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Autore: mxm_november rain    27/06/2013    2 recensioni
Questa è la storia di due ragazzi che non hanno mai conosciuto l’amore. Che sono stati schiacciati dalla crudeltà del mondo e ridotti a misere ombre,scure ed erranti, perse in una notte vuota.
E di come, solo trovandosi, siano tornati a sorridere e a brillare, simili a stelle del cielo. E a scoprire l’amore.
Questa , è la vera storia di come si impara ad amare.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri personaggi, Matt, Mello | Coppie: Matt/Mello
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Matt

Matt quella notte si era svegliato di colpo, portandosi istintivamente le mani sulla bocca per strozzare un grido disperato. Non voleva che Tom si svegliasse, almeno non di nuovo. Era certo che se no si sarebbe messo a frignare e, per l’ennesima volta, la colpa sarebbe stata sua.                                                                                            Ancora un brutto sogno. Sempre il solito, per giunta. Si tastò la fronte imperlata di sudore, fece un profondo respiro per calmarsi. Andava già meglio, se non altro era sveglio, e per quella notte non avrebbe più sognato; eppure il suo corpo era ancora scosso da intensi brividi e il cuore batteva freneticamente, come se stesse tentando di fuggire dal piccolo petto.                                                                                                                                Matt si voltò con rinnovata ansia verso il lettino di Tom, per controllare ancora una volta che non si fosse svegliato; lo guardò poi con disprezzo, così raggomitolato in coperte perfettamente ordinate.                                                        Tom era stupido e tutti lo odiavano. 
Faceva la spia su ogni piccola marachella e poi non gli si poteva dire niente che subito si esibiva in un pianto disperato. Strillava talmente forte e con una tonalità talmente acuta da far male alle orecchie e inoltre così non faceva altro se non affrettare il sopraggiungere del mangia - carote. Quest’ultimo era Duffy, il custode, ma tutti lo chiamavano così perché nel tempo libero coltivava, in un orticello assolutamente privato rasente all’orfanotrofio, le sue amate carote, di cui andava particolarmente orgoglioso. Matt rifletté un attimo sull’origine del suo soprannome: chissà perché poi proprio le carote, Duffy piantava anche molta altra verdura.                                                
Ma il problema essenziale stava tutto nel suo bastone, un bastone lungo e pesante. Se lo trascinava sempre appresso, quasi fosse un pastore di greggi. Comunque non bisogna credere che gli servisse per camminare, Duffy era veloce, in salute e di corporatura robusta; semplicemente gli faceva comodo in svariate situazioni: nell’orticello praticava buchi profondi dove piantare i semi, all’occorrenza schiacciava, con una punta di perfidia, i numerosi scarafaggi che percorrevano i corridoi scrostati dell’istituto e soprattutto, attività che lo divertiva immensamente, lo tirava sulla testa e sulle gambe dei bambini. Ma questo non piano, e di certo i suoi non erano scappellotti affettuosi; come diceva George ai nuovi arrivati “ se ti becchi una di quelle legnate, puoi star certo di finire dritto, dritto con il muso per terra.” Poi aggiungeva sottovoce “ e dopo, se ancora ci riesci, devi alzare le chiappe e filare via come il vento.”                                                                                            
Il magia - carote non distribuiva mai le sue “ buone lezioni” , come le definiva, con un senso logico; potevi averla fatta grossa ma spesso ti centrava in pieno all’improvviso e senza un reale motivo, probabilmente perché in quel momento a lui andava bene così. In realtà una motivazione c’era sempre, il problema era che la sapeva Duffy e nessun altro.                                             
In quelle circostanze c’era qualcosa di particolare nel suo sguardo, qualcosa di indefinito ed incomprensibile che faceva venire la pelle d’oca a Matt e a tutti gli altri bambini.                                                                                                                  
Un giorno c’era stata una rissa tra due ragazzi: il più piccolo, Henry, era amico di Matt; e, disgraziatamente, i due se le erano date fin sopra l’orticello di Duffy, nonostante fosse stato sapientemente recintato. Duffy e la sua verga si erano come materializzati all’improvviso, dato che nessuno di tutti i marmocchi che assistevano alla zuffa aveva sentito nulla, poi il bastone era calato sibilando una, due, tre volte su uno dei due litiganti, ma già alla prima botta cupa e sorda tutti gli altri bambini erano fuggiti veloci come cerbiatti. Anche Matt era scappato ma dopo qualche metro si era voltato e aveva visto Duffy continuare a darle di santa ragione al povero Henry, ormai ridotto ad una pallina tanto si era rannicchiato al suolo. Matt aveva ancora fatto in tempo ad osservare lo sguardo assente del magia - carote e la macchia di sangue scuro che si andava a raccogliere sulla fronte del suo amico, poi Lucy lo aveva strattonato gridandogli di andare via da lì. Il giorno dopo Henry non c’era più e l’orticello era tornato perfetto e ordinato. La direttrice aveva detto con qualcosa di simile ad un sorriso che Henry era stato adottato, ma si era curata di tenere lo sguardo incollato al pavimento.                                           

