Sherlock appoggiò le labbra sulla tempia destra di John e sbuffò sonoramente inumidendogli quella porzione di pelle: gli veniva così naturale essere infantile col vero John, che era quasi divertito da quel suo stesso atteggiamento che altrimenti avrebbe deprecato “Non dire assurdità.” borbottò poi e quando vide John voltarsi e soffiargli a sua volta sulle labbra, rise divertito “Non sono stressato o paranoico.”

John mugolò divertito dall'atteggiamento di Sherlock: vederlo di così buon umore era un premio enorme per lui “Vorresti dire che se io ora uscissi dalla porta di casa, tu saresti tranquillo?” chiese tuttavia e si ritrovò ad annuire saccente di fronte ad uno Sherlock che spostava altrove lo sguardo, in segno di resa “Già.”

“Credo sia normale.” si giustificò Sherlock facendo spallucce.

John approfittò dei movimenti di Sherlock per posargli le labbra sul collo, accarezzandolo con le proprie labbra alla ricerca di nuove e al tempo stesso antiche percezioni “Non ho detto che non lo sia. Dico solo che farò in modo che tu non debba più temere per me.” sussurrò poi, direttamente al suo orecchio “E inoltre vorrei che ti disintossicassi del tutto.”

Sherlock si voltò piano, soppesando lentamente la risposta a quella domanda “Se io lo facessi, tu non avresti nessuna scusa per detestarmi o biasimarmi.”

John sorrise e scosse il capo: la risposta di Sherlock gli aveva appena dato aveva al tempo stesso confermato la sua tesi “Ehi, non gira tutto attorno a me.” scherzò, dunque, quando vide che anche lo stesso consulente investigativo si era accorto di essere caduto in fallo “Adoro il mio piccolo paranoico.”

Sherlock avvicinò la mano destra sul viso di John, divertendosi a toccargli entrambe le orecchie con l'ampia apertura di pollice e indice “Il vero John è più intelligente degli altri due.”

“Sarà perché prima dovevano dividersi un cervello in due!” John morse la mano di Sherlock, assecondando la sua vena giocosa “Ora vorrei chiederti un favore.”

“Sì?” chiese Sherlock, divertendosi a far fuggire la propria mano dai morsi dell'ex medico militare.

John mise un braccio sotto le ginocchia di Sherlock, accompagnandolo in posizione eretta quando decise di alzarsi dalla poltrona “Voglio conoscere Mycroft. Portami da lui.”

“Cosa?” domandò Sherlock, incredulo. E Mycroft cosa c'entrava ora? Sbuffò sedendosi sul bracciolo della poltrona “Perché?”

John si avvicinò al divano e recuperò la propria giacca “Perché sì.”

“John, questa non è una risposta.” sbuffò Sherlock, incrociando le braccia al petto.

“Senti da che pulpito viene la predica!” rise John che, dopo esserglisi avvicinato nuovamente, gli baciò velocemente il broncio che aveva impostato sul viso. Sherlock mugolò e John lo baciò nuovamente, ma il consulente investigativo non dava l'impressione di voler cedere “Va bene, se non vuoi venire con me, allora ci andrò da solo.”

Accadde proprio quello che John aveva predetto: a Sherlock non piaceva per nulla l'idea che l'uomo che aveva appena trovato dopo lunghi mesi di ricerche uscisse di casa da solo. Non voleva perderlo di vista, non riusciva a pensare all'idea di saperlo per strada senza il suo supporto. E sapeva anche che John era ben conscio di quell'aspetto della situazione. Ma la sicurezza di John era più importante di ammettere di aver avuto torto, quindi Sherlock si alzò in fretta e, dopo aver recuperato il proprio cappotto, si precipitò giù per le scale urlandogli di aspettarlo.

 

°oOo°

 

“Prima portiamo a termine questa assurdità, prima potremo tornare a casa.” sbottò Sherlock mentre spalancava la porta dell'ufficio di Mycroft “Facciamo in fretta.” borbottò ancora, richiudendo la porta solo dopo che fu entrato anche John.

Mycroft spalancò gli occhi alzando lo sguardo dal documento ufficiale di cui si stava occupando: inarcò un sopracciglio di fronte all'entrata di Sherlock, ma, ancor di più, davanti alla presenza di John. Glielo aveva sempre tenuto nascosto, quindi cosa era cambiato rispetto agli ultimi dieci mesi? Si alzò in piedi ed iniziò ad analizzare entrambi, profondamente incuriosito da quel cambio di atteggiamento.

“Sherlock, è buona educazione bussare.” John rimproverò Sherlock incurante dei continui borbottii che aveva sbuffato durante tutto il viaggio in taxi. Quindi avanzò verso il maggiore degli Holmes, di fronte al quale allungò la mano ed un sorriso informale ma garbato “John Watson.”

Mycroft si fermò di fronte al dottore ed osservò nell'ordine: la mano di John, il volto di John, quindi il viso di Sherlock, il broncio di Sherlock, per poi tornare sul viso dell'ex medico militare “Bentornato tra i coscienti, dottore.” palesò così la propria, decisamente scontata, intuizione e gli strinse educatamente la mano, apprezzando la presa forte e salda di colui che aveva di fronte.

“Sapevo che avrebbe capito subito. D'altronde è un Holmes anche lei.” a quel punto, John indietreggiò di un passo ed osservò Sherlock “Forza. Fallo.” suggerì in tono perentorio prima di allacciare le mani dietro la schiena in una postura rigida nella quale sembrava trovarsi a proprio agio.

“John.” sospirò Sherlock, alternando lo sguardo tra lui e Mycroft che, a quel punto, sembrava veramente confuso.

“Hai promesso.” gli ricordò John.

“Solo perché hai minacciato di andare a trovare tua sorella e di stare via cinque giorni.” lo accusò Sherlock.

“Sì.” confermò John “Ti ricordo che l'accordo di due giorni vale solo se lo farai.” reclinò il collo a destra e a sinistra, facendolo scricchiolare “Non ti ho chiesto la luna, Sherlock. È qualcosa che potrà solo farti un gran bene.”

Sherlock intrecciò le braccia al petto “Oh, certo. Darmi in pasto ad una mangusta è per il mio bene.”

“I giorni stanno per diventare tre.” minacciò John, seppur col sorriso sulle labbra.

Sherlock spalancò gli occhi “Va bene, va bene!” si arrese e si avvicinò a Mycroft di un passo.

Mycroft arricciò la fronte seguendo il rapido scambio tra John e Sherlock come se stesse assistendo ad una partita di tennis. Non poté proprio capire a cosa John si stesse riferendo, ma vederlo esercitare tutto quel potere su Sherlock lo lasciava alquanto titubante: si trattava sicuramente di qualcosa di innocente, ma se il dottore, tornato in possesso del proprio corpo, si fosse approfittato di lui? Poi John fece qualcosa che lo tranquillizzò.

“Bravo il mio piccolo genio.” sussurrò John, smontando la propria postura militaresca per posare una carezza leggera sulla guancia di Sherlock: lo spinse in quel modo verso di sé, riuscendo così a raggiungere con le labbra l'altra gota che lambì in un veloce bacio.

Sherlock non rispose a parole, limitandosi a mugolare a metà tra l'infastidito e il deliziato, cercando John a sua volta con le proprie labbra, ma il dottore si negò, indicandogli Mycroft con un cenno del capo. Sherlock sospirò, ma annuì.

“Allora io ti aspetto qui fuori.” John fece per allontanarsi, ma Sherlock lo fermò con un gesto rapido e istintivo. Vide Sherlock aprire la bocca, ma le parole morirono sulle sue labbra: John poté tuttavia intuire il cruccio del consulente investigativo, infatti gli strinse la mano e lo rassicurò “Sarò qui fuori dalla porta, Sherlock. Non mi muoverò. Non me ne andrò.”

Sherlock ricambiò la stretta prima di lasciarlo andare, quindi annuì in silenzio. Lo seguì con lo sguardo e, nonostante le rassicurazioni, quando la porta si chiuse deglutì e gli venne una fastidiosissima pelle d'oca.

“Sherlock?” lo chiamò Mycroft, pur restando un poco in disparte “Vuoi spiegarmi?”

Sherlock faticò a spostare lo sguardo dalla porta, ma quando lo fece inspirò ed espirò a lungo, cercando come sostegno il bordo della scrivania sulla quale si appoggiò. Alzò poi uno sguardo lucido su Mycroft, verso il quale sospirò pesantemente, visibilmente agitato.

Mycroft inarcò un sopracciglio e, pur non capendo totalmente l'entità dell'agitazione del fratello, gli si avvicinò e con molta lentezza si appoggiò a sua alla scrivania, a fianco a lui. Vide Sherlock seguirlo con lo sguardo e fu felice di vederlo accettare quella prossimità senza riserva alcuna. Rimase in silenzio, attendendo con pazienza le parole del fratello minore.

“Vuole che mi riappacifichi con te.” iniziò Sherlock, riportando lo sguardo sulla porta chiusa “Così come lui ha intenzione di riallacciare i rapporti con sua sorella.” deglutì, portando la mano leggermente tremante sul proprio viso, torturandosi nervosamente il labbro inferiore “A quanto pare, vivere molti mesi in uno stato di, beh, prigionia, dà da pensare. Fa venire voglia di sistemare le cose lasciate in sospeso.”

Mycroft annuì, ma non parlò. Intrecciò le braccia al petto ed osservò a sua volta la porta del suo ufficio con la stessa intensità di Sherlock, come se stesse a sua volta guardando lo stesso John.

“Ha detto che la mia paranoia nei tuoi confronti è troppa e decisamente ingiustificata.” continuò il minore degli Holmes “Mi ha illustrato la situazione in modo oggettivo e, effettivamente, potrei aver esagerato.” sospirò e nonostante le sue parole potessero risultare sincere, la sua agitazione non dava cenno di allentare “In fondo volevi solo proteggermi.”

A quel punto Mycroft ruotò il capo verso Sherlock: la sua espressione non mutò, se non per un lieve inarcamento di sopracciglia dato dalla sorpresa per le parole appena udite. La cosa che trovò particolarmente rilevante era che Sherlock stava sì parlando perché imboccato da John, ma era altrettanto vero che il suo cocciutissimo fratello non avrebbe mai detto qualcosa che non avesse pensato sul serio. Dunque apprezzò quelle sue ammissioni. Stava per replicare, ma poi lo vide esitare su qualcos'altro, quindi attese.

“E poi voglio disintossicarmi del tutto.” mormorò “John mi aiuterà.” aggiunse infine, continuando a torturarsi le labbra con le unghie appena pronunciate.

