Matt
Matt
quella notte si era svegliato di colpo,
portandosi istintivamente le mani sulla bocca per strozzare un grido
disperato.
Non voleva che Tom si svegliasse, almeno non di nuovo. Era certo che se
no si
sarebbe messo a frignare e, per l’ennesima volta, la colpa
sarebbe stata sua.
Ancora un brutto sogno.
Sempre il solito, per giunta. Si tastò la fronte imperlata
di sudore, fece un
profondo respiro per calmarsi. Andava già meglio, se non
altro era sveglio, e per
quella notte non avrebbe più sognato; eppure il suo corpo
era ancora scosso da intensi
brividi e il cuore batteva freneticamente, come se stesse tentando di
fuggire
dal piccolo petto.
Matt si
voltò con rinnovata ansia verso il lettino di Tom, per
controllare ancora una
volta che non si fosse svegliato; lo guardò poi con
disprezzo, così
raggomitolato in coperte perfettamente ordinate.
Tom
era stupido e tutti lo odiavano.
Faceva la spia su ogni
piccola marachella e poi non gli si poteva dire niente che subito si
esibiva in
un pianto disperato. Strillava talmente forte e con una
tonalità talmente acuta
da far male alle orecchie e inoltre così non faceva altro se
non affrettare il
sopraggiungere del mangia - carote. Quest’ultimo era Duffy,
il custode, ma
tutti lo chiamavano così perché nel tempo libero
coltivava, in un orticello
assolutamente privato rasente all’orfanotrofio, le sue amate
carote, di cui
andava particolarmente orgoglioso. Matt rifletté un attimo
sull’origine del suo
soprannome: chissà perché poi proprio le carote,
Duffy piantava anche molta
altra verdura.
Ma
il problema essenziale stava tutto nel suo bastone, un bastone lungo e
pesante.
Se lo trascinava sempre appresso, quasi fosse un pastore di greggi.
Comunque
non bisogna credere che gli servisse per camminare, Duffy era veloce,
in salute
e di corporatura robusta; semplicemente gli faceva comodo in svariate
situazioni: nell’orticello praticava buchi profondi dove
piantare i semi,
all’occorrenza schiacciava, con una punta di perfidia, i
numerosi scarafaggi
che percorrevano i corridoi scrostati dell’istituto e
soprattutto, attività che
lo divertiva immensamente, lo tirava sulla testa e sulle gambe dei
bambini. Ma
questo non piano, e di certo i suoi non erano scappellotti affettuosi;
come
diceva George ai nuovi arrivati “ se ti becchi una di quelle
legnate, puoi star
certo di finire dritto, dritto con il muso per terra.” Poi
aggiungeva sottovoce
“ e dopo, se ancora ci riesci, devi alzare le chiappe e
filare via come il
vento.”
Il magia - carote non distribuiva mai le sue “ buone
lezioni” , come le
definiva, con un senso logico; potevi averla fatta grossa ma spesso ti
centrava
in pieno all’improvviso e senza un reale motivo,
probabilmente perché in quel
momento a lui andava bene così. In realtà una
motivazione c’era sempre, il
problema era che la sapeva Duffy e nessun altro.
In
quelle circostanze c’era qualcosa di particolare nel suo
sguardo, qualcosa di
indefinito ed incomprensibile che faceva venire la pelle
d’oca a Matt e a tutti
gli altri bambini.
Un giorno c’era stata una rissa tra due ragazzi: il
più piccolo, Henry,
era amico di Matt; e, disgraziatamente, i due se le erano date fin
sopra
l’orticello di Duffy, nonostante fosse stato sapientemente
recintato. Duffy e
la sua verga si erano come materializzati all’improvviso,
dato che nessuno di
tutti i marmocchi che assistevano alla zuffa aveva sentito nulla, poi
il
bastone era calato sibilando una, due, tre volte su uno dei due
litiganti, ma
già alla prima botta cupa e sorda tutti gli altri bambini
erano fuggiti veloci
come cerbiatti. Anche Matt era scappato ma dopo qualche metro si era
voltato e
aveva visto Duffy continuare a darle di santa ragione al povero Henry,
ormai
ridotto ad una pallina tanto si era rannicchiato al suolo. Matt aveva
ancora
fatto in tempo ad osservare lo sguardo assente del magia - carote e la
macchia
di sangue scuro che si andava a raccogliere sulla fronte del suo amico,
poi
Lucy lo aveva strattonato gridandogli di andare via da lì.