Anche Matt se ne era prese parecchie di quelle mazzate, poi aveva imparato a tenersi alla larga (calcolando un raggio di circa due metri e mezzo); tuttavia, dopo quel particolare fatto, la lezione era stata compresa da ognuno e ognuno parlava del mangia - carote con un’espressione grave dipinta in volto.  In realtà, l’unico a non averlo capito pareva essere solo il gracile Tom, ma il problema era che le bastonate se le prendeva anche lui, e forse più di tutti, ogni qual volta strillava o si lamentava.                                                               
 
Matt si soffermò sul grande livido violaceo che deturpava il viso del bimbo e sul suo labbro sottile spaccato; il suo sguardo di rimprovero si addolcì un poco. “ Se continua così” pensò Matt “ quello scemo finirà proprio come Henry.”                                                                                                                            
Si voltò, stringendosi nelle coperte ruvide.                                                        
Era incredibile; persino dalla loro angusta stanza Mail riusciva a sentire distintamente il ritmico suono dello zappare di Duffy. Lavorava con impegno per le sue verdure, zappava e piantava, ogni notte. Matt lo sapeva, poiché ogni notte si svegliava. Infatti, se il mangia - carote gli metteva davvero i brividi, con quei suoi grandi occhi vuoti, in confronto ai suoi incubi l’ignaro Duffy era ben poca cosa. In realtà il sogno era sempre lo stesso: una buffa ragazza e il suo sorriso che, di per sé, non aveva nulla di lugubre. Matt davvero non se lo spiegava ma quasi ogni notte si svegliava per fuggire dalla morsa del sonno che lo costringeva a quello che, nonostante la premessa, altro non era che un  terribile incubo. A volte al proprio risveglio si scopriva in lacrime, ma quasi sempre doveva mettere a tacere l’urlo di profondo terrore. Solo in poche occasioni gli era capitato di bagnare il letto e Matt conservava ancora i lividi che ne erano derivati. Era ovvio che così non si poteva andare avanti; le ore di riposo in meno si facevano sentire, ma quella storia proseguiva da molto ormai. Matt poteva conservare solo il vago ricordo di quel sogno che, un tempo, era stato magnifico. Di questo il bambino era certo: anni prima, forse, non si sarebbe svegliato con la paura dipinta in volto ma, semplicemente, avrebbe continuato a dormire. Un sonno calmo e profondo, lungo quanto tutta la notte. Come a trovarsi in un luogo lontano e impalpabile, e allo stesso tempo famigliare; una casa, una casa tutta per lui, dove avrebbe trovato rifugio dai tormenti del giorno. Almeno la notte, almeno in quelle poche ore, quando la luna galleggiava nel nero più scuro con il suo chiarore incantante, lui sarebbe stato al sicuro dalle ombre, vicino alla risata puerile di uno sconosciuto che gli sussurrava qualcosa, che gli svelava un segreto, era un sorriso bellissimo e gentile e allora Matt non aveva più paura.   
Ma adesso era diverso. Il sorriso spesso si tramutava in un orribile ghigno e a volte il volto da bambina della ragazza sbiadiva, sovrapponendosi a mille altri volti, mille altri visi confusi e, allo stesso tempo come conosciuti, che poi si mischiavano e si scioglievano, simili a maschere di cera. Bambini e vecchi, uomini e donne, sognava il volto di Duffy, sognava Henry che lo guardava, lo scrutava fin dentro l’anima con un’espressione triste.                                                                                                    