Fu Mycroft a sospirare a quel punto: non si aspettava così tanto. Non da un momento all'altro, non senza altre assurde guerre fraterne. Continuò ad osservare Sherlock che neanche per un istante aveva sciolto il contatto visivo con la porta. Capì dunque che la sua agitazione era tutta da ricondursi a John, all'irreale e paranoico timore che quella persona così importante per lui potesse sparire da un momento all'altro, soprattutto ora che ritornato in sé. Desiderava poter far qualcosa di utile per rincuorarlo in quel momento di evidente difficoltà, ma viveva a sua volta con la costante paura di fare sempre qualcosa di sbagliato con Sherlock, qualcosa che potesse essere frainteso, qualcosa che per loro era così innaturale da risultare inopportuno. Ma così come Sherlock aveva messo da parte l'orgoglio, anche lui trovò giusto rischiare qualcosa “Grazie.” alzò la mano destra sulla nuca del fratello che, dopo un irrigidimento iniziale, si acclimatò con quella sensazione: smise di tormentarsi le labbra e per qualche istante ruppe anche il contatto visivo con la porta. Mycroft gli sorrise ed estese quella piccola carezza fino alla base del collo che sentì teso e nervoso come mai avrebbe immaginato che fosse “Perché sei così agitato?” avrebbe voluto aggiungere di non preoccuparsi, che era al sicuro, ma le parole non gli uscirono dalla bocca.

Sherlock riprese a toccarsi le labbra in modo compulsivo “L'hai visto? Non è magnifico?” indicò la porta con un cenno del mento “È così forte, così travolgente. Ed è pure intelligente.” disse poi, non senza una punta di stupore “È molto più di quanto io possa mai meritare.” sospirò per poi bisbigliare “E prima o poi se ne renderà conto.”

“L'ho visto.” annuì Mycroft che liberò il collo di Sherlock a favore della sua mano: fermò quel continuo tormentare viso e labbra, stringendogliela forte “E ho visto anche come ti guarda, Sherlock. E puoi stare tranquillo che...” si fermò, poi, quando udì dei piccoli ma secchi rumori provenire dalla porta. Sentì che anche Sherlock alzò lo sguardo e tese le orecchie. Sembrava una sequenza precisa che sembrò ripetersi per la seconda volta dopo una breve pausa.

 

… / --- / -. / --- / … / . / -- / .--. / .-. / . / --.- / ..- / .. / . / .. / .- / ... / .--. / . / - / - / ---

Sono sempre qui, ti aspetto.

 

Mycroft sorrise, mentre Sherlock sembrava ancora incredulo.

“Un codice morse. Ingegnoso.” commentò Mycroft, riportando lo sguardo su Sherlock il cui respiro accelerò leggermente. Gli lasciò la mano che Sherlock portò subito sul proprio viso, nascondendoglielo almeno in parte: sorrise, quindi gli circondò le spalle col braccio, accarezzandogli la schiena com'era solito fare quando erano più giovani e ancora non si detestavano. Lo sentì rilassarsi appena, sfogando almeno in parte la tensione accumulata in quelle settimane piene di apprensione “Visto? Non sembra intenzionato a volersi liberare di te tanto facilmente.”

Sherlock trattenne a stento due lacrime che però gli inumidirono gli occhi, ora lucidi per l'emozione. Si morse il dorso dell'indice e vide Mycroft sorridere a quel gesto, consapevole di aver scatenato in lui un ricordo della loro infanzia, di quando Sherlock era già abbastanza orgoglioso da non voler piangere in alcun modo e usava quel metodo per trattenersi il più possibile. Gli scappò poi una piccola risata che pose fine alla lunga serie di tic che lo avevano colto in quel frangente, quindi rialzò lo sguardo su Mycroft e nonostante gli sembrasse strano ridere assieme a lui dopo tutti quegli anni di ostilità, lo trovò comunque gradevole. Sapeva che quell'episodio era una piacevole eccezione data dalla particolare concentrazione emotiva del momento, conscio anche del fatto che avevano entrambi un carattere molto ostico con cui avere a che fare, ma era altrettanto consapevole che quel muro che li divideva da anni poteva essere scavalcato. Bastava avere il sostegno adatto per la rampicata e quel sostegno altri non era se non John.

Quando stava per congedarsi dal fratello, Sherlock riconobbe una catena diversa da quella che solitamente ornava l'orologio da taschino di Mycroft: allungò la mano e recuperò in mano il monile senza preoccuparsi di chiedere il permesso al suo legittimo proprietario. Vide Mycroft spostare lo sguardo altrove, ma non si curò di quella reazione “Non è quello di papà. Tu porti sempre quello di papà.”

“Evidentemente no.” commentò Mycroft, cercando di riprendere l’orologio in mano.

Ma Sherlock glielo vietò, analizzandolo a fondo, aprendolo per ammirare il quadrante e stupendosi dell’incisione letta all’interno del coperchio “Oh.” commentò, prima di procedere col fiume di intuizioni che lo stava investendo “Questo orologio è molto bello e nonostante te ne abbiano regalati molti in questi anni, tu non lo avevi mai cambiato. Eri troppo affezionato a quello di papà per sostituirlo, quindi il fatto stesso che tu abbia cambiato idea significa che chiunque ti abbia regalato questo conti molto per te. L’incisione lo conferma.” la lesse, poi, a voce alta “We belong to us.”

Mycroft sospirò e, dopo aver allungato la mano, finalmente riuscì a riprendere tra le mani il proprio orologio: aveva passato il pollice sul vetro del quadrante, ripulendolo come era solito fare, quindi lo nascose nuovamente nel taschino. Non disse nulla, tuttavia. D’altronde l’incisione parlava da sé.

“Scusa.” lo sorprese Sherlock “Sono stato così impegnato a farti la guerra e a crearti problemi da non essermi accorto che avevi trovato qualcuno di speciale.”

Mycroft spalancò nuovamente gli occhi: quella giornata era veramente piena di sorprese “Non scusarti, non ce n’è davvero bisogno.”

Sherlock intrecciò le braccia al petto e si appoggiò nuovamente alla scrivania “Allora, chi è?”

Il maggiore degli Holmes inarcò un sopracciglio “Davvero lo vuoi sapere?”

“Non mi importerebbe più di tanto se tu non sapessi tutto di John.” che era il modo di Sherlock per dire gli sembrava giusto pareggiare i conti in quella giornata atipica. Do ut des.

Mycroft decise di accontentarlo. D'altronde, se desiderava entrare nella vita di Sherlock, era anche giusto che lui gli desse qualcosa in cambio. Uno scambio equivalente: la sua relazione per quella del fratello “Insegna filosofia alla Goldsmith’s.” (3)

“Un insegnante di filosofia?” Sherlock non poté fare a meno di risultare, se non sarcastico, quanto meno stupito “Sul serio?”

Mycroft fece spallucce e si unì alla nota ironica del fratello “Pure di quelli fissati con la morale e l’etica.”

Sherlock sbuffò divertito “E come riuscite a conciliare il tuo lavoro con la sua mentalità?”

Il maggiore degli Holmes rise a sua volta “Lo tengo al di fuori del mio lavoro.”

“Come diavolo l’hai conosciuto un professore di filosofia?” domandò poi il più giovane.

“In un locale. Io ero ad un appuntamento con un uomo più giovane di me e Tom con uno più vecchio di lui.” Mycroft sorrise al ricordo di quella sera “Eravamo seduti in due tavoli vicini. Ci siamo notati e abbiamo fatto di tutto per metterci in mostra a discapito dei nostri due accompagnatori.”

Sherlock usò la propria capacità di astrazione per immaginare la scena “Deve essere particolarmente arguto per piacerti.”

“Sa tenermi testa. Ed è molto bello.” Mycroft rise malizioso “E fa quella che cosa che...”

“Oh.” lo interrompe Sherlock con una risatina sibillina “Ti piace sul serio.”

Mycroft sorrise così tanto da formare due piccole fossette tra le guance e le labbra “Apparentemente.”

Sherlock sorrise a sua volta, compiaciuto “Unione civile?”

Mycroft annuì “Ci stiamo pensando.”

“Bene.” Sherlock sembrava veramente soddisfatto da quell'incontro e da quelle notizie. Si staccò poi dal bordo della scrivania, diretto verso la porta “Ora vado.”

“Sherlock.” Mycroft riuscì a fermare il fratello con la propria voce “Quand’è successo che John ha recuperato il proprio corpo?”

Sherlock si fermò “Questa notte.”

“Ti ha raccontato tutto?” chiese Mycroft, spostandosi a sua volta dal mobile antico.

A quel punto Sherlock sospirò “Non ancora.”

Mycroft riguadagnò il proprio posto dietro la scrivania, ma ancora non si sedette “Fai in modo che non ci siano più segreti tra di voi.”

“Come tra te e il tuo amato professore?” ironizzò il più giovane.

“I segreti di stato non riguardano la nostra vita di coppia.” Mycroft replicò prontamente, come se si aspettasse quella domanda.

Sherlock reclinò il capo di lato e inarcò uno degli angoli della bocca in un'espressione saccente “Oh, vuoi dirmi che non hai controllato il suo passato alle sue spalle.”

“Ovvio che l’ho fatto.” Mycroft rispose con uno sbuffo a quella domanda così scontata.

Sherlock, d'altro canto, non si aspettava una risposta diversa “E l’ha scoperto?”

Mycroft si sedette “Sì.”

“Cos’è successo?” il giovane Holmes a quel punto era veramente interessato a quella risposta: d'altronde suo fratello maggiore non era l'unico ad aver omesso delle informazioni al proprio compagno.

“Ho rischiato di perderlo.” ammise il politico, con tranquillità.

“Ho capito.” Sherlock non era sicuro del fatto che fosse realmente accaduto quanto raccontato da Mycroft: che lui avesse fatto ricerche sul passato del suo compagno non era strano, ma che lo avesse scoperto sul serio lo trovava alquanto improbabile. Che fosse un velato consiglio, quello di suo fratello? Ci avrebbe riflettuto più tardi “Arrivederci, Mycroft.”

“A presto, Sherlock.” lo salutò a sua volta e prima che il consulente investigativo uscisse dal suo ufficio, gli si rivolse un'ultima volta “E ricordati: se hai bisogno di me...”

“Sì, sì.” lo liquidò Sherlock, sbuffando teatralmente “Lo so.” gli sorrise, tuttavia, prima di aprire la porta e sparirvi dall'altra parte.

 

Dall'altra parte della porta, John lo stava aspettando ad un passo dall'uscio, le mani dietro la schiena, le spalle dritte, il portamento fiero. Si sciolse, tuttavia, quando lo vide riemergere dall'ufficio di Mycroft con un leggero sorriso disegnato sul volto. Sorriso che si aprì considerevolmente quando confermò la sua presenza in quel luogo.

“Andiamo a casa nostra?” propose John, anticipandolo di due passi.

Sherlock sapeva che John aveva specificato l'aggettivo possessivo all'interno di quella frase per tranquillizzarlo ulteriormente e non poté che provare una sempre più crescente affezione nei riguardi di quell'uomo. Annuì, dunque, raggiungendolo finché non furono spalla a spalla, adeguandosi l'uno al passo dell'altro.

Quando stavano per lasciare il numero dieci di Downing Street, Sherlock vide incamminarsi verso di loro un bell'uomo vestito con un completo classico e non poté proprio non accorgersi di un po' di polvere di gesso imbiancargli leggermente la spallina destra del cappotto. Sorrise infingardo e quando stavano per incrociare i suoi stessi passi, si rivolse a John usando un tono di voce abbastanza alto da essere udito anche da quel gentiluomo “Chi è che sosteneva che il mondo altro non è se non ciò che ciascun uomo vede tramite la propria volontà?”

