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Autore: Niki_S    27/06/2013    0 recensioni
Non tutte le storie hanno un lieto fine, no? Ma non tutte le storie finiscono con il punto finale. E poi si sa che è sempre più importante il viaggio rispetto alla meta.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Capitolo I - L'Inizio 1 - La Verità


Sono davanti a questo computer da quasi mezz’ora, ma quando mi ero seduto non avrei mai immaginato di poter finire così. Premo di nuovo la freccia a destra, ed è esattamente la settantasettesima volta che lo faccio ma ora non fa più male.
Quando ho acceso il pc ho trovato nella casella e-mail una cartella con duecentoventitre foto accompagnata da queste parole: Penso che sia giusto che tu sappia, anche se non avresti dovuto saperlo da me. Cambio ancora foto, perché ho intenzione di vedermele tutte, non voglio restare ancora nell’ignoranza. Lo skyline di New York riempie lo sfondo e per quanto sia un amante di quella meravigliosa città i miei occhi restano fissi sui due soggetti centrali. Il ragazzo ha le mani sui fianchi di una ragazza e la sta guardando dritto negli occhi, anche se lo sguardo di lei è abbassato con pudicizia. Premo ancora il tasto e passo alla foto successiva dove le labbra del ragazzo sono premute sul collo di lei, mentre questa passa le braccia attorno al suo collo. Non mi fa più male vedere queste immagini, perché ho stampato sulla retina la foto numero cinque, quella che mi ha davvero spezzato, che mi ha fatto dubitare di tutto il mio mondo.
Non serve nemmeno che torni indietro per ricordarmela: non c’è più il cielo a fare da sfondo, ma uno sgabuzzino dalle pareti gialle, con qualche armadio, però i soggetti sono gli stessi, solo più svestiti, anzi completamente nudi. Potrebbe anche sembrare uno screenshot di un video soft porn, se non per gli sguardi stupiti, terrorizzati e sconvolti che fissano la telecamera. La scena è molto semplice: lei è spalle al muro, con le braccia attorno al collo di lui e le gambe che si stringono sulla sua vita, lui invece tiene le mani sul suo sedere e i bacini si scontrano. Non ho dubbi che prima che fosse stata scattata la foto i due si stessero muovendo e non ho nemmeno bisogno di immaginare i suoni che riempivano la stanza, perché li conosco fin troppo bene.
Ecco, quella foto era stata quella che mi aveva bloccato, l’avevo osservata forse per cinque minuti, sperando che ogni volta che sbattevo le palpebre i soggetti cambiassero, che non fosse vero, ma le duecentodiciotto foto successive non mentono.
Mi sento un vero idiota a pensare che si potesse mantenere una relazione a distanza, che noi due ce l’avremmo fatta, ma ogni foto che vedo è come una voce che mi urla contro che mi prende in giro. Però so che ascolterò tutto quello che avrà da dirmi, so che guarderò ogni immagine lasciando che mi distrugga completamente perché me lo merito, mi sento in colpa per qualcosa che non ho fatto io.
Sono stupido, l’ho detto.
Sento il telefono che vibra sulla scrivania accanto alla mia mano e vedo il suo nome sullo schermo, ma non so se rispondere. Per quanto ne sa lui sto per mettermi a letto e non so nulla della sua serata precedente. Premo il tasto rispondi e posiziono la chiamata in vivavoce, mi sento schifato anche solo all’idea ti tenere in mano qualcosa che mi collega a lui.
-Hey, Olly- la sua voce suona così tranquilla, come se tutto fosse normale, ma a me sembra di vivere dentro una bolla, dove nulla va come dovrebbe – come stai?-
Mentre parla cambio ancora foto e questa volta lui ha la camicia aperta e un piccolo ciondolo nero risalta sulla pelle chiara. Gliel’ho regalato io, quando mi aveva aiutato a superare uno dei momenti più difficili della mia vita, e ora assisteva al crollo di un mondo. Ora non ce la faccio più, posso sopportare che non voglia stare con me, che si sia stancato di un ragazzo pesante e dalla lingua lunga, ma vedere quel ciondolo ancora al suo collo mi fa pensare che voglia fare il doppio gioco e a questo non posso starci.
-Rivoglio la mia collana.- Non aggiungo altro e attacco il telefono, mettendolo in silenzioso e lo giro, in modo da non vederlo illuminarsi ancora.
Continuo a guardare le foto ma la mia testa è altrove, ripenso a quello che ho passato con lui, tutti i momenti della mia vita che gli ho dedicato, ossia il tempo che ho sprecato e mi vengono le lacrime agli occhi.