Matt spalancava gli occhi e si ritrovava in una stanza. Quella non cambiava mai, i soliti letti, i soliti respiri dei molti bambini ammassati vicini, proprio come lui. E, a quel punto, strappato dalle sue angosce, si scopriva sveglio mentre tutti gli altri dormivano, si scopriva solo. Allora, proprio in quell’istante, ecco che il buio lo assaliva. Un’ oscurità vischiosa e senza forma che inghiottiva il bambino. Faceva male respirare quelle tenebre, così viscide e luride, si appiccicavano alla gola ad ogni respiro e Matt allora rantolava.                               
Ma poi si ricordava di un trucco, un’ idea astuta che funzionava ogni singola volta. Nel buio più profondo, tastava agitato sotto il cuscino e afferrava qualcosa, una scatolina quadrata: era la sua unica scappatoia e conteneva una magia, una magia incredibile. A quel punto la apriva e una luce tenue illuminava il volto spaventato di Matt. Un chiarore debole e fioco il quale, però, sapeva scavarsi un varco tra le tenebre. Allora il bambino iniziava a giocare, premendo i tasti e ricominciava la partita. Ridava la vita ad un gioco intero già fatto centinaia di volte, e vinceva, vinceva sempre. Ma a Matt non importava, si aggrappava soltanto con muta disperazione a quel fioco bagliore e pregava, pregava con tutto il cuore che non si spegnesse mai. Anche ora gioca, mentre Tom sogna, gioca da solo tra altri bambini addormentati. Sente i loro respiri pacati e immerge ancora di più il viso nella tiepida luce. Matt aspetta che la notte vada via, e che il sole ritorni a splendere. Fuori, Duffy zappa ancora sotto una luna grande e silenziosa.  

                                                                                                                      

 

 

Mello

Il paese era apparso all’improvviso, nascosto dall’ultima montagna. Gli alberi si erano pian piano diradati, lasciando posto alle prime abitazioni e ai primi cancelli, ed ora Mihael si trovava a camminare sull’asfalto grigio, fradicio ed affamato. Se non fosse stato stremato dal sonno e dalla fatica del lungo cammino, avrebbe comunque apprezzato quel luogo così accogliente. Pareva uno di quei paesini descritti dettagliatamente nelle fiabe, dove gli abitanti sono fate e gnomi ridanciani e tutti trascorrono le giornate vivendo in armonia; le casette erano piccole e graziose, costruite sapientemente tutte in fila e circondate da un giardino ricco di fiori dai colori tenui. Non vi erano edifici imponenti o austeri, ma regnava una placida e pacifica atmosfera che provocava un piacevole effetto soporifero. Mihael era certo che la mattina presto, forse ancora prima che il sole sbucasse nel cielo, si potesse sentire l’odore caldo e inebriante del pane appena sfornato, e magari scorgere tanti bambini come lui che giocavano a rincorrersi, udire le loro risa spensierate.                                                                                                         
Lo sguardo di Mihael si rabbuiò tutto ad un tratto; improvvisamente si domandava che cosa si prova.                                                                                             
Il pensiero gli era nato senza un preciso scopo, come quei fiori selvatici, pur così belli, ma che non si sa mai dove andranno a germogliare.                               
 