Mentre John arricciò le sopracciglia mormorando un monosillabo interrogativo, l'uomo che li stava per oltrepassare alzò il capo e rispose alla domanda di Sherlock “Arthur Schopenhauer.” suggerì, quindi camminò oltre “Con permesso.”

“Oh, Schopenhauer, giusto. Grazie mille.” Sherlock rispose a quella cortesia scostandosi in modo da cedergli il passo e, dopo che l'uomo li ebbe oltrepassati di qualche passo, lo studiò con un sorriso sghembo disegnato sul volto “Interessante.”

John alternò lo sguardo tra Sherlock e l'uomo che era appena entrato nello stesso portone dal quale erano usciti, quindi tornò sul consulente investigativo “Vuoi spiegarmi?”

“Dovevo solo confermare una tesi.” ghignò serafico e prima che John potesse chiedere ulteriori spiegazioni, corse a fermare il taxi che vide sbucare in fondo alla strada.

 

°oOo°

 

Passarono due giorni e niente sembrava più normale della vita che John e Sherlock stavano conducendo. Sherlock si dedicava ai propri esperimenti, John assisteva curioso. John cucinava, Sherlock mangiava. Sherlock dichiarava al mondo la propria noia, John lo sopportava. John usciva di casa, Sherlock lo seguiva.

A Sherlock però sembrò strano che John si comportasse così normalmente: non sembrava minimamente turbato dalla dissociazione, dai ricordi della guerra riemersi, dal gatto che gironzolava per casa e che portava il nome del suo più caro amico morto in circostanze a lui ancora non conosciute. Amico. Douglas era veramente stato solo un amico? Sherlock avrebbe voluto chiederglielo in ogni momento. Quel pensiero lo tormentava ancor più di conoscere la causa scatenante della dissociazione, ma se John non aveva voglia di parlarne, allora lui avrebbe rispettato la sua volontà.

Passavano intere ore a studiarsi a vicenda: John potendo finalmente interagire con quell'uomo che, in qualche modo, conosceva da dieci mesi; Sherlock imparando a capire colui col quale aveva convissuto ma che era in realtà diverso dalle due metà di lui con cui aveva interagito fino a quel momento. I gesti affettuosi che si scambiavano erano dolci, ma celati da un velo di soggezione che copriva entrambi per diverse, ovvie, ragioni.

Un'altra cosa che a Sherlock risultò strana, era scoprire che non solo John andasse a dormire più tardi di lui, ma che lo ritrovasse, poi, il giorno seguente, alzato ancor prima che lo stesso consulente investigativo mettesse piede nel soggiorno. Era un'altra delle tante, piccole cose che Sherlock continuava a tenere per sé: sentiva di non essere se stesso in quei giorni, sapeva di andare contro al suo fastidiosissimo temperamento che solitamente gli avrebbe imposto di scavare alla ricerca delle risposte che cercava. Ma la verità era che John aveva ragione: la sua paura ingiustificata di perderlo se anche solo avesse spostato lo sguardo da lui per un solo istante, non gli faceva vivere appieno la gioia che invece avrebbe dovuto provare in quella circostanza. Era una paura irrazionale e, in quanto tale, soggiogava il suo cervello come se si fosse trovato di fronte ad un terrificante mastino geneticamente modificato.

Il terzo giorno, tuttavia, qualcosa sarebbe cambiato.

 

Quella notte Sherlock non riusciva proprio a prendere sonno: non che fosse strano per lui, ma complice lo stress che lo aveva sfibrato recentemente, le notti passate era riuscito a dormire almeno sei ore filate ciascuna. D'altro canto, non era neanche il tipo da rigirarsi nel letto finché non avesse preso sonno per inerzia, quindi decise di alzarsi.

Erano le quattro del mattino, quindi gli risultò alquanto strano trovare John seduto sul divano con il proprio laptop acceso sulle gambe. Non ci fu tuttavia bisogno di spiegare nulla: collegò le occhiaie di John al suo recente incremento di caffeina e intuì facilmente quale fosse il problema.

“Potevi dirmelo.” mormorò quando gli arrivò vicino. Gli tolse gentilmente il computer portatile dalle gambe e dopo averlo posato sul tavolino di fronte al divano, gli si sedette accanto.

John sospirò, ma non si preoccupò di negare il tutto, non di fronte all'intuitivo coinquilino che si ritrovava “Non volevo farti preoccupare per niente.”

Sherlock scosse il capo “Non devi preoccuparti così tanto per me. Sono sopravvissuto trent'anni senza te.”

“Gentile.” borbottò John, fintamente offeso.

Sherlock mugolò una lunga nota nasale “Lo sai cosa intendevo dire.”

John rise leggermente “Sì, ma mi piace stuzzicarti.”

Sherlock gli passò il braccio destro attorno al collo, quindi gli appoggiò la mano sulla guancia per farlo voltare verso di sé. John lo fece e una volta ritrovatisi così vicini, non resistettero all'impulso di scambiarsi qualche piccolo e umido bacio a fior di labbra. Quando Sherlock si staccò da quell'invitante e vellutata forma, accarezzò delicatamente le occhiaie di John “Quindi hai deciso di non dormire?” quando vide l'altro provare a distrarlo con l'ennesimo bacio, il consulente investigativo si negò “Fa male al tuo fisico. Ha già subito uno shock enorme, non puoi anche privarlo del sonno.”

“Da quando sei diventato un sostenitore del vivere sano?” ironizzò John che, in realtà sapeva bene di stressare il proprio corpo con quella forzatura: erano quasi quattro giorni che non dormiva e lui stesso non si capacitava di essere rimasto sveglio così a lungo. Lesse sul volto di Sherlock la sua preoccupazione e il desiderio di risposte che si portava dietro da quando aveva districato il dilemma della dissociazione psichica, ma la verità era che per quanto si mostrasse forte per non turbarlo, lui stesso era timoroso nei riguardi di se stesso. Sospirò ed appoggiò la nuca sul braccio che Sherlock gli aveva avvolto attorno alle spalle “Non voglio chiudere gli occhi e rischiare di perdermi nuovamente.”

“Non succederà.” replicò Sherlock senza neanche pensarci su “Sei tu il più forte, John.”

John sospirò nuovamente e alzò uno sguardo strano verso Sherlock. Era uno sguardo duro, ma anche molto triste “La verità è che anche se succedesse, tu mi terresti qui in ogni caso.” non voleva essere una critica vera e propria. Non nei riguardi di Sherlock, quantomeno, ma molto più verso se stesso “Mi viene da pensare che di me ti affascini solo il bizzarro caso clinico quale sono.”

“Mentirei se dicessi che all'inizio non mi aveva attratto questo di te.” mormorò, perché sapeva che la verità poteva spesso far male “Ma tu lo sai bene che non è più così da molto tempo.” nuovamente gli accarezzò la guancia per farlo voltare verso di sé “Ed è vero. Ti terrei sempre qui perché se dovesse succedere, e fidati che non accadrà, io passerei comunque il resto della mia vita a cercare di ritrovarti.”

John chiuse gli occhi, emozionato dalle parole di Sherlock. Gli sembrava ieri di essere partito per la guerra perché a Londra non aveva nessuno che tenesse a lui e invece oggi c'era un uomo fantastico pronto a lottare per lui. Riaprì gli occhi, poi, per specchiarsi in quelli di Sherlock “Come sai che non succederà?”

“Perché io ho visto il progresso della tua dissociazione. E il diurno e il notturno erano ormai allo stremo delle forze, non potevano più reggere contro di te.” si sentì sicuro nel dare quella risposta a cui credeva fermamente dal punto di vista oggettivo.

John rimase appoggiato al braccio di Sherlock con la tempia sinistra: era molto stanco e la voce profonda di Sherlock aveva un effetto calmante “Ti mancano?”

“Loro sono te, John.” Sherlock alzò la mancina sul volto di John, accarezzandolo lievemente, sperando di conciliargli il sonno in qualche modo “In alcuni tuoi gesti io vedo anche loro. Ed è ovvio che sia così perché erano parti della tua personalità. Vedo il diurno in tutte le tue premure nei miei confronti e vedo il notturno quando ci scontriamo e fai prevalere le tue idee.” sorrise di riflesso quando vide John fare lo stesso “E poi ci sei tu: la tua furbizia, la tua intelligenza, la tua esperienza. La tua identità, John, è la più forte perché sei l'originale.”

John chiuse gli occhi, sfiorando con le labbra la mano con cui Sherlock gli stava accarezzando il viso “Come avrei fatto senza di te?”

“Ci avresti messo più tempo, ma alla fine ce l'avresti fatta comunque.” perché il suo John era la persona più forte che avesse mai conosciuto, pensò inoltre. Sherlock si piegò lentamente e nel farlo trascinò con sé John con movimenti cauti e morbidi: riuscì così a far sdraiare anche l'ex medico militare e ad avvolgerlo nel proprio abbraccio protettivo e premuroso “Dormi. Ci sono io qui con te.”

John si arrese alla stanchezza e alle premure di Sherlock, allacciandogli le braccia attorno alla vita e appoggiando il lato destro del proprio viso al centro del suo petto magro ma caldo “E se spuntasse fuori il notturno e abusasse sessualmente di te?” ipotizzò, poi, seppur scherzoso.

Sherlock mugolò fingendosi pensieroso “Non so se in tribunale verresti assolto con questa scusa, sai? C'è ancora una disputa in atto a riguardo tra Filosofi della Mente, Filosofi della Morale, psichiatri, psicologi e intero corpo giudiziario.”(4) sorrise e strinse John a sé, baciandogli la fronte “La prossima volta lo chiediamo al fidanzato di Mycroft.”

“Ragionamento troppo complicato ora. Ho sonno.” borbottò John, la voce ovattata dalla maglia di Sherlock sulla quale stava strusciando il volto.

Sherlock non poteva certo biasimarlo, ma non poteva neanche esimersi dal porgli una delle molte domande che affollavano il suo infinito Palazzo Mentale “John? Credi che sia opportuno pensare che il notturno abbia tentato più volte di assalirmi sessualmente perché lo volevi anche tu? Fare sesso con me, intendo. In fondo il notturno era la parte più istintiva di te.”

“Credo che sia opportuno, sì.” John gli fece il verso e, guadagnandosi un pizzicotto sul fianco a causa di ciò, decise di rimediare “Mi sei piaciuto da subito.” ammise, per poi stringerlo possessivamente e borbottare “Meno male che quel bastardo non ce l’ha fatta.”

“Non ce l’ha fatta perché io non l’ho permesso.” precisò Sherlock, adattandosi con piacere alla stretta di John “Io volevo solo l’originale.”

“Ringrazia che l’originale ora abbia davvero troppo sonno per saltarti addosso.” John ridacchiò e il tono di voce più roco sottolineava quanto effettivamente fosse vicino all’addormentarsi.

Sherlock, d’altro canto, si era svegliato ormai del tutto “Allora proverò a provocarti quando sarai di nuovo sveglio.”

John ridacchiò e sussurrò divertito “Sgualdrina.”

“Pervertito.” ricambiò Sherlock ed entrambi risero a cuor leggero.