Il giorno dopo Henry
non c’era più e l’orticello era tornato
perfetto e ordinato. La direttrice
aveva detto con qualcosa di simile ad un sorriso che Henry era stato
adottato,
ma si era curata di tenere lo sguardo incollato al pavimento.
Anche
Matt se ne era prese parecchie di quelle mazzate, poi aveva
imparato a tenersi alla larga (calcolando un raggio di circa due metri
e mezzo);
tuttavia, dopo quel particolare fatto, la lezione era stata compresa da
ognuno
e ognuno parlava del mangia - carote con un’espressione grave
dipinta in volto.
In
realtà, l’unico a non averlo capito
pareva essere solo il gracile Tom, ma il problema era che le bastonate
se le
prendeva anche lui, e forse più di tutti, ogni qual volta
strillava o si
lamentava.
Matt si
soffermò sul grande livido violaceo che deturpava il viso
del bimbo e sul suo
labbro sottile spaccato; il suo sguardo di rimprovero si
addolcì un poco. “ Se
continua così” pensò Matt “
quello scemo finirà proprio come Henry.”
Si
voltò, stringendosi nelle coperte ruvide.
Era incredibile; persino dalla loro angusta stanza Mail riusciva a
sentire distintamente il ritmico suono dello zappare di Duffy. Lavorava
con
impegno per le sue verdure, zappava e piantava, ogni notte. Matt lo
sapeva,
poiché ogni notte si svegliava. Infatti, se il mangia -
carote gli metteva
davvero i brividi, con quei suoi grandi occhi vuoti, in confronto ai
suoi
incubi l’ignaro Duffy era ben poca cosa. In realtà
il sogno era sempre lo
stesso: una buffa ragazza e il suo sorriso che, di per sé,
non aveva nulla di
lugubre. Matt davvero non se lo spiegava ma quasi ogni notte si
svegliava per
fuggire dalla morsa del sonno che lo costringeva a quello che,
nonostante la
premessa, altro non era che un terribile
incubo. A volte al proprio risveglio si scopriva in lacrime, ma quasi
sempre
doveva mettere a tacere l’urlo di profondo terrore. Solo in
poche occasioni gli
era capitato di bagnare il letto e Matt conservava ancora i lividi che
ne erano
derivati. Era ovvio che così non si poteva andare avanti; le
ore di riposo in
meno si facevano sentire, ma quella storia proseguiva da molto ormai.
Matt
poteva conservare solo il vago ricordo di quel sogno che, un tempo, era
stato
magnifico. Di questo il bambino era certo: anni prima, forse, non si
sarebbe
svegliato con la paura dipinta in volto ma, semplicemente, avrebbe
continuato a
dormire. Un sonno calmo e profondo, lungo quanto tutta la notte. Come a
trovarsi in un luogo lontano e impalpabile, e allo stesso tempo
famigliare; una
casa, una casa tutta per lui, dove avrebbe trovato rifugio dai tormenti
del
giorno. Almeno la notte, almeno in quelle poche ore, quando la luna
galleggiava
nel nero più scuro con il suo chiarore incantante, lui
sarebbe stato al sicuro
dalle ombre, vicino alla risata puerile di uno sconosciuto che gli
sussurrava
qualcosa, che gli svelava un segreto, era un sorriso bellissimo e
gentile e allora
Matt non aveva più paura.
