Schiavi d’amore
I
Roma, 73 d.C.
Sophia se ne stava ritta sulla tribuna, lo sguardo fermo e
impassibile, a celare i turbamenti del proprio animo. Le immagini degli
avvenimenti di cui recentemente era stata protagonista continuavano a ronzarle
in testa, come un fastidioso tarlo, ma cercava di non farsi influenzare da
esse. Come una cantilena, continuava a ripetere mentalmente gli insegnamenti
del padre, ovvero i principi di quella filosofia stoica che egli aveva sempre
impartito a giovani fanciulli e che lei aveva origliato ogni volta, nelle stanze
della loro dimora.
Soppresse quei ricordi.
Doveva tenere a mente solo gli
insegnamenti, non chi li aveva impartiti. Ricordare il padre faceva male, e lei
non aveva più intenzione di soffrire, di aggiungere tormenti psicologici a
quelli fisici.
La corda che le legava i polsi,
infatti, era talmente stretta da rendere difficoltosa la circolazione del
sangue e dal farle formicolare le dita, e ogni tanto doveva muoverle per
riacquistare sensibilità. Per non parlare dell’afa soffocante che rendeva
l’aria appiccicosa e la faceva sudare, sotto il sole cocente di Giugno nonché
di metà mattinata; essendo trattata come una bestia, non poteva godere del
sollievo che una zona in ombra le avrebbe potuto dare, per cui non le restava
altro da fare che stare ritta su quel piccolo palco di legno, in attesa che
qualche acquirente si mostrasse interessato a lei e la conducesse al suo
destino, qualunque esso fosse.
Fin da quando era stata deportata dalla
Grecia, aveva sempre saputo che le opzioni a cui andava incontro sarebbero
state varie. Le aveva più volte soppesate mentalmente, eppure non era stata in
grado di determinare quale fosse il minore dei mali. Erano tutte possibilità
infamanti e degradanti, per persone che come lei erano nate libere e si erano
ritrovate a essere schiave.
Per le donne che, come lei, erano state
prima figlie e poi mogli esemplari, probabilmente il destino più disdicevole
sarebbe stato quello di essere destinate a un lupanare, uno dei tanti bordelli
di Roma, ognuno dei quali era frequentato da una folta schiera di clienti di
ogni tipo e di ogni esigenza.
Serrò gli occhi per il disgusto, al
solo pensiero. Per gli dèi, sarebbe stato orribile! L’unica sua consolazione
sarebbe stata che suo padre e suo marito non ne sarebbero mai venuti al
corrente, dall’Oltretomba in cui dimoravano.
Finire in una villa (1) di campagna, però, non sarebbe stato tanto meglio. Tutti
sapevano che i servi delle villae erano i più sfruttati e i più maltrattati, i più
fustigati e i meno longevi. Venivano infatti sfruttati al massimo da un ex
schiavo per coltivare le terre e mandare avanti la villa mentre il dominus
era lontano e godeva dei proventi del loro lavoro per vivere nel lusso.
Nemmeno le famiglie patrizie di Roma,
tuttavia, potevano risultare un porto sicuro. Avrebbe potuto capitare in una
buona famiglia o in una famiglia crudele, e doveva vagliare ogni possibilità.
Come tante altre volte, desiderò essere
defunta. Nella morte vedeva l’unica soluzione ai propri problemi, l’unico
sollievo a quel tragico destino e l’unico modo per ricongiungersi ai propri
cari.
A quel pensiero si rattristò e se
possibile si incupì ancora di più. Emise un debole sospiro e tornò a fissare il
vuoto, impassibile.
Lucio Sergio Fidena
(2) osservò la piccola tribuna su cui erano accalcati una mezza dozzina di
schiavi. Il padre l’aveva mandato a cercare uno schiavo che sapesse il greco e
che fosse almeno un po’ acculturato, così da poter fare da precettore ai due
figli più piccoli avuti da un secondo matrimonio, dato che la prima moglie era
morta di parto dando alla luce Lucio. Anche la seconda consorte, però, era
incorsa in quel destino.
Lucio era già stato da altri mercanti
di schiavi, ma non aveva trovato quello che cercava. O meglio; aveva trovato
uno schiavo sui quarant’anni di origine greca che poteva fare al caso suo, ma
il prezzo era eccessivo e non aveva con sé abbastanza sesterzi. Era incredibile
il valore che gli schiavi acculturati potevano raggiungere.
Annoiato e accaldato, diede una rapida
occhiata agli schiavi ritti sul piccolo palco, nella speranza di trovare
qualcuno che facesse al caso suo. Stava per andarsene, quando il suo sguardo si
fermò su una ragazza che a prima vista doveva avere una ventina d’anni. Lesse
il cartello che portava al collo e sorrise fra sé e sé: quella giovane donna
proveniva da Atene, sapeva parlare il greco, sua lingua madre, ma anche il
latino, e infine era istruita sia di letteratura che di filosofia. Immaginò
che, essendo donna, non dovesse costare molto.