Pochi minuti dopo John si addormentò sereno tra le braccia di Sherlock, il quale avrebbe vegliato su di lui tutta la notte e, la mattina seguente, lo avrebbe accolto con il buongiorno, un sorriso e la conferma che l’unico e originale John si era definitivamente impossessato del proprio corpo fino a che non avesse smesso di respirare.

 

°oOo°

 

Trascorsero altre due settimane durante le quali John sembrò non aver più problemi riguardo al dormire e ai dubbi circa il consolidamento della propria identità.

Sherlock, invece, sebbene tentò di nasconderlo in tutti i modi possibili, non solo visse con apprensione i due giorni di lontananza in cui John aveva incontrato Harry, ma continuava anche a rimuginare sempre più sulle domande che avrebbe voluto porgli e che gli morivano sempre a fior di labbra. Ma un giorno, convinto dalla sua profonda paranoia che John stesse osservando il loro gatto Douglas un po' troppo profondamente rispetto al modo in cui sarebbe lecito osservare un semplice felino, scoppiò.

“No. Basta.” sbottò Sherlock, costringendo poi John a sedersi sul divano “Noi due dobbiamo parlare.”

Dapprima John spalancò gli occhi, stupito dall'improvvisa uscita di Sherlock. Tuttavia, quando lo vide allontanare il gatto a favore del computer portatile, sembrò capire a cosa Sherlock si stesse riferendo “Fammi indovinare. Mi hai mentito. Anzi, no.” alzò l'indice della mano destra, sottolineando con ironia la giustificazione che Sherlock aveva spesso usato con lui “Hai omesso delle informazioni che mi riguardano.”

Sherlock mugugnò sottovoce, colto in fallo, ma non desistette dal proprio intento: si sedette accanto a John dopo aver appoggiato il laptop sul basso tavolino da the e intrecciò le braccia al petto “Ho bisogno di sapere, John.”

“Cosa, nello specifico?” concesse John che, comunque sia, dovette ammettere che un individuo curioso e volitivo come Sherlock aveva rispettato fin troppo i tempi di cui una normale persona avrebbe necessitato dopo aver superato una patologia così particolare.

Ma Sherlock ignorò la domanda diretta di John, dando una propria motivazione personale per quella sua insistenza “Tu sei la prima persona di cui io mi sia mai innamorato, John. E dubito fortemente che un individuo come me sia in grado di ripetere l'esperienza, soprattutto se il mio attuale compagno mi nasconde delle informazioni. Non sarei più in grado di fidarmi di qualcuno, né lo vorrei.”

John non fece in tempo a sorridere per quella inequivocabile confessione di Sherlock che dovette arricciare le sopracciglia di fronte al seguito del discorso “Di cosa stai parlando?”

“Douglas.” asserì Sherlock senza più alcuna esitazione “E non sto parlando del nostro gatto.”

John sospirò affranto “Tu...” portò le mani sul viso, strofinando pesantemente i propri occhi: evidentemente non era ancora pronto a parlare di lui “Cosa sai di Douglas?”

Il consulente investigativo distolse lo sguardo perché scoprì quanto fosse straziante leggere il dolore sul viso di John “Ho visto tutti i video-log. Era questo che avevo omesso.” abbassò anche il tono di voce, almeno in parte costernato per la propria persistenza sull'argomento “Hai presente il DVD che c'era nel fascicolo? Erano lì. E io li ho visti tutti. Dal primo all'ultimo.”

Gli occhi di John si spalancarono e finalmente capì perché Sherlock si era premurato di portare il laptop con sé durante quella conversazione. Ricordò rapidamente i contenuti di alcuni videolog e oltre ad intuire il cruccio di Sherlock, espresse un urgente desiderio “Vorrei vedere l'ultimo.” vide Sherlock annuire e preparare il computer portatile in modo da lanciare il filmato con un solo comando e nel momento in cui lui avesse desiderato. Non poté fare a meno di accorgersi che Sherlock si era zittito dal nulla: la sua espressione triste era l'ennesima tortura subita in tutta la sua vita, quindi si sentì in dovere di allungare la mancina verso la sua e stringerla forte. Ne avevano bisogno entrambi, seppur per motivi diversi “Poi ti spiegherò tutto.” sussurrò e, quando si sentì pronto, lanciò il filmato pigiando la barra spaziatrice.

John strinse ulteriormente la mano di Sherlock quando riconobbe prima la voce e poi la figura di Douglas sullo schermo del laptop, ritrovandosi costretto a mettere in pausa il filmato dopo pochissimi secondi in quanto sopraffatto dalle emozioni che lo colpirono. Ansimò e schiacciò il viso contro la spalla di Sherlock per fermare la troppa aria che stava inalando e che lo stava soffocando.

Sherlock sciolse la presa delle loro mani e lo strinse, guidando il capo di John in modo che potesse comunque fermare quell'attacco di panico sul nascere: gli tenne la mancina sulla nuca, mentre con la destra gli strofinò la schiena. Non ci volle molto prima di sentire la maglietta del proprio pigiama inumidirsi appena sotto le lacrime di John: provò tristezza, ma anche molta, tantissima rabbia “Spengo.”

Ma John lo fermò “No.” riemerse col viso dall'abbraccio di Sherlock, ma non vi si staccò del tutto “Io voglio vederlo vivo. Devo togliermi dalla testa l'ultima immagine che ho di lui. Devo farlo.” inspirò a lungo, quindi, rimanendo appoggiato a Sherlock, fece ripartire il filmato “Devo farlo assolutamente.”

A Sherlock non interessava più vedere quel videolog, quindi, seppur contrariato, sostenne John: lo teneva stretto a sé come una madre protettiva abbraccia il figlio impaurito, controllando tutte le sue reazioni, col suo cuore che perdeva battiti ad ogni lacrima del suo compagno.

“Johnny! Non si dice che è l'ultima missione! Porta male! Maledetto te, i leprocauni e tutti i folletti a pecorina! Se oggi ci ammazzano sarà tutta colpa tua!”

Quel momento fu straziante. John si aggrappò a Sherlock e si sfogò in un pianto violento e irrefrenabile, mentre il consulente investigativo ebbe il timore che l'ex medico militare potesse avere una ricaduta di fronte ad uno shock così tremendo.

“Non è stata colpa tua.” ripeté più e più volte Sherlock, che per la prima volta nella vita sentì il bisogno di dire una banalità vestita da assoluta e comprensiva verità. Pronunciò più volte anche il suo nome, cullandolo nell'unica certezza che gli premeva di stabilire, provando a consolarlo da quel dolore che si sarebbe portato dietro per molto tempo ancora.

Nel frattempo, il filmato stava per concludersi.

“Ancora l’ultima missione, poi tornerò a casa assieme a quel pazzo irlandese. Maiwand, ecco come si chiama la cittadina in cui andremo a fare il sopralluogo: sembra tranquilla, a giudicare dalle immagini inviate dei satelliti. Forse troppo tranquilla, come se… ma no, mi sbaglio sicuramente. Ora vado. Addio, strizzacervelli.”

“Lo sapevo.” mormorò John “Cazzo, lo sapevo! Dovevano ascoltarmi!” imprecò poi, alzandosi con uno scatto nervoso: inciampò sul tavolino, ma ciò non fermò i suoi passi. Iniziò a recuperare le chiavi di casa, il portafoglio e sembrò diventare matto quando non trovò subito il cellulare.

“John?” anche Sherlock si alzò, osservandolo cercare i propri effetti personali con impazienza “Stai uscendo? Dove stai andando?” domandò leggermente apprensivo.

John fermò la propria frenesia una volta che fu davanti allo specchio del soggiorno. Inspirò a lungo e si asciugò le ultime lacrime che gli rigarono le guance “A fare una cosa che avrei dovuto fare molto tempo fa.” mormorò, quindi osservò Sherlock che, dal riflesso dello specchio, lo stava guardando con occhi sbarrati. A quel punto John gli sorrise e cercò di tranquillizzarlo “Dai, vestiti. Voglio che tu venga con me.”

Sherlock sospirò di sollievo quando riconobbe il suo John al di là dello specchio. Quindi annuì alla sua richiesta e corse in camera a vestirsi.

Pochi minuti dopo erano in taxi: la mancina di John era intrecciata alla mano destra di Sherlock come un'ancora che collegava le loro anime e, soprattutto, come affidabile zavorra per quel mondo in cui entrambi appartenevano.

 

°oOo°

 

Dopo un’ora di viaggio, John e Sherlock giunsero al cimitero militare di Brookwood, nel distretto di Woking. Sherlock si informò in segreteria circa l'ubicazione delle tombe riservate agli eroi del Quinto Reggimento di Northumberland, quindi si recarono nell'apposito campo di sepoltura senza soffermarsi su null’altro che non fosse finalizzato al proprio obiettivo. Rimasero in silenzio e non si guardarono fino a che non furono giunti al campo numero sette: cercarono assieme la fila numero cinque, quindi John precedette Sherlock di qualche passo fino a che non si fermò di fronte ad un gruppo di sei tombe.

John si soffermò davanti ad ognuna di esse prima di tornare al centro e osservarle in gruppo, alternandosi dall'una all'altra, come se avesse di fronte un gruppo di persone e non le loro lapidi. Si accucciò lì dov'era, davanti a quella che era stata una sua beneamata famiglia, quindi alzò lo sguardo su Sherlock, rimasto ancora in disparte, in leggero disagio  di fronte al dolore del compagno.

Il consulente investigativo, tuttavia, interpretò lo sguardo di John come il permesso necessario per potersi avvicinare ed entrare nell'intimità di quel gruppo di cui, di lì a poco, avrebbe ascoltato il triste canto del cigno.

“Ragazzi...” sospirò John, osservando nuovamente i volti dei suoi vecchi commilitoni sulle foto commemorative delle  lapidi “Siete morti così male...” mormorò affranto “Senza onore, senza gloria...” scosse il capo ed apprezzò la vicinanza fisica di Sherlock che gli si accucciò affianco, offrendosi come sostegno.

Sherlock posò la mano sulla spalla di John ed alzò a sua volta gli occhi sui volti di quei soldati, sugli sguardi fieri di quelle foto in cui avevano posato in divisa ufficiale, chi con un cipiglio serio e corrucciato, chi con un sorriso spavaldo e orgoglioso. Sherlock non poteva immaginare il dolore che stesse provando John: provò a ricordare cosa provò lui per morte dei propri genitori e lo moltiplicò otto volte. Ma i sentimenti non erano dei numeri, quindi era conscio che il calcolo non solo era sbagliato, ma che non si avvicinava neanche per difetto al risultato corretto. Inspirò a lungo e riuscì a sussurrare un avvilito “Mi dispiace tanto, John.”

John annuì e, incurante dell'etichetta, si sedette a terra incrociando le gambe “Siediti. Ti racconterò com'è andata.”

“Te la senti sul serio?” chiese Sherlock dopo aver acconsentito alla sua richiesta.

John assentì nuovamente con un cenno del capo “Credo sia anche un modo per onorarli. Non è segreto cosa è successo loro. Non deve esserlo.” sospirò colpevole “Erano tutti dei grandissimi soldati, dei grandissimi combattenti e se quei codardi avessero dato loro un modo per difendersi, non avrebbero fatto quella fine meschina.”

“Quindi non è accaduto durante un combattimento.” intuì Sherlock.