Ma adesso
era diverso. Il sorriso spesso si tramutava in un orribile ghigno e a
volte il
volto da bambina della ragazza sbiadiva, sovrapponendosi a mille altri
volti,
mille altri visi confusi e, allo stesso tempo come conosciuti, che poi
si
mischiavano e si scioglievano, simili a maschere di cera. Bambini e
vecchi,
uomini e donne, sognava il volto di Duffy, sognava Henry che lo
guardava, lo
scrutava fin dentro l’anima con un’espressione
triste.
Matt
spalancava gli occhi e si ritrovava in una stanza. Quella non cambiava
mai, i
soliti letti, i soliti respiri dei molti bambini ammassati vicini,
proprio come
lui. E, a quel punto, strappato dalle sue angosce, si scopriva sveglio
mentre
tutti gli altri dormivano, si scopriva solo. Allora, proprio in
quell’istante,
ecco che il buio lo assaliva. Un’ oscurità
vischiosa e senza forma che
inghiottiva il bambino. Faceva male respirare quelle tenebre,
così viscide e
luride, si appiccicavano alla gola ad ogni respiro e Matt allora
rantolava.
Ma poi si
ricordava di un trucco, un’ idea astuta che funzionava ogni
singola volta. Nel
buio più profondo, tastava agitato sotto il cuscino e
afferrava qualcosa, una
scatolina quadrata: era la sua unica scappatoia e conteneva una magia,
una
magia incredibile. A quel punto la apriva e una luce tenue illuminava
il volto
spaventato di Matt. Un chiarore debole e fioco il quale,
però, sapeva scavarsi
un varco tra le tenebre. Allora il bambino iniziava a giocare, premendo
i tasti
e ricominciava la partita. Ridava la vita ad un gioco intero
già fatto
centinaia di volte, e vinceva, vinceva sempre. Ma a Matt non importava,
si aggrappava
soltanto con muta disperazione a quel fioco bagliore e pregava, pregava
con
tutto il cuore che non si spegnesse mai. Anche ora gioca, mentre Tom
sogna,
gioca da solo tra altri bambini addormentati. Sente i loro respiri
pacati e
immerge ancora di più il viso nella tiepida luce. Matt
aspetta che la notte
vada via, e che il sole ritorni a splendere. Fuori, Duffy zappa ancora
sotto
una luna grande e silenziosa.
Mello
Il
paese era apparso all’improvviso,
nascosto dall’ultima montagna. Gli alberi si erano pian piano
diradati,
lasciando posto alle prime abitazioni e ai primi cancelli, ed ora
Mihael si
trovava a camminare sull’asfalto grigio, fradicio ed
affamato. Se non fosse
stato stremato dal sonno e dalla fatica del lungo cammino, avrebbe
comunque
apprezzato quel luogo così accogliente. Pareva uno di quei
paesini descritti
dettagliatamente nelle fiabe, dove gli abitanti sono fate e gnomi
ridanciani e
tutti trascorrono le giornate vivendo in armonia; le casette erano
piccole e
graziose, costruite sapientemente tutte in fila e circondate da un
giardino
ricco di fiori dai colori tenui. Non vi erano edifici imponenti o
austeri, ma
regnava una placida e pacifica atmosfera che provocava un piacevole
effetto
soporifero. Mihael era certo che la mattina presto, forse ancora prima
che il
sole sbucasse nel cielo, si potesse sentire l’odore caldo e
inebriante del pane
appena sfornato, e magari scorgere tanti bambini come lui che giocavano
a rincorrersi,
udire le loro risa spensierate.
Lo sguardo di
Mihael si rabbuiò tutto ad un tratto; improvvisamente si
domandava che cosa si
prova.
Il
pensiero gli era nato senza un preciso scopo, come quei fiori
selvatici, pur
così belli, ma che non si sa mai dove andranno a germogliare.
…Cosa si prova mentre si gioca con
altri
bambini, quali sono le tattiche per vincere a nascondino.