…Cosa si prova mentre si gioca con altri bambini, quali sono le tattiche per vincere a nascondino.                   
Cosa significa avere una famiglia e cosa, realmente, è una casa.                               
Era buffo. Nessun ragazzino avrebbe potuto fare quello che aveva fatto lui, nessuno aveva una capacità di adattamento tanto ampia, o una conoscenza particolareggiata come la sua. Eppure su quegli argomenti così semplici Mihael si trovava del tutto impreparato, e non trovava risposta a così numerosi interrogativi. E allora, ecco che si infuriava e stringeva forte i pugni, fino a quando non sentiva le unghie penetrare nella carne.             

Tuttavia quel paese racchiudeva un dolce ripieno, come la promessa di trovare un focolare caldo a qualsiasi porticina si bussasse; e se in quel momento avesse potuto scegliere un luogo ove passare il resto della sua vita, avrebbe indicato con il dito proprio lì, senza rifletterci più di tanto.                                             
Ma quelli erano pensieri sconnessi, pallide lusinghe della mente. Lo scopo che si era imposto, prima di mettersi in viaggio, era un altro, ed ora si domandava se mai sarebbe riuscito a perseguirlo. Doveva rimettersi in cammino al più presto, senza ulteriori perdite di tempo e chiedere informazioni, nonostante il suo aspetto spaventoso, domandare dove fosse la cittadina chiamata
Winchester, e se per caso qualcuno conoscesse il luogo esatto dell’orfanotrofio del rinomato professor Quillsh Wammy. Capiva che sarebbe stato difficile, ma poteva, anzi, doveva contare solo sulla resistenza delle sue gambe, e unicamente così avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita. Mihael non nutriva dubbi su questo e, di conseguenza, non vi era spazio per il timore di un fallimento; ancora una volta inesorabilmente solo con se stesso, lui e Mihael Keehl; nessun altro. E, rispetto a tutto il resto, quella consapevolezza era l’unica a creargli un profondo terrore.                                                                     

E magari fu questo ultimo, lugubre pensiero, o forse solo il caso; Mihael non lo sa, tuttavia, mentre rimuginava su queste premesse, non si accorse minimamente del movimento lento e quasi ipnotico delle sue labbra, le quali andavano a sussurrare qualcosa; come un riflesso istintivo, un’azione recondita che mai avrebbe immaginato di poter compiere.                                      
“Ti prego.” Si sentì, in un bisbiglio.                                                                    
Cos’era quella? Una richiesta di aiuto, forse? A chi, poi? A chi? Nessuno, né dio né uomo, gli aveva mai teso la mano, mentre sprofondava in acque incerte e melmose; si era semplicemente adagiato sul fondo, sollevando appena una putrida polvere. Tutto qui.                                                                          
Mihael percepì chiaramente la gravità dello squarcio che aveva nel petto; una ferita infetta, che mai avrebbe avuto occasione di rimarginarsi. Era la sua condanna: avrebbe trasudato per sempre un sottile rivolo di sangue, che striscia, ancora, sulla pelle candida.  Ed era proprio questa conoscenza innegabile che, lentamente, lo stava conducendo verso luoghi oscuri. Un’esasperazione tale da rassomigliare all’albore di una follia.                    
Eppure non riusciva a smettere di pensare a quella debole preghiera, lanciata a caso e rivolta a nessuno in particolare, la quale racchiudeva una miriade di sogni infranti e, ancora, custodiva gelosamente quelli che Mihael sperava di vedere realizzati, nonostante tutto. Proprio quei sogni fragili come cristalli che così tanto temeva di poter spezzare.                                                              