John scosse il capo “Ci avevano catturati.” sospirò “Tutti quanti.”

Sherlock arricciò le sopracciglia, stupito “E tu sei riuscito a scappare da prigioniero? Un'impresa notevole.”

John tenne per sé l'idea che non gli era mai sembrato giusto che lui fosse stato l'unico a salvarsi. Non lo avrebbe mai detto a voce alta perché sarebbe stato un insulto verso la propria vita, verso i propri compagni defunti. E perché avrebbe causato a Sherlock un dispiacere che voleva risparmiargli. Risollevò poi il capo, indirizzandolo verso il consulente investigativo “A Maiwand fu un'imboscata. Ci circondarono senza neanche darci il tempo di capire cosa stesse succedendo.” strinse i pugni e scosse il capo “Avrei dovuto impuntarmi e insistere. Quella zona sembrava troppo tranquilla. Ma non ero io lo stratega e tanto meno il capo squadra, quindi sottostetti agli ordini del comandante.” e fu proprio verso la lapide del comandante Errol Partridge(5) che alzò lo sguardo “Fu il primo a morire. Noi altri sei siamo stati fatti prigionieri e torturati per giorni, chi più a lungo, chi per poco tempo, ma la prima cosa che fecero fu toglierci il comandante. Conoscevamo abbastanza parole del loro dialetto per capire che l'avevano fatto per toglierci la speranza. Dissero qualcosa del tipo che una volta tolta la testa, il resto del corpo non avrebbe resistito a lungo.”  a John venne la pelle d'oca a quel ricordo, quindi si scrollò le spalle per scacciare quei brividi “Applicarono quella metafora in tutti i sensi.” sussurrò poi, a voce così bassa da risultare quasi impercettibile.

Sherlock spalancò gli occhi e la bocca: certo, non era una novità che alcune cellule terroristiche giustiziassero i prigionieri tramite la decapitazione, ma non pensava che John avesse dovuto assistere a tanto. E più ascoltava il suo racconto, più rabbrividiva a sua volta: il suo John era riuscito a scampare a tutto quello, ma non ne era uscito completamente illeso. Non commentò a voce, limitandosi ad intrecciare il braccio destro col sinistro di John a mo' di sostegno e di ancoraggio per quel mondo così crudele e spietato, ma che apparteneva ad entrambi.

John strinse il braccio di Sherlock con la mano libera e riprese il racconto “Ci portarono in una grotta vicina ad un loro accampamento e oltre a privarci della luce del giorno, ci legarono in celle differenti, ma vicine. Ciascuno di noi era incatenato con i polsi legati sopra la testa, dietro a delle sbarre dalle quali entravano e uscivano testando su di noi ferri infuocati e pinze elettriche collegate a vecchie batterie ancora funzionanti.”

E Sherlock capì l'entità dello shock subito da John nel momento in cui riconobbe la modalità della sua prigionia auto imposta all'interno della propria mente: le catene, le sbarre, più le ferite auto inflitte dal suo stesso senso di colpa. Sospirò, quindi intuì la seconda vittima nel momento in cui John allacciò lo sguardo sulla seconda lapide “Russell Edgington è stato il secondo?”

Il sospiro di John fu così pesante che riempì il silenzio del cimitero “Gli unici momenti in cui ci slegavano, erano quando giustiziavano uno di noi. Non prendevano solo chi avevano deciso di uccidere perché volevano che tutti noi assistessimo. E ci riprendevano pure quei bastardi.” John digrignò i denti e strinse con rabbia il braccio di Sherlock al quale si aggrappava costantemente “Russell è stato il secondo e il giorno dopo è stato il turno di Merle Dixon.”

Sherlock annuì ed ascoltò il triste racconto di come Talbot Angelis, Charles Kowalski e Robert Angier morirono senza onore, con paura, ma non senza dignità nonostante quei maledetti terroristi avessero fatto di tutto per di togliergliela. Infine erano rimasti solo John e Douglas, ma quando arrivò il momento di parlare della morte del suo caro amico, l'ex medico militare esitò.

“Eravamo rimasti Douglas ed io.” cominciò infine, incollando lo sguardo sulla foto del tenente McKnight “E l'idea che l'uno avrebbe assistito alla morte dell'altro ci distruggeva ulteriormente. E l'altro sarebbe sopravvissuto da solo. Magari per un giorno solo, oppure dopo un'altra settimana di sevizie.” John scosse il capo, ma dopo aver indugiato ancora qualche istante, si lasciò andare ai ricordi.

 

John e Douglas sono incatenati e imprigionati in due celle adiacenti: sui toraci nudi i segni delle bruciature e dei tagli subiti in quei giorni di torture.

John ha gli occhi fissi su un dormiente Douglas: lo sguardo carico di colpa, di tristezza e di dolore accarezza il viso più giovane del tenente. Non osa svegliarlo, ma dopo una decina di minuti l'irlandese si ridesta da solo, aprendo e chiudendo gli occhi più volte per mettere a fuoco il putridume a pochi passi dai propri piedi. John è ancora silente, ma la prima cosa che Douglas fa non appena la sua vista riprende a funzionare correttamente, è alzare lo sguardo verso di lui.

“Johnny.” sussurra e nonostante tutto riesce a sorridergli “Johnny...” ripete di fronte allo sguardo che il capitano gli dona “Johnny...” dice nuovamente, ancor più impercettibile. Vorrebbe avere qualcosa di stupido o particolarmente spiritoso da dirgli, ma l'ovvia verità è che entrambi non hanno nulla di cui scherzare: la rassegnazione di fronte a ciò che li aspetta non li aiuta ad accettare la loro incombente fine.

Dopo molti minuti di silenzio, John apre finalmente la bocca asciutta dall'arsura “Doug.” mormora e digrigna i denti, perché ogni attimo vissuto prima della fine non è più una benedizione, ma una disgrazia decisa da quello stesso fato che sembrava essersi accanito contro di loro “Ascoltami. Ho un piano.”

Douglas inarca le sopracciglia e capisce dall'espressione seria di John che non sta scherzando “Johnny, prima lo accetterai e prima...”

John lo interrompe “No. Non lo accetterò mai.” ringhia arrabbiato “Ora stai zitto e ascoltami.”

Douglas sospira, ma non ha la forza per controbattere quindi tace.

John annuisce ed inizia ad esporre il proprio piano “Avrai sicuramente notato che il numero di uomini che usano per la nostre esecuzioni è sensibilmente calato via via che anche noi diminuiamo. Ci sottovalutano, pensano di averci ormai distrutto anche mentalmente.”

“E non è vero?” sbuffa Douglas, palesemente e comprensibilmente sopraffatto dalla situazione.

“Doug stai zitto.” replica John, severo nel tono e nello sguardo “Se tutto va bene, saranno solo in cinque la prossima volta: due per ognuno di noi più il boia.” la voce è bassa: i fondamentalisti afghani hanno avuto abbastanza a che fare con gli americani per capire anche qualche parola di inglese “Non sono addestrati come noi: sono lenti e fanno affidamento solo sulle armi, mentre noi siamo in grado di difenderci anche sul piano della lotta fisica.”

Ma Douglas sospira affranto “Johnny, non abbiamo le forze...”

“Smettila e stammi a sentire.” John lo redarguisce ancora e tira le catene che gli legano i polsi con rabbia “Io creerò il diversivo e anche tu lotterai per liberarti, quindi scapperai. Correrai più forte che potrai verso il deserto. Correrai finché ti faranno i male le gambe e i polmoni. Sopporterai il freddo e il caldo e continuerai a camminare finché non incontrerai qualcuno dei nostri. Ci staranno cercando anche se sono già passate due settimane.”

“Sei serio?” Douglas scuote il capo “Credi sul serio che, anche se ce la facessi, potrei lasciarti indietro?”

“Sì, cazzo, sì!” esplode John, che si lascia fuggire un tono di voce irrimediabilmente più alto “Lo dovrai fare! È un ordine!”

Douglas inarca entrambe le sopracciglia e sbuffa “Credi anche che i nostri gradi contino ancora qualcosa qui dentro?”

No, John non pensa che gli obbedirebbe solo perché era il suo capitano e, d'altro canto, non aveva mai fatto valere i propri gradi con lui, ma pur di salvarlo le tenterebbe tutte “Cazzo, Doug, cosa ti dice il cervello? Non ce l'hai un po' di istinto di sopravvivenza? Dovrai fare di tutto pur di scappare, ci dovrai provare con tutto te stesso!”

Douglas, d'altro canto, sembra aver accettato la loro fine “Johnny...”

“Doug, ti prego.” lo implora John che, al contrario di Douglas, non ha accettato la fine che si prospetta loro. Non per Douglas, soprattutto. Così giovane e per il quale prova un affetto incalcolabile “Devi salvarti. Io non...”

Douglas conosce perfettamente il tormento di John: lo conosce abbastanza bene per comprendere il suo senso di colpa e il rimorso che lo sta divorando “Johnny. Non devi sentirti in colpa. Non pensare a quello che ti ho detto, non hai portato sfortuna! La sfortuna non esiste! Sai come sono, lo dicevo così per dire, non ho mai pensato neanche per un secondo che tu...”

Ma John scuote il capo, rinnegando qualsiasi tipo di attenuante “Sapevo che c'era qualcosa che non andava. Dovevo dirlo!”

“Johnny non è colpa tua.” e Douglas lo crede sul serio. Lo ripeterebbe all'infinito, lo scriverebbe a caratteri cubitali sul cielo affinché tutti possano leggerlo.

John, tuttavia, non poteva sopportare l'arrendevolezza di Douglas “E solo perché pensi che non sia colpa mia non vuoi neanche provare a salvarti?”

“Non voglio che soffriamo più del dovuto.” ammette Douglas, umano nella sua paura, giovane nell'apprensione di doverla provare, umile nell'ammetterlo senza riserve “E se il tuo piano fallisse? E ci torturassero in modi ancora più terribili?”

John ha tenuto conto di quell'evenienza quando ha elaborato il piano, ma aveva comunque concluso che la vita di Douglas era il piatto più pesante di quella fragile bilancia “Doug non puoi arrenderti perché hai paura.”

“Ma io ho paura, Johnny!” sospira Douglas che per qualche istante distoglie lo sguardo da John.

“Ce l'ho anche io!” ammette John, comprensivo “Ma non posso andarmene da questo mondo senza sapere che non le ho provate tutte.”

“Allora io non ho il tuo coraggio.” Douglas scuote il capo, osservando fuori dalle sbarre.

John, invece, non ha mai distolto lo sguardo da lui “Io lo farò, Doug. Quindi farai bene a tenerti pronto.”

È in quel momento che Douglas riporta gli occhi su John: è uno sguardo dolce e triste al contempo “Io... non voglio vederti morire.”

John ricambia quel sorriso “E io non voglio che tu muoia.” ed è così felice di rivedere il volto di Douglas contratto non dal dolore, non dalla paura, ma dall'affetto che prova per lui. Non vorrebbe mai andarsene da quel mondo senza vedere il suo sorriso ancora una volta. Poi si stupisce perché sente Douglas ridere.