Cosa
significa avere una famiglia e cosa, realmente, è una casa.
Era buffo. Nessun
ragazzino avrebbe potuto fare quello che aveva fatto lui, nessuno aveva
una
capacità di adattamento tanto ampia, o una conoscenza
particolareggiata come la
sua. Eppure su quegli argomenti così semplici Mihael si
trovava del tutto
impreparato, e non trovava risposta a così numerosi
interrogativi. E allora,
ecco che si infuriava e stringeva forte i pugni, fino a quando non
sentiva le
unghie penetrare nella carne.
Tuttavia
quel
paese racchiudeva un dolce ripieno, come la promessa di trovare un
focolare
caldo a qualsiasi porticina si bussasse; e se in quel momento avesse
potuto
scegliere un luogo ove passare il resto della sua vita, avrebbe
indicato con il
dito proprio lì, senza rifletterci più di tanto.
Ma quelli erano pensieri sconnessi, pallide lusinghe
della mente. Lo scopo che si era imposto, prima di mettersi in viaggio,
era un
altro, ed ora si domandava se mai sarebbe riuscito a perseguirlo.
Doveva
rimettersi in cammino al più presto, senza ulteriori perdite
di tempo e
chiedere informazioni, nonostante il suo aspetto spaventoso, domandare
dove
fosse la cittadina chiamata Winchester,
e se per caso qualcuno conoscesse il luogo esatto
dell’orfanotrofio del
rinomato professor Quillsh Wammy. Capiva che sarebbe stato difficile,
ma
poteva, anzi, doveva contare solo sulla resistenza delle sue gambe, e
unicamente così avrebbe avuto qualche possibilità
di riuscita. Mihael non
nutriva dubbi su questo e, di conseguenza, non vi era spazio per il
timore di
un fallimento; ancora una volta inesorabilmente solo con se stesso, lui
e
Mihael Keehl; nessun altro. E, rispetto a tutto il resto, quella
consapevolezza
era l’unica a creargli un profondo terrore.
E
magari fu questo
ultimo, lugubre pensiero, o forse solo il caso; Mihael non lo sa,
tuttavia,
mentre rimuginava su queste premesse, non si accorse minimamente del
movimento
lento e quasi ipnotico delle sue labbra, le quali andavano a sussurrare
qualcosa; come un riflesso istintivo, un’azione recondita che
mai avrebbe
immaginato di poter compiere.
“Ti
prego.” Si sentì, in un bisbiglio.
Cos’era quella? Una richiesta di aiuto,
forse? A chi, poi? A chi? Nessuno, né dio né
uomo, gli aveva mai teso la mano,
mentre sprofondava in acque incerte e melmose; si era semplicemente
adagiato
sul fondo, sollevando appena una putrida polvere. Tutto qui.
Mihael
percepì chiaramente la gravità dello squarcio che
aveva nel petto; una ferita
infetta, che mai avrebbe avuto occasione di rimarginarsi. Era la sua
condanna:
avrebbe trasudato per sempre un sottile rivolo di sangue, che striscia,
ancora,
sulla pelle candida. Ed
era proprio
questa conoscenza innegabile che, lentamente, lo stava conducendo verso
luoghi
oscuri. Un’esasperazione tale da rassomigliare
all’albore di una follia.
Eppure non riusciva a
smettere di pensare a quella debole preghiera, lanciata a caso e
rivolta a
nessuno in particolare, la quale racchiudeva una miriade di sogni
infranti e,
ancora, custodiva gelosamente quelli che Mihael sperava di vedere
realizzati,
nonostante tutto. Proprio quei sogni fragili come cristalli che
così tanto
temeva di poter spezzare.
Sobbalzò
visibilmente sentendo il peso di una mano posata
con ben poca grazia sulla sua spalla, e nel momento stesso in cui si
sentì
costretto in una salda
morsa percepì
di essere stato strappato,
ancora una volta, dal tiepido abbraccio delle sue illusioni.