Sobbalzò visibilmente sentendo il peso di una mano posata con ben poca grazia sulla sua spalla, e nel momento stesso in cui si sentì costretto in una salda morsa percepì di essere stato strappato, ancora una volta, dal tiepido abbraccio delle sue illusioni.                                                                             
“ Hey, little brat, what are you doing?”                                                                  
Mihael boccheggiò, confuso.
A stento registrò che quello che aveva davanti era con ogni probabilità un carabiniere, o poliziotto britannico, il quale per giunta gli aveva appena dato del moccioso, sputandoglielo in faccia con tono sprezzante. Quella nuova comparsa si era rivelata piuttosto crudele, pensò Mihael. D’altronde lo aveva colto impreparato, piombandogli addosso come un avvoltoio.                                                                                                                
Mihael sbuffò stizzito, esibendo una nuova espressione di completa insolenza. Gli bastò un istante per realizzare con lucidità di essere appena stato catturato, così ingenuamente, per giunta. Era un bel guaio; ora avrebbe dovuto fornire delle spiegazioni più che convincenti. Avrebbe dovuto sorridere, fingere ancora, e mostrarsi innocente, desideroso di collaborare.        
Era con ovvietà la cosa più giusta da fare, eppure, in quell’istante, nulla nella sua testa gli proponeva di agire razionalmente. Una sola parola gli veniva suggerita: “ Scappa!” , perché Mihael sapeva che se fosse stato rinchiuso, ancora una volta, in qualche luogo angusto dove si sarebbe sentito soffocare, dove il suo progetto di sarebbe lentamente sgretolato, era certo che sarebbe impazzito definitivamente.                                                                                           
 
Gli argini rotti e lui sommerso; il suo grido silenzioso, soltanto un pianto muto.                                           
Provò quindi a liberarsi dalla presa dell’uomo con uno strattone improvviso, e tuttavia si sorprese di quanto fosse risultato debole quel tentativo: si scoprì ancora e del tutto imprigionato da quelle mani rudi che avevano aumentato la stretta sulla sua carne, già così dolorante. Lo sguardo del suo aguzzino si era fatto ostile; non aveva scelta, avrebbe dovuto ascoltarlo.                                                                                                                      
“ Where are your parents?” Mihael non rispose. Genitori. Quali genitori?                   
L’uomo lo scrollò, quasi potesse pensare che il bambino stesse dormendo profondamente tra le sue braccia, domandandogli se fosse sordo, per caso.               
Mihael comprendeva con chiarezza cosa stava per succedere: niente genitori significava essere un orfano, un ladruncolo sudicio e allo sbando nel mondo. Doveva fuggire, ad ogni costo. Se non in quel momento, se non in quel luogo, era certo che sarebbe scappato, prima del concludersi di quel giorno.                       
E, fra i suoi mille progetti, non constatò neppure la palese realtà di essere, ormai, senza più forze.                                                                                      

Fu in quel momento che si accorse dello sguardo dell’uomo, divenuto all’improvviso insistente, quasi cercasse di riconoscere in Mihael un lontano parente o, chissà, forse un amico. La sua mano fasciata nel bianco guanto andò, tutta tremante, a frugare tra le pieghe della divisa, da dove riemerse stringendo un foglio di giornale stropicciato.                                                  Per un istante a Mihael ricordò un prestigiatore.                                          
Ora i suoi occhi si erano fatti attenti e guizzavano frenetici dalla carta al bambino, dal bambino alla carta; un lampo di qualcosa del tutto simile alla paura ( o speranza forse) li attraversò. Infine si decise con un gesto brusco a condividere anche con lui quel foglio logoro, improvvisamente tanto prezioso. Iniziò a farfugliare parole agitate ed incomprensibili, additandolo con fare piuttosto maleducato, indicando poi l’articolo.                                                
Dal canto suo Mihael si trovò davanti se stesso, o almeno, quella che sembrava essere una foto di lui, in prima pagina, ingrandita orribilmente e sovrastata da una scritta nera che recitava, inesorabile, la parola “MISSING”; e il primo pensiero di Mihael risultò nel constatare che, più che altro, pareva un necrologio; che tristezza: quasi gli si stringeva il cuore.