Douglas capisce che John ha bisogno dei suoi sorrisi e dei suoi scherzi, quindi si sforza di donarglieli nonostante tutto “Desideravo veramente tanto vivere con te a Londra. Andare nei pub insieme, provarci con le ragazze, appendere un calzino alla porta della camera per far capire che stavamo trombando e che quindi l'uno non doveva disturbare l'altro.” allarga il sorriso prima di allungarne uno fintamente malizioso a John “O magari ci saremmo scoperti veramente omosessuali e ci saremmo messi insieme.”

“Anche io lo desideravo tanto.” concorda John, felice di sentire Douglas scherzare un'ultima volta. E si unisce a sua volta a quello scherzo, arricciando il naso verso di lui “Oddio... sarei anche potuto diventare omosessuale, ma con te... brrr, sei più peloso di un orso.”

Douglas assottiglia lo sguardo su John, stupito “Ecco perché guardavi spesso Northman, allora. Alto, secco, slanciato e praticamente glabro. Ti piace sul serio?”

John, seppur legato, ha l'istinto di fare spallucce “Beh, per essere bello, è bello. Ma ha un carattere del cazzo.” sbuffa teatralmente, per poi ammiccare “Geloso, Doug?”

“Ovvio.” sbotta Douglas, fintamente oltraggiato “Il tuo culo è mio, lo dovresti sapere ormai.”

John scuote il capo “No, guarda che dei due sarei stato io l'attivo.”

“E allora vedi? Non poteva funzionare tra di noi, amore.” Douglas lo chiama come è sempre solito chiamarlo di fronte a quei soldati che li prendevano sempre in giro circa il loro legame “Amici per sempre, ma con i nostri rispettivi uccelli puntati altrove.”

A John scappa persino una risata all'ultima battuta di Douglas. Poi ripete “Amici per sempre.”

“Anche dopo la morte.” sussurra Douglas, come se si ricordasse solo in quel momento la situazione nella quale sono incastrati.

Anche John torna serio, adeguandosi al repentino cambio di umore dell'amico “Doug. Tira fuori le palle e prova a scappare.” il tono non è più rabbioso o di comando, bensì rasenta la supplica “Se mi vuoi bene sul serio, fallo.”

Douglas inspira a lungo, poi sospira “Questi ricatti morali non sono da te.”

Quando John sta per replicare, riconosce l'aspro dialetto afghano avvicinarsi e preannunciare con sé l'arrivo dei loro aguzzini “Arrivano.” annuncia a bassa voce, quindi riallaccia lo sguardo con quello dell'amico “Doug.” una sola parola, cento velate suppliche.

“Johnny.” mormora Douglas a sua volta, ma il suo volto non preannuncia nulla di buono: è terrorizzato, sopraffatto, oltremodo scoraggiato “Ho paura.”

John prova a sorridergli e prima che i terroristi aprano le celle, tenta di incoraggiarlo un'ultima volta “Ti coprirò io le spalle.”

 

Quando i quattro uomini li portano fuori dalla grotta, John e Douglas impiegano qualche istante ad abituarsi alla luce diurna: piove, ma la luce del sole è forte anche se filtrata dalle nuvole, soprattutto dopo due giorni di completo buio. Quindi sbattono più volte le palpebre fino a che l’alone rotondo smette di interporsi tra i loro occhi e i terroristi che li posizionano uno di fronte all’altro. Fanno sempre così: li hanno fatti assistere in prima fila alle esecuzioni dei loro compagni, divertiti dal loro dolore e dalla loro impotenza di fronte all’inevitabile.

Tuttavia, ora, essendo rimasti solo in due, né John né Douglas hanno ancora capito a chi toccherà l’infausta sorte: il boia è ancora in mezzo a loro e alterna lo sguardo sul capo di entrambi, con in mano una scimitarra sporca la cui lama ha perso il filo molto tempo fa. Poi la scelta. Il boia decide: oggi toccherà a John. Douglas ha un sussulto, mentre John sembra tranquillo.

John è contento della scelta: avrà tre uomini su di sé, Douglas uno in meno. Alza lo sguardo sull’amico e spalanca gli occhi in un tacito segnale, ma, col senno di poi, avrebbe dovuto capire che il giovane irlandese non ce l’avrebbe fatta. Manca di convinzione ed eccede di paura. Ma John decide di provarci lo stesso.

Prima che il boia si avvicini abbastanza, John afferra il fucile che uno dei due afghani gli punta contro e lo piega sotto la propria ascella con un movimento rapido e studiato: gli disloca la spalla prima ancora che possa accorgersene. Appropriatosi del fucile, riesce a sparare in pieno petto contro uno due uomini che tiene Douglas sotto tiro prima che lo disarmino.

John guadagna un pugno e il calcio del fucile dritto nella stomaco, ma peggio ancora, quando rialza lo sguardo scopre che Douglas è congelato a terra. Non ha avuto i riflessi e la freddezza per alzarsi e correre.

“Doug...” lo chiama mentre guadagna un calcio dall’afghano al quale ha dislocato la spalla.

E Douglas ora ha solo il timore di vedere John preso a calci e pugni fino a che non morirà e non riesce neanche a chiedergli scusa. Abbassa il capo sconfitto e John, nuovamente immobilizzato, può vedere le sue lacrime bagnare la sabbia in piccoli cerchi perfetti.

John non sa perché, ma non riesce a provare paura: il sentimento che lo domina è la rabbia. Rabbia condita di frustrazione. Vorrebbe urlare, ma non darà a quei terroristi la soddisfazione di pensare che si è arreso. Non lo farà finché la sua testa non rotolerà sulla sabbia afghana, finché i suoi occhi non vedranno Douglas un’ultima volta, finché spererà fino all’ultimo per un miracolo.

Poi accade qualcosa che John non si aspetta: riconosce qualche parola in fārsi, frasi di scherno nei riguardi di Douglas verso il quale sputano dispregiativamente. Ridono, i tre rimasti sani, e il fatto che non chiamino altri di loro in supporto è sintomo di quanto li ritengano deboli, nonostante la reazione di John, il soldato che nonostante tutto decidono di premiare: il boia si sposta in direzione di Douglas.

E a quel punto John non importa più che lo sentano gridare: urla ancora e ancora e si muove per cercare di liberarsi. Urla implorando pietà per Douglas, arrivando a spiccicare anche qualche parola in afghano pur di farsi capire.

Ma il problema non è farsi capire: quei terroristi hanno capito benissimo che John si sarebbe sacrificato per Douglas, per tentare di farlo scappare. Vedono John come un soldato forte, troppo forte per non lasciarlo per ultimo, come ciliegina sulla torta, o per non torturarlo ancora un po’. Partendo dalla tortura psicologica, uccidendo l’amico che tanto aveva cercato di salvare proprio davanti ai suoi occhi.

John continua a chiamare il suo nome e finalmente Douglas rialza il viso rigato dalle lacrime e riesce a donargli un ultimo sorriso “Scusami, Johnny.” sussurra e rabbrividisce quando il boia appoggia la lama sul suo collo per prendere le misure “Ci vediamo nel Tìr na mBeo.” (6)

La scimitarra affonda e John urla tutta l’aria che ha nei polmoni prima di accasciarsi a terra: le sue lacrime si mischiano con l’acqua della pozzanghera che ha sotto le ginocchia. Ed è lì avviene.

Accade in un attimo, ma a John sembreranno lunghi istanti di dolore e rabbia: osserva il proprio volto riflesso nella pozzanghera e si maledice. Non ce l’ha fatta, non è riuscito a salvare nessuno della propria squadra: sei anni immacolati culminati in una tremenda missione in cui li ha persi tutti. Persino Douglas.

Non riconosce se stesso in quel riflesso: non è l’uomo pieno di forza e speranza che aveva lasciato Londra in cerca di una ragione per vivere. Non è il soldato che riusciva a combattere con la pioggia o sotto il sole, ferito oppure tutto intero. Non è il dottore che riusciva a salvare un compagno per il rotto della cuffia a pochi metri dal campo di battaglia. Non è lui. Frena un conato di vomito, ma un dolore lancinante alla nuca gli fa fischiare le orecchie prima di renderlo incosciente per qualche istante.

I due afghani che lo tenevano per le braccia lo lasciano andare, inconsapevoli di quanto sta per accadere.

Non appena il viso di John tocca l’acqua della pozzanghera, il soldato riprende i sensi. Si specchia nella pozza d’acqua e questa volta è felice di non riconoscersi: sorride strafottente al proprio stesso riflesso prima di alzarsi e scatenarsi. Il corpo di John è ora un’essenza di puro istinto: come prima, quando ha neutralizzato due di loro, ma più veloce e più rabbioso. Lotta per sottrarre nuovamente il fucile all’uomo al quale aveva già dislocato la spalla, invalidandolo definitivamente. Quindi fa fuoco verso gli altri tre: il boia crolla subito, incapace di difendersi con la sola scimitarra. Al secondo si inceppa il fucile, quindi subisce irrimediabilmente un colpo d’arma da fuoco in piena fronte. Il terzo riesce a sparare e centra la spalla sinistra di John che, tuttavia, sembra non sentire il dolore e ricambia il favore, pur usufruendo di una mira migliore con la quale lo spedisce all’altro mondo.

John non ha tempo per fermarsi a riprendere fiato: sente delle urla e delle voci in avvicinamento. Ignora il corpo mutilato di Douglas e mette in atto il piano che aveva programmato per l’amico: corre e lo farà finché i polmoni gli faranno male, finché i piedi gli sanguineranno, finché il suo corpo resisterà. Correrà nel deserto afghano, torrido di giorno e implacabilmente freddo di notte: affronterà il vento e ingoierà la sabbia che gli sbatterà addosso. Finché non lo troveranno.

 

Due giorni dopo la sua fuga, una squadra di ricognizione trova John a cinquanta chilometri dal campo base: si tiene la spalla sinistra con la mano destra, alle bruciature da fuoco e elettricità si sono aggiunte anche quelle del sole, i suoi passi sono costanti ma doloranti.

E lo sguardo. Lo sguardo è apparentemente assente, ma non appena lo sfiorano, l’istinto scatta e John rischia seriamente di slogare il polso ad un suo stesso commilitone.

Interviene il Maggiore Derek Hale, il grado più alto della squadra, che fa cenno agli altri di abbassare i fucili “Watson! Capitano Watson!” lo chiama ed è rincuorato di vederlo reagire al proprio stesso nome: alza le braccia verso l’alto e gli si fa incontro “Siamo del Dodicesimo Reggimento Fanteria di Suffolk, vi stavamo cercando.”

John, riconoscendo il Maggiore Hale, lascia andare il giovane tenente che aveva preso in ostaggio “Siamo vicini al campo?”

“Cinquanta chilometri, Capitano. Manderanno un elicottero.” replica il Maggiore che, accortosi delle precarie condizioni di John, fa un cenno al medico militare assegnato alla propria squadra “Gli altri membri della squadra?”

John barcolla alla domanda del Maggiore e, quando il medico lo raggiunge, gli strappa dal braccio destro il pezzo di stoffa con su cuciti la croce rossa e il caduceo. Poi cade a terra svenuto.

 

Quella è stata l’unica volta in cui il notturno ha vissuto di giorno. E, dopo cinque giorni di incoscienza, per la prima volta, si sveglia il diurno.