“ Hey, little brat, what are you doing?”
Mihael
boccheggiò, confuso. A
stento registrò che quello che aveva
davanti era con ogni probabilità un carabiniere, o
poliziotto britannico, il
quale per giunta gli aveva appena dato del moccioso, sputandoglielo in
faccia
con tono sprezzante. Quella nuova comparsa si era rivelata piuttosto
crudele,
pensò Mihael. D’altronde lo aveva colto
impreparato, piombandogli addosso come
un avvoltoio.
Mihael
sbuffò stizzito, esibendo una nuova espressione di completa
insolenza. Gli bastò
un istante per realizzare con lucidità di essere appena
stato catturato, così
ingenuamente, per giunta. Era un bel guaio; ora avrebbe dovuto fornire
delle
spiegazioni più che convincenti. Avrebbe dovuto sorridere,
fingere ancora, e
mostrarsi innocente, desideroso di collaborare.
Era con ovvietà la cosa più giusta
da
fare, eppure, in quell’istante, nulla nella sua testa gli
proponeva di agire
razionalmente. Una sola parola gli veniva suggerita: “
Scappa!” , perché Mihael
sapeva che se fosse stato rinchiuso, ancora una volta, in qualche luogo
angusto
dove si sarebbe sentito soffocare, dove il suo progetto di sarebbe
lentamente
sgretolato, era certo che sarebbe impazzito definitivamente.
Gli argini
rotti e lui sommerso; il suo grido silenzioso, soltanto un pianto muto.
Provò quindi a liberarsi
dalla presa dell’uomo con uno strattone improvviso, e
tuttavia si sorprese di
quanto fosse risultato debole quel tentativo: si scoprì
ancora e del tutto
imprigionato da quelle mani rudi che avevano aumentato la stretta sulla
sua carne,
già così dolorante. Lo sguardo del suo aguzzino
si era fatto ostile; non aveva
scelta, avrebbe dovuto ascoltarlo.
“ Where are your parents?” Mihael non
rispose. Genitori. Quali genitori?
L’uomo lo scrollò, quasi potesse
pensare che il bambino stesse dormendo profondamente tra le sue
braccia,
domandandogli se fosse sordo, per caso.
Mihael comprendeva con chiarezza
cosa stava per succedere: niente genitori significava essere un orfano,
un
ladruncolo sudicio e allo sbando nel mondo. Doveva fuggire, ad ogni
costo. Se
non in quel momento, se non in quel luogo, era certo che sarebbe
scappato,
prima del concludersi di quel giorno.
E, fra i suoi mille
progetti, non constatò neppure la palese realtà
di essere, ormai, senza più
forze.
Fu in quel momento che si accorse dello sguardo
dell’uomo, divenuto
all’improvviso insistente, quasi cercasse di riconoscere in
Mihael un lontano parente
o, chissà, forse un amico. La sua mano fasciata nel bianco
guanto andò, tutta
tremante, a frugare tra le pieghe della divisa, da dove riemerse
stringendo un
foglio di giornale stropicciato. Per
un istante a Mihael ricordò un prestigiatore.
Ora
i suoi occhi si erano fatti attenti e guizzavano frenetici dalla carta
al
bambino, dal bambino alla carta; un lampo di qualcosa del tutto simile
alla
paura ( o speranza forse) li attraversò. Infine si decise
con un gesto brusco a
condividere anche con lui quel foglio logoro, improvvisamente tanto
prezioso.
Iniziò a farfugliare parole agitate ed incomprensibili,
additandolo con fare
piuttosto maleducato, indicando poi l’articolo.
Dal canto suo Mihael si trovò davanti se
stesso, o almeno, quella che
sembrava essere una foto di lui, in prima pagina, ingrandita
orribilmente e
sovrastata da una scritta nera che recitava, inesorabile, la parola
“MISSING”;
e il primo pensiero di Mihael risultò nel constatare che,
più che altro, pareva
un necrologio; che tristezza: quasi gli si stringeva il cuore.