Quindi lo stavano cercando.                                                                             
Quella consapevolezza non gli suscitò nessuna particolare reazione; come un osservatore esterno, valutò soltanto che era giusto appendere manifesti e annunci un po’ ovunque, avvertire la polizia, poiché non era affatto decoroso per una famiglia così in vista perdere l’unico figlio tanto facilmente.                             
A Mihael quasi facevano pena; che genitori disgraziati, privati or ora del loro bambino; chissà che fine avrà fatto, il marmocchio. Pensò che probabilmente era annegato in qualche fiume, o inciampato su un roccione.                          
Comunque pazienza; in fondo non erano affari suoi.                                                    
Ma come spiegarlo a questo qui? L’uomo lo stringeva spasmodicamente, temendo ora più che mai una sua fuga, lo fissava con grandi occhi febbricitanti e ricolmi di speranza. Mihael poté facilmente rivedere nelle sue iridi lo sguardo languido e ormai conosciuto di chi ha trovato il modo per fare un po’ di soldi o fortuna, l’atteggiamento ripugnante dei vermi che si prostrano con umiltà ai piedi dei potenti, mendicando un’occasione.                                     
Era quasi mortificato, il bambino, di dargli la notizia; eppure nel fondo del suo cuore quella scena così pietosa lo divertiva.                                                       
“ Mi dispiace, ma non sono io.” Disse.                                                                           
Terribilmente convincente, ma in quel momento non aveva avuto bisogno di mentire o recitare, infatti lo aveva già chiarito una volta, e quella non era altro che la verità.                                                                                                      
 
L’uomo raccolse la risposta con un sussulto; lo fissò con disprezzo, ispezionò i suoi vestiti stropicciati, paragonandoli con aria disgustata a quelli, splendidi, della foto. La sua carnagione rosea non aveva nulla a che fare con il colorito pallido e principesco di quel Mihael Keehl.                                                             
Fece poi un gesto rassegnato con la mano, non curandosi in alcun modo di nascondere la cocente delusione, solo si ricacciò il giornale in tasca e strattonò il bambino per indurlo a seguirlo.                                          
Eccone un altro,pensava, un altro bastardo che gli procurava l’ennesima scocciatura. E, come se non bastasse, dal cielo cadeva quella pioggia da sempre tanto detestata, così fastidiosa e che mai accennava a diminuire; solo, precipita lenta e non si ferma, regolare come il placido ticchettio dell’orologio.                                           

Così si strinse nella giacca di tela, ormai fradicia, rimuginando e borbottando. Anche per oggi, non aveva nessuna voglia di lavorare.                                                                          
“ Hai proprio ragione moccioso” proferì, voltandosi ancora un momento verso Mihael. “ in fondo non sei altro che uno sporco orfano.” Sogghignò , e un filo di bava gli fece capolino sul mento senza che lui se ne accorgesse; da quell’istante in poi non lo degnò più di uno sguardo.                                                                                        

Ma il bambino era comunque soddisfatto: quello stesso giorno aveva finalmente messo la parola fine all’esistenza di Mihael Kheel, il quale, proprio in quel momento, stava esalando l’ultimo respiro, dopo essere rovinosamente ruzzolato sul fondo di qualche gola scoscesa. Boccheggiava, le braccine sottili orribilmente contorte dalla caduta, spezzate come rami secchi; la pelle diafana scorticata è ammirata da occhi azzurri e increduli che vedono per la prima volta il colore vermiglio del sangue.                                                                           
“ Avresti fatto meglio a restartene accoccolato tra le mura sicure del tuo castello, senza andartene troppo a spasso, poiché in fondo te la sei cercata. Piccolo e stolto essere di cristallo, guardati: sei appena venuto al mondo e già ti rompi in mille pezzi, mille specchi di speranza tradita.”                                  
Mihael sorrise, innocente, trotterellando mansueto dietro a quell’uomo così patetico nella sua pomposa uniforme, poiché mai avrebbe potuto immaginare che già il moccioso pensava a come fuggire, silenzioso, nella notte.