 

Quando John concluse il racconto, piegò la schiena in avanti e nascose il volto tra le mani. Sherlock gli accarezzava la schiena in continuazione: non sapeva se quelle piccole premure facessero stare meglio John, ma non poteva comunque farne a meno. Se John stava male, allora lui doveva fare qualcosa per cercare di lenire il suo dolore. Non era bravo in quelle faccende così umane, ma sentiva che per John si sarebbe messo in gioco anche rischiando di risultare ridicolo. Lasciò poi scorrere la mano fin sulla nuca di John, quindi su tutto il capo e, giocando coi suoi capelli corti e ordinati, lo attirò un poco verso di sé.

John rispose a quei movimenti: riemerse col viso fino a che non riuscì a guardare Sherlock. Aveva gli occhi lucidi e gonfi, le guance erano arrossate e il suo bisogno di conferme era tangibile.

Sherlock trovò la forza per sorridergli appena, quindi per spingerlo delicatamente tra le proprie braccia “John.” lo chiamava spesso per nome, perché sapeva che quella era la prima conferma di cui l’altro aveva bisogno “Sei stato molto coraggioso.” mormorò poi, accogliendolo e lasciando che nascondesse gli occhi sotto il suo collo, lontano dalla propria vista “So che avrai pensato il contrario, perché il tuo scopo era quello di salvare Douglas, ma fidati. Hai comunque salvato due persone.” lo strinse forte, riuscendo anche a baciargli la fronte “Le più importanti.”

John si scostò appena dal volto di Sherlock, che poi osservò dal basso: gli occhi lucidi e sopraffatti ricordavano quelli di un bambino impaurito. Non vi fu una domanda verbale, ma era chiaro l’implicito quesito che John avrebbe voluto inoltrare a Sherlock.

Sherlock gli sorrise dolcemente e sentì il proprio cuore perdere un battito di fronte all’espressione indifesa di John. Poi gli annuì e ripeté “Le più importanti.”

John riuscì a sorridergli debolmente, poi annuì a sua volta.

Dopo mezzora di tacito omaggio ai commilitoni di John, entrambi furono pronti per tornare a casa.

 

°oOo°

 

John rimase in silenzio per due giorni e Sherlock rispettò la sua volontà. Perché fondamentalmente si sentiva in colpa per aver insistito così tanto a voler conoscere la vicenda di Maiwand, ma mai e poi mai si sarebbe immaginato uno scenario così agghiacciante. Sapeva che doveva essere stato un episodio terribile, ma la sua capacità di astrazione non era arrivata a tanto. Controllò di nascosto il fascicolo che gli aveva consegnato Mycroft, ma nulla di quanto accaduto realmente era stato riportato nero su bianco. Non che John avesse mentito: semplicemente non era stato in grado di raccontarlo. Il diurno non ne aveva memoria e nessuno, a parte lui, aveva avuto l’occasione di incontrare il notturno.

Il notturno. Sherlock pensò molto a lui e non riuscì ad immaginare come avesse potuto portare addosso quel peso per dieci mesi senza confidargli il benché minimo dettaglio. Quindi capì che il notturno non era soltanto la parte più istintiva di John, ma anche il senso di colpa incarnato nel suo stesso corpo. E in retrospezione notò che il notturno non aveva mai pensato a se stesso come ad un civile: lui era ancora un soldato e, se la patologia di John fosse durata in eterno, lo sarebbe stato per sempre.

La notte del secondo giorno di silenzio, Sherlock stava ancora pensando al notturno quando il vero John bussò allo stipite della sua camera da letto. Da quando John era tornato in sé,  la porta della sua camera era sempre aperta, quindi Sherlock non capiva perché l’altro sentisse sempre il bisogno di bussare. Non che gli desse fastidio: era solo uno dei tanti piccoli misteri che avvolgeva John e che Sherlock adorava.

“Vieni pure.” lo incoraggiò il consulente investigativo, spostandosi dal centro del letto al lato sinistro, offrendogli la via più breve per raggiungerlo. Ma se pensava che sarebbe stata un’altra nottata silenziosa, si sbagliava.

“A cosa pensavi?” domandò John rompendo il proprio silenzio. Si sedette sul bordo del letto e lo guardò in tralice.

Sherlock gli sorrise “A te.” rivelò per poi notare che Douglas aveva seguito John: il felino salì sul letto con un balzo e si acciambellò vicino ai piedi del consulente investigativo.

John rise appena, leggermente imbarazzato, come se non avesse mai ricevuto alcun complimento o quel certo tipo di attenzioni “Davvero?”

A quel punto Sherlock gattonò sul materasso e lo raggiunse alle spalle: gli circondò la vita con le braccia e affondò il viso tra la spalla e il collo di John, premendo le labbra sulla mascella, quindi sulla guancia, per poi tornare lentamente verso l’orecchio “Io penso a tutto. Tu sei il mio tutto. Quindi penso a te.” un’inferenza logica facile da dedurre, ma mai scontata.

John mugolò, lusingato dalla risposta e piacevolmente sorpreso dall’iniziativa di Sherlock “La prima volta che ti ho visto attraverso gli occhi del diurno, ho pensato che tu fossi bellissimo.”

Sherlock fermò i propri baci e si ritrasse un poco, confuso: dove voleva andare a parare, John? Palesò il proprio cruccio inarcando entrambe le sopracciglia.

D’altro canto, a John sembrava anche di poter sentire le sinapsi di Sherlock friggere di elettricità per cercare di trovare un senso a quelle sue semplici parole “Era un complimento, genio.” lo vide immusonirsi, quindi si sporse a sua volta verso di lui, rubando un bacio a quel broncio infantile che vide attenuarsi leggermente “La prima volta che ti ho visto attraverso gli occhi del notturno, invece, ho pensato che tu fossi molto sensuale.”

Il consulente investigativo aprì la bocca per replicare, ma nulla fuoriuscì dalle sue labbra. Semplicemente perché non sapeva cosa replicare e perché non capiva a quale conclusione potesse portare quel discorso che non era solo, chiaramente, atto a lusingarlo.

Il dottore sorrise di fronte all’innocenza di Sherlock e gli si fece ancora più vicino “La prima volta che ti ho visto con i miei occhi, ho pensato che tu fossi la persona che ho aspettato per tutta la vita.”

Sherlock deglutì e fuggì dallo sguardo di John, imbarazzato ed oltre modo impreparato al fatto che la persona più importante della sua vita gli stesse confessando un amore che non aveva mai pensato di meritare. E invece ora erano lì, inginocchiati l’uno di fronte all’altro su un letto e John lo stava coccolando con le parole e con il suo sguardo invaghito e riconoscente. Sherlock non sapeva ancora cosa dire, ma non fu un problema, perché John non aveva ancora finito.

“Quindi ora risponderò in maniera definitiva alla domanda che più ti assilla.” disse con voce morbida e comprensiva: gli prese le mani nelle proprie, intrecciando tra loro le dita in una stretta solida e sicura “Doug era la persona più importante della mia vita. Un fratello, un amico così fidato e col quale mi trovavo così bene da non escludere un possibile, futuro coinvolgimento romantico con lui.” sentì Sherlock incrementare la presa e lui fece lo stesso di rimando “Tuttavia non mi ha mai coinvolto dal punto di vista fisico. Non ho mai pensato a lui in quel modo. Potessi tornare indietro proverei di nuovo a salvarlo, perché era un ragazzo buono e fantastico e sento che una piccola parte di me è morta con lui, quel giorno, a Maiwand.”

Sherlock annuì piano e si accorse che al tremare delle proprie mani, John rispondeva con una presa sempre più salda. Non si era mai sentito al sicuro come in quel momento.

“Quindi ti prego. Ti prego, Sherlock. Non guardare male il nostro gatto ed evita di chiamarlo con soprannomi assurdi.” alternò per un istante lo sguardo tra il felino e il consulente investigativo, sul quale poi si fermò “Non biasimarlo perché porta il nome di Douglas, l’amico più importante che io abbia mai avuto. Non essere geloso del nostro gatto e tanto meno della memoria del mio amico.” sorrise nel vedere Sherlock annuire timidamente, conscio del fatto che il suo silenzio non equivalesse ad un disaccordo, ma ad un tacito assenso “Perché mai nessuno nella mia vita è stato importante come lo sei stato tu, come lo sei tuttora e come lo sarai in futuro.” sentì la presa sulle proprie mani venir meno, ma solo perché Sherlock stava impiegando entrambe le mani ad abbracciarlo interamente. Allacciò a sua volta le braccia attorno al suo collo, stringendolo forte almeno quando Sherlock stava facendo con lui “Non temere che io possa andarmene, perché mai e poi mai mi sognerei di abbandonare il mio posto affianco a te.”

“Grazie.” fu la parola che Sherlock ripeté più e più volte. La ripeté poco prima che iniziarono a baciarsi. Poi tra un bacio e l’altro. E la disse ancora e ancora mentre, tra un capo di vestiario e l’altro che veniva eliminato, prendeva e donava le carezze più soffici e al tempo stesso bollenti che avesse mai donato in vita sua. La ribadì nuovamente quando, una volta ritrovatisi nudi uno sopra l’altro, provarono la paradisiaca sensazione di avere le loro epidermidi a contatto per la prima volta. E l’avrebbe detta ancora, se John non gli avesse tolto il fiato con un bacio dolce e al tempo stesso affamato.

“Tu hai già fatto l’amore con un uomo, vero?” chiese John, staccandosi con fatica dalle labbra di Sherlock.

“Ho fatto sesso.” specificò Sherlock, perennemente con le braccia allacciate attorno al collo di John “Non ho mai fatto l’amore.”

John sorrise, perché in un certo senso era una prima volta per entrambi “Allora ognuno di noi ha qualcosa da insegnare all’altro.”

E lo fecero. Sherlock insegnò a John la parte pratica, mentre John insegnò a Sherlock come applicarvi sopra la dolcezza, la gentilezza, la cura e il rispetto reciproco.

Si amarono in quella che fu la prima di molte notti passate assieme, stretti in un abbraccio che li guidò anche dopo che entrambi raggiunsero assieme il piacere che andavano cercando e che li unì sotto un’ulteriore punto di vista.

Non ebbero voglia di sciogliere il loro abbraccio neanche dopo l’orgasmo: si rannicchiarono sotto le coperte fin sopra la punta dei capelli e, come due bambini, si sentirono al sicuro dai mostri della notte in quella loro isola fatta di cuscini e stoffe.

Ad un certo punto, Sherlock allungò solo il braccio al di fuori del piumone per afferrare la pila che teneva dentro il comodino e che usava quando saltava la corrente; quindi la accese quando riportò la mano in mezzo ad entrambi.

John rise, perché gli sembrava davvero di essere tornato bambino e di stare improvvisando un’avventura assieme al suo amico più caro. E Sherlock sorrise a sua volta, perché, semplicemente, si sentiva felice.

Sherlock puntò la luce in faccia a John, il quale ricambiò lo scherzo pizzicandogli il fianco sul quale teneva appoggiata la propria mano. Il consulente investigativo ribatté dandogli un morso sul mento e il dottore si vendicò con una piccola testata che fece ridere entrambi per diversi istanti.