Quindi
lo stavano cercando.
Quella
consapevolezza non gli suscitò nessuna particolare reazione;
come un
osservatore esterno, valutò soltanto che era giusto
appendere manifesti e
annunci un po’ ovunque, avvertire la polizia,
poiché non era affatto decoroso
per una famiglia così in vista perdere l’unico
figlio tanto facilmente.
A Mihael quasi
facevano pena; che genitori disgraziati, privati or ora del loro
bambino;
chissà che fine avrà fatto, il marmocchio.
Pensò che probabilmente era annegato
in qualche fiume, o inciampato su un roccione.
Comunque pazienza;
in fondo non erano affari suoi.
Ma
come spiegarlo a questo qui? L’uomo lo stringeva
spasmodicamente, temendo ora
più che mai una sua fuga, lo fissava con grandi occhi
febbricitanti e ricolmi
di speranza. Mihael poté facilmente rivedere nelle sue iridi
lo sguardo
languido e ormai conosciuto di chi ha trovato il modo per fare un
po’ di soldi o
fortuna, l’atteggiamento ripugnante dei vermi che si
prostrano con umiltà ai
piedi dei potenti, mendicando un’occasione.
Era quasi
mortificato, il bambino, di dargli la notizia; eppure nel fondo del suo
cuore
quella scena così pietosa lo divertiva.
“
Mi dispiace, ma non sono io.” Disse.
Terribilmente convincente, ma in quel momento non aveva avuto bisogno
di
mentire o recitare, infatti lo aveva già chiarito una volta,
e quella non era
altro che la verità.
L’uomo raccolse la risposta
con un sussulto; lo fissò con disprezzo,
ispezionò i suoi vestiti stropicciati,
paragonandoli con aria disgustata a quelli, splendidi, della foto. La
sua
carnagione rosea non aveva nulla a che fare con il colorito pallido e
principesco di quel Mihael Keehl.
Fece
poi un gesto rassegnato con la mano, non curandosi in alcun modo di
nascondere
la cocente delusione, solo si ricacciò il giornale in tasca
e strattonò il
bambino per indurlo a seguirlo.
Eccone
un altro,pensava, un altro bastardo che gli procurava
l’ennesima scocciatura.
E, come se non bastasse, dal cielo cadeva quella pioggia da sempre
tanto
detestata, così fastidiosa e che mai accennava a diminuire;
solo, precipita
lenta e non si ferma, regolare come il placido ticchettio
dell’orologio.
Così
si strinse nella giacca di tela, ormai fradicia, rimuginando e
borbottando.
Anche per oggi, non aveva nessuna voglia di lavorare.
“ Hai proprio
ragione moccioso” proferì, voltandosi ancora un
momento verso Mihael. “ in
fondo non sei altro che uno sporco orfano.”
Sogghignò , e un filo di bava gli
fece capolino sul mento senza che lui se ne accorgesse; da
quell’istante in poi
non lo degnò più di uno sguardo.
Ma
il bambino era comunque soddisfatto: quello stesso giorno aveva
finalmente
messo la parola fine all’esistenza di Mihael Kheel, il quale,
proprio in quel
momento, stava esalando l’ultimo respiro, dopo essere
rovinosamente ruzzolato
sul fondo di qualche gola scoscesa. Boccheggiava, le braccine sottili
orribilmente contorte dalla caduta, spezzate come rami secchi; la pelle
diafana
scorticata è ammirata da occhi azzurri e increduli che
vedono per la prima
volta il colore vermiglio del sangue.
“ Avresti
fatto meglio a restartene accoccolato tra le mura sicure del tuo
castello,
senza andartene troppo a spasso, poiché in fondo te la sei
cercata. Piccolo e
stolto essere di cristallo, guardati: sei appena venuto al mondo e
già ti rompi
in mille pezzi, mille specchi di speranza tradita.”