 

In Germania intanto il signore e la signora Keehl si sarebbero presto rassegnati, e magari lei ha già in progetto di prendersi uno di quei cani che entrano perfettamente nelle borsette, e che tremano, ininterrottamente, colpiti da continue convulsioni.                                                                                                                   
I così eccessivi manifesti raffiguranti il bel visino di Mihael presto diradati, strappati dal vento gelido e dalla pioggia battente, per poi scomparire definitivamente un giorno, di cui nessuno ricorda la data.                               
Anni dopo la società del signor Keehl sarebbe fallita miseramente, sorpassata in azioni dalla Yotsuba, che ormai primeggiava a livello mondiale. Così, quando il signor Keehl si portò alla testa la pistola, che conservava sapientemente nel comodino, e si sparò, tutti lo cedettero opera di Kira, solo un’ennesima ed ignara vittima della sua furia omicida, e tuttavia non vi è da escludere nemmeno questa possibilità, visto lo straordinario attaccamento alla vita di quell’uomo.                                                                                         
Da parte sua, la ormai vedova signora Keehl ( la quale detestava quel nuovo titolo che la invecchiava terribilmente) non sprecò neppure un istante e dette subito inizio alla disperata ricerca di un nuovo ( e ricco) marito; dopo neppure un anno eccola felicemente sposata con qualche altro parassita sociale, senza figli. Lei e il suo barboncino bianco vivono ora sulla soleggiata costa Californiana, finalmente al caldo.                                                                   
Per quanto riguarda la villa, che un tempo fu imponente ed aristocratica, adesso è stata comprata ad una somma ridicola da un fortunato impresario e, data la tranquillità del luogo, divenuta un’accogliente pensione.            
La stanza di Mihael ora ne è il refettorio, e puzza di carote bollite.                           
Ciò che è certo è che quell’odore non se ne andrà mai.                                          

Tuttavia il mondo è da tempo oppresso dalla follia di Kira.                                          
Troppe morti sono passate inosservate, la terra è intrisa di sangue e non dà nuovi germogli.                                                                                                       
Nessuno ha più tempo per badare alle piccole cose, tutti hanno paura.                     

  Non passò molto. Il bambino smarrito fu presto dimenticato.                        

Quando Mihael e il poliziotto giunsero all’orfanotrofio cittadino che, fortunatamente per i piedi martoriati di Mihael, si trovava appena a pochi minuti da lì, e quando il bambino, dilatando gli occhi si accorse, leggendo la scritta “ Wammy’s house” incisa sulla lastra di spesso ottone, che non avrebbe dovuto più scappare, allora, proprio in quel momento, i suoi pensieri tornarono ratti alla preghiera fatta inconsapevolmente poco prima.                      
Il bambino non sapeva che quella non era la prima volta che pregava, non poteva saperlo in alcun modo. Ma a volte lo faceva, distrattamente, e senza mai accorgersene; spesso chiedeva, sussurrava aiuto nel suo sonno leggero e tormentato.                                                                                                           
Ed ora, mentre se ne stava con la bocca spalancata a fissare l’imponente cancello di quella che, a quanto sembrava, era la tanto bramata meta, non poteva dire, davvero, se fosse opera di qualche dio o se fosse solamente pura fortuna; comunque questo, non aveva importanza. Perché, per la prima volta della sua vita, tra mille sconfitte e mille domande senza risposta, nonostante innumerevoli volte avesse disperatamente chiesto aiuto, un aiuto assolutamente necessario e sempre negato; ecco che in quell’ultima e piccola preghiera, Mihael aveva riposto anche la sua ultima speranza: e finalmente qualcuno lo aveva ascoltato.                

  
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