Poi Sherlock si calmò, appoggiando la nuca sul braccio che John gli offriva come sostegno “Come stai?”

“Sto molto bene!” esultò John, condendo la propria risposta con un’altra piccola risata “Non sai da quanto tempo volevo farlo.”

Sherlock arricciò un sopracciglio, memore del notturno e quindi dei desideri più intimi di John “A dire il vero lo so.”

John sbuffò divertito “Era per dire, genio.” fermò il broncio di Sherlock sul nascere, baciandolo preventivamente. Sentì Sherlock sorridere sulle proprie labbra e ne fu felice. Poi si staccò da lui e lo osservò incuriosito “Sai, l’altro giorno hai detto una cosa a cui ho pensato molto. Ma alla fine non credo di aver capito cosa intendessi.”

Sherlock decise di ricambiare il soprannome affibbiatogli da John burlandolo a sua volta “Umpf. Non si può certo pretendere che una mente comune possa comprendere le elucubrazioni di una mente superiore.

John mugolò una lunga nota nasale “Ma come siamo simpatici dopo un consistente rilascio di endorfine.” gli prese il naso tra i dorsi di indice e medio e lo tirò un pochino, almeno finché Sherlock non tentò di morderlo. Poi John specificò il proprio pensiero “Al cimitero. Hai detto che ho salvato le due persone più importanti. A chi ti riferivi?”

A Sherlock sfuggì una piccola risata “Oh, John. Eppure è così chiaro.”

“Dimmelo, allora.” chiese John, sempre più curioso.

Sherlock incastrò la pila tra le loro pance in modo da avere entrambe le mani libere “Hai salvato te stesso, prima di tutto.” con entrambe le mani libere, Sherlock si divertì a toccare il torace di John per causargli una leggera pelle d’oca. Si era soffermato spesso sulle sue bruciature quella notte, ma solo dopo aver avuto il permesso del suo dottore “E poi hai salvato me. Più di una volta, inoltre.” Sherlock sorrise perché vide John piacevolmente stupito da quella rivelazione: si chinò il tanto che bastava per sfiorargli le labbra con le proprie, quindi sussurrò “Perché tu ed io, da soli, non saremmo mai imprescindibili, fondamentali e significativi come lo siamo insieme.”

John ricambiò il bacio ed intrecciò le dita della mano destra con quelle della mancina di Sherlock “Tu ed io siamo le persone più importanti.” ripeté quella che era appena diventata la formula più importante che avrebbe amministrato le loro vite da lì in poi.

“Sì.” Sherlock annuì e rinvigorì la stretta che li univa “Quindi grazie per avere salvato entrambi.”

“Grazie a te.” ricambiò John, mormorando poi sulle sue labbra “Per avermi riportato indietro.”

Sherlock gli respirò a sua volta sul viso, tra un bacio ed un morso possessivo “Non lasciare mai la mia mano.”

“Mai.” giurò John, per poi lasciarsi sovrastare dal corpo di Sherlock che sembrava voler recuperare in una notte sola tutte le carezze, i baci e le tenerezze che si era sempre privato fino a quel momento.

Riemersero dal piumone in cerca d’aria e, laddove la pila cadde dal suo incastro creando nuovamente il buio, la passione si riaccese e li accompagnò fino all’alba.

 

Six months later...

 

Sherlock era chino sul microscopio quando udì sbattere il portone e dei passi pesanti correre su per le scale: se non avesse riconosciuto la cadenza tipica della camminata di John si sarebbe anche potuto preoccupare, ma tutto ciò che fece fu allontanare dal tavolo i fragili vetrini in tempo per non essere travolti dall’energia dell’ex medico militare.

Quando John apparve sulla porta della cucina, infatti, la prima cosa che fece fu correre ad abbracciare Sherlock con così tanta enfasi da scontrare il tavolo al suo passaggio “Sherlock!” esultò con un sorriso così radioso che contagiò anche il compagno.

Sherlock non fece in tempo a sospirare e a complimentarsi con se stesso per la propria intuizione, che fu sopraffatto dalla gioia di John: il che voleva poter dire solo una cosa “Ti hanno ridato l’abilitazione ad esercitare come medico.”

“Sì!” urlò John che, a quel punto, baciò Sherlock così forte da inturgidirgli le labbra già carnose “Dobbiamo festeggiare!”

“Umpf. Sai che roba.” borbottò Sherlock, la cui contentezza per il risultato ottenuto da John era comunque inferiore alla felicità che gli arrecava l’idea di averlo sempre con sé durante i casi che Lestrade gli proponeva “Così tu lavorerai ogni giorno e non staremo mai insieme.” borbottò infatti, tra un broncio e l’altro.

John, che aveva previsto la reazione di Sherlock, non si offese “Tesoro, lo sai benissimo che se avrai bisogno di me, io ti raggiungerò subito.” gli baciò il broncio e lo liberò dalla propria presa per dargli una pacca sul sedere “Non mi fiderei comunque a lasciarti andare sul campo da solo, lo sai.”

Sherlock si inarcò e si accarezzò il sedere, quindi si sedette sullo sgabello “John.” lo chiamò sbuffando, mentre accoglieva Douglas con una carezza “Non ti basta la soddisfazione di poter dire che hai riottenuto l’abilitazione alla professione?”

John si tolse la giacca e, dopo aver riempito il bollitore, lo attaccò alla corrente “No. Sono un medico, Sherlock. Voglio poter salvare delle vite umane.” si voltò nuovamente verso Sherlock e, guardandolo, fece spallucce “E poi ci servono dei soldi.”

Sherlock inarcò un sopracciglio “Per cosa?”

“Per sposarci.” ammiccò John, attendendo impazientemente la reazione di Sherlock. Chissà se sarebbe svenuto.

Sherlock arricciò le dita attorno alla pancia di Douglas: non troppo forte da fargli male, ma abbastanza da risultare fastidioso. Il gatto, infatti, morse la mano del consulente investigativo e, dopo essersi liberato, scappò dalla cucina. Ma neanche il morso del felino sembrava aver scosso Sherlock più della proposta di John “Sp-sposarci?”

“Certo.” John annuì con finta non curanza, quindi usò l’arma definitiva “Ho già chiesto il permesso a Mycroft.”

Ecco. Ora sì che Sherlock era veramente oltraggiato. Si alzò in piedi e puntò l’indice morsicato da Douglas verso John “Noi non abbiamo certamente bisogno del permesso di Mycroft per poterlo fare!”

John fece di tutto per non ridere: oh, mio adorato Sherlock, pensò, sei così prevedibile. Sospirò, dunque “A dire il vero...” improvvisò un’aria greve, come se fosse improvvisamente insorta qualche difficoltà “...si è un po’ opposto all’inizio. Non è molto convinto della faccenda.”

Non esisteva al mondo che Mycroft potesse intromettersi tra lui e John. Sherlock osservò seriamente il compagno e batté un pugno sul tavolo “Facciamo un dispetto a Mycroft! Sposiamoci!”

John sorrise e gli si avvicinò fino ad allacciargli le braccia attorno ai fianchi “Come vuoi tu, tesoro.” ridacchiò e vide Sherlock fare lo stesso, quindi capì “Non mi sposeresti mai per fare un dispetto a Mycroft.”

Sherlock circondò le spalle di John con le braccia e si abbassò per baciare le labbra del suo futuro marito “Non sottovalutare la mia vena sadica nei suoi confronti.”

John rise tra un bacio e l’altro “Sherlock.”

Sherlock abbassò le braccia e dopo aver catturato le mani di John, le accompagnò attorno al proprio collo “Ti sposo perché è un altro modo per dire che è per sempre.”

“Però ti ho colto di sorpresa.” sorrise John, giocando coi riccioli neri dell’altro.

“Ebbene sì.” ammise Sherlock che era così felice da canticchiare un’aria lirica, allegra e cadenzata: chiuse gli occhi e trascinò John in un ballo che li vide protagonisti per interi minuti.

John non osò interromperlo, ma quando l’aria si concluse e Sherlock riaprì gli occhi, fecero qualcosa con la quale per molto tempo non avevano potuto deliziarsi, ma che da più di sei mesi era diventato una specie di rito: si specchiarono l’uno negli occhi dell’altro e sorrisero innamorati.

Perché non esiste una superficie riflettente più bella degli occhi della persona amata.

 


 

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***Beh, note alla fine, come ad ogni ultimo capitolo. Inutile dire che mi scuso per l'attesa e per la lunghezza del capitolo =_= mi spiace, ma proprio non ho avuto cuore di dividerlo. Spero non risulti pesante, ci sono molte scene, quindi cambiando scenario, in teoria, dovrebbe anche essere abbastanza leggero.
Qui è definitivamente spiegato TUTTO! Quindi spero sia tutto chiaro XD ci sono scene inutili? Oddio, spero di no o.o una sì ed è anche spiegata nelle note, ma è una scena piccola ahahah <3  ringrazio fortissimo RossKL mia beta ufficiale e PapySanzo mio supporto morale ufficiale XD
Non so che altro dire, se non ringraziare tutte coloro che mi hanno lasciato recensioni (a cui ora risponderò!) e che ci vedremo presto con un'altra storia (il mio cervello plotta irreparabilmente o.o) Ah, il titolo del capitolo è una citazione di George Bernard Shaw!
BACIO!!!***

 

 

(1) Omaggio al 30Days OTP di Reapersun in cui avviene uno scambio di SMS identico :3 avrei potuto scriverlo in ventordici modi diversi, ma l’ho fatto apposta per omaggiarla, ecco <3

(2) In una ff straniera su AO3 avevo letto di un John tifoso del Chelsea, quindi l’ho preso per buono e adottato anche qui. Tutt’al più che il Chelsea ha conseguito dei risultati pazzeschi, almeno ste chiacchiere da taxi non sono proprio schifose, insomma XD

(3) Auto-cit alla mia ff “Kingdom for a heart” in cui Mycr sta con Tom XD ne sentivo la mancanza e quindi... :p la scena in cui Sherlock verifica se Tom è davvero Tom è totalmente inutile ma mi andava di farla XD

(4) Ora, non è che c’è una “disputa” nel senso stretto della parola, ma studiando Filosofia della Mente una delle domande che mi ha affascinato maggiormente (e a cui non ho trovato risposta XD) è stata una cosa del tipo: Se un uomo buono ha una doppia personalità assassina che uccide una persona, deve essere condannato? Assumendo pure che la doppia personalità sia ormai sigillata, quest’uomo buono il cui corpo ha ucciso una persona, deve scontare la pena di “qualcun’altro”? Eh, bella domanda °_°

(5) Molto bene, ora, tutti i nomi dei soldati morti sono presi da personaggi di film e telefilm che mi sono piaciuti molto e che sono morti anche all’interno dei loro stessi universi di appartenenza (potete divertirvi a scoprire da dove li ho presi XD), mentre i nomi dei soldati vivi sono sempre presi da film/telefilm ma sono ancora vivi negli stessi universi di appartenenza (sono autistica per ste cose, lo so, don’t judge me!)

(6) Il Tir na mBeo è uno dei nomi dell’aldilà pagano dei Celti. Ora, ho sempre fatto Douglas fissato per ste cose, tra fate, folletti, riti cabalistici, quindi per lui il paradiso è quello :3

   
 
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