Mihael
sorrise, innocente, trotterellando mansueto dietro a
quell’uomo così patetico nella
sua pomposa uniforme, poiché mai avrebbe potuto immaginare
che già il moccioso
pensava a come fuggire, silenzioso, nella notte.
In
Germania intanto il signore e la signora Keehl si
sarebbero presto rassegnati, e magari lei ha già in progetto
di prendersi uno
di quei cani che entrano perfettamente nelle borsette, e che tremano,
ininterrottamente, colpiti da continue convulsioni.
I così eccessivi manifesti raffiguranti il bel
visino di Mihael presto
diradati, strappati dal vento gelido e dalla pioggia battente, per poi
scomparire definitivamente un giorno, di cui nessuno ricorda la data.
Anni dopo la
società del signor Keehl sarebbe fallita miseramente,
sorpassata in azioni
dalla Yotsuba, che ormai primeggiava a livello mondiale.
Così, quando il signor
Keehl si portò alla testa la pistola, che conservava
sapientemente nel
comodino, e si sparò, tutti lo cedettero opera di Kira, solo
un’ennesima ed
ignara vittima della sua furia omicida, e tuttavia non vi è
da escludere
nemmeno questa possibilità, visto lo straordinario
attaccamento alla vita di
quell’uomo.
Da parte sua, la ormai vedova signora Keehl ( la quale detestava quel
nuovo titolo che la invecchiava terribilmente) non sprecò
neppure un istante e
dette subito inizio alla disperata ricerca di un nuovo ( e ricco)
marito; dopo
neppure un anno eccola felicemente sposata con qualche altro parassita
sociale,
senza figli. Lei e il suo barboncino bianco vivono ora sulla soleggiata
costa
Californiana, finalmente al caldo.
Per quanto riguarda la villa, che un tempo fu imponente ed
aristocratica,
adesso è stata comprata ad una somma ridicola da un
fortunato impresario e,
data la tranquillità del luogo, divenuta
un’accogliente pensione.
La stanza di Mihael ora
ne è il refettorio, e puzza di carote bollite.
Ciò che è certo è che
quell’odore non se ne andrà mai.
Tuttavia
il mondo è da tempo oppresso dalla follia di
Kira.
Troppe morti sono passate inosservate, la terra è intrisa di
sangue e
non dà nuovi germogli.
Nessuno ha più tempo per badare alle piccole cose, tutti
hanno
paura.
Non passò
molto. Il bambino smarrito fu presto dimenticato.
Quando
Mihael e il poliziotto giunsero all’orfanotrofio
cittadino che, fortunatamente per i piedi martoriati di Mihael, si
trovava
appena a pochi minuti da lì, e quando il bambino, dilatando
gli occhi si
accorse, leggendo la scritta “ Wammy’s
house” incisa sulla lastra di spesso
ottone, che non avrebbe dovuto più scappare, allora, proprio
in quel momento, i
suoi pensieri tornarono ratti alla preghiera fatta inconsapevolmente
poco
prima.
Il bambino
non sapeva che quella non era la prima volta che pregava, non poteva
saperlo in
alcun modo. Ma a volte lo faceva, distrattamente, e senza mai
accorgersene;
spesso chiedeva, sussurrava aiuto nel suo sonno leggero e tormentato.
Ed
ora, mentre se ne stava con la bocca spalancata a fissare
l’imponente cancello
di quella che, a quanto sembrava, era la tanto bramata meta, non poteva
dire,
davvero, se fosse opera di qualche dio o se fosse solamente pura
fortuna;
comunque questo, non aveva importanza. Perché, per la prima
volta della sua
vita, tra mille sconfitte e mille domande senza risposta, nonostante
innumerevoli volte avesse disperatamente chiesto aiuto, un aiuto
assolutamente
necessario e sempre negato; ecco che in quell’ultima e
piccola preghiera,
Mihael aveva riposto anche la sua ultima speranza: e finalmente
qualcuno lo
aveva ascoltato.