Era una giornata di metà febbraio a Richmond, nell’Indiana, la mia meravigliosa città natale, e io stavo tornando a casa dopo la scuola. Ero al terzo anno in un istituto privato che sosteneva fortemente la superiorità dei ragazzi bianchi di buona famiglia, ma che almeno offriva molti corsi interessanti e con professori che venivano pagati per le loro abilità.
Ero rimasto a scuola un po’ più a lungo del solito, perché, come ogni giorno, cercavo una scusa per non dover tornare a casa, entrare nella mia enorme villa vuota e starmene da solo, così avevo passato quasi due ore nella biblioteca a studiare inglese. Però sapevo di non poter restare lì ancora a lungo o mi avrebbero chiuso fuori, così ero uscito per tornarmene, con la maggior calma possibile a casa.
Il cielo era coperto da delle nuvole grigie e tetre che preannunciavano una brutta serata e il vento cominciava a soffiare gelido. Mi strinsi nel cappotto, anche se non mi infastidiva poi tanto l’aria fredda, e comunque i pantaloni della divisa scolastica non riparavano minimamente le gambe, che ormai cominciavano a perdere di sensibilità.
Ero tranquillo, perso tra i miei pensieri come un giorno qualsiasi, ma molto attento al marciapiede, perché sapevo che il ghiaccio non aveva ancora avuto modo di sciogliersi, proprio come i cumuli di neve sulle piccole aiuole erbose accanto. Infatti quando passai accanto ad un albero posai il piede con molta attenzione a terra, perché mi aspettavo la lastra ghiacciata e per fortuna non scivolai, però non fui così fortunato anche il secondo successivo. Il ragazzo dietro di me, di cui non mi ero nemmeno accorto, non prestò la mia stessa attenzione al suolo e posò con troppa non curanza il piede a terra, scivolando pesantemente. Non mi accorsi di nulla, ma poi ricostruii la dinamica che è questa: il piede del ragazzo scivolò in avanti, lui per non cadere compensò portando il busto verso di me e posando la mano sulla mia spalla, ma non ci riuscì e scese fino ad aggrapparsi alla mia manica. Io ovviamente non me l’aspettavo e probabilmente avevo un piede in aria, perché persi immediatamente l’equilibrio, forse ero ancora sul ghiaccio, questo non l’ho mai scoperto, e finii per cadere come un pero in uno dei cumuli di neve. Fu letteralmente una doccia fredda sul viso e sulle mani, e persino sulla schiena, quando una manciata di gelo si infilo dentro la camicia, a contatto con la mia pelle. Farfugliai qualcosa, forse dissi anche, molto poco elegantemente, qualche parolaccia, ma quando riuscii un minimo a ritrovare la terra sotto ai piedi alzai lo sguardo per guardare la causa dei miei mali.
-Oddio! Scusami, non volevo, è che sono scivolato come un idiota e…-
Il ragazzo agitò le mani cercando di ricostruire la scena, senza alcun risultato e poi mi porse la mano.
-Ti prego, alzati e dimmi che stai bene…-
Sentendo la disperazione nella sua voce non riuscii a trattenere un sorriso e presi la sua mano, lasciando che fosse lui a tirarmi in piedi. Poi cominciò a passare la mano sul mio cappotto, sulle maniche e sulla schiena per liberarmi dalla neve che mi copriva. Continuava a scusarsi e a controllare che non mi fossi fatto male, e non riuscii davvero a trattenere una risata.
-Tranquillo, non è niente succede…Solo…- Mi aprii il cappotto e sfilai la camicia dai pantaloni, passandomi una mano sulla schiena per far cadere il cumulo di neve che ci si era infilata. Quando fui apposto alzai lo sguardo sul ragazzo, sorridendo.
-Vedi, non è successo niente?-
Ma il suo sguardo era ancora dubbioso e preoccupato, così decisi di trovare una soluzione.
-Dai, offrimi un caffè così mi scaldo e starò benissimo.-
Continuavo a sorridergli, per tranquillizzarlo, perché più che provare fastidio per il piccolo incidente mi stavo divertendo a vedere il suo viso torturato dai sensi di colpa per una cosa da niente. Ma alla mia proposta si illuminò e annuì.
-Ci sto- disse con entusiasmo, per poi porgermi la mano. –Comunque dopo averti quasi ucciso dovrei almeno presentarmi, sono Adam.
Ricambiai la stretta della mano sorridendogli e con un senso di simpatia e fiducia crescente.
-Io sono Oliver e il piacere è tutto mio.-
Qualcosa mi diceva che quell’incontro particolare fosse solo l’inizio, e avevo ragione, anche se ora mi pento di aver offerto quel caffè.
   
 
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