- Ehi, tu! – disse, rivolto al mercante
di schiavi. Quest’ultimo si voltò verso di lui con un sorriso felino, capendo
che molto probabilmente aveva trovato un acquirente.
- Quanto costa quella ragazza? –
domandò Lucio, indicando la giovane donna, il cui volto non tradiva emozioni.
- Quella, eh? Duemila e cinquecento
sesterzi (3). È un affare, per tutte le qualità che ha – rispose il mercante. –
Ed è anche molto graziosa. Può rendere molti altri servigi rispetto a quelli
elencati, non so se mi spiego – aggiunse in tono d’intesa, facendosi più vicino
a Lucio.
Il ragazzo fu disgustato da
quell’osservazione. A suo padre serviva uno schiavo istruito che facesse da
precettore, non certo uno schiavo del sesso. – Non mi importano i suoi servigi
secondari. Mi serve per la sua istruzione, non per il suo corpo – disse dunque
per liquidare il mercante. – La prendo – decretò infine, porgendo all’uomo il
sacchetto di cuoio che il padre gli aveva dato quella mattina. Conteneva la
cifra esatta che il mercante gli chiedeva per quella ragazza.
- Non te ne pentirai – disse il mercante,
afferrando prontamente il sacchetto, dopodiché si voltò e afferrò la corda che
legava i polsi della ragazza, per farla scendere dalla tribuna, quindi la porse
a Lucio.
La ragazza osservò per la prima volta
il suo nuovo padrone, sperando così di intuire quale sarebbe stato il proprio
destino. Doveva avere all’incirca la sua età, forse qualche anno in più; la sua
altezza rientrava nella media e la sua corporatura non era molto robusta, segno
che non era un soldato. In base agli abiti che indossava, doveva essere una
persona di alto rango, addirittura un patrizio, o semplicemente molto ricco.
- Come ti chiami? – le chiese, dopo
aver afferrato la corda che il mercante gli porgeva.
- Sophia –
rispose lei, in tono flebile.
Lucio pensò che Sophia
fosse un bel nome. Sapeva che era un nome greco e che era un sostantivo che
stava per ‘sapere’. Pensò che, per il compito che le sarebbe stato assegnato
nella sua domus,
quel nome fosse particolarmente calzante. Sperò solo che il padre la pensasse
allo stesso modo.
- Dimmi che ti stai prendendo gioco di
me – tuonò Tito Sergio Fidena, padre di Lucio nonché
senatore.
- No, padre, ho fatto quello che mi hai
chiesto – si difese il ragazzo. – Volevi uno schiavo greco e colto, ed è quello
che ho trovato – aggiunse dunque, indicando Sophia
con un gesto della mano.
- No, per niente! – lo contraddisse il
padre. – Hai trovato una schiava, non
uno schiavo! Una donna! Cosa me ne faccio io, di una donna? Ne ho già
abbastanza, di schiave!
- Se mi avessi dato più denaro, avrei
potuto comprare uno schiavo che rispondesse ai criteri che mi hai elencato.
L’avevo trovato, ma non avevo con me abbastanza sesterzi, dato che ne costava
cinquemila. Quelli che avevo sono stati sufficienti per comprare lei – si
giustificò Lucio, stizzito. Non aveva certo colpa per l’avarizia del padre. I
prezzi degli schiavi colti erano noti a tutti, e la sua pretesa di trovarne uno
a duemila e cinquecento sesterzi era un po’ assurda.
- Cinquemila! Assurdo! – sbottò Tito,
scuotendo la testa. – Sei giustificato, allora – aggiunse dunque, ormai
calmato, e Lucio poté esalare un sospiro di sollievo. – Sappi però che se la
schiava non si rivelerà all’altezza, la rivenderò – decretò infine, dopodiché
diede la spalle al figlio e andò nel tablinum, il suo studio nel quale intratteneva
corrispondenze con altri senatori, teneva i conti delle rendite delle proprietà
terriere fuori Roma e si rilassava leggendo le opere di poeti e storiografi latini
e greci.
Sophia seguì Lucio finché non giunsero in una stanzetta il cui
unico arredamento era costituito da un letto, da una piccola cassapanca e da un
tavolino sul quale era posata una brocca d’acqua.
- Questo è il tuo cubiculum – le spiegò Lucio, mentre
scioglieva i nodi della corda che le stringeva le mani. – Nella brocca c’è
dell’acqua con cui rinfrescarti e nella cassapanca troverai degli abiti –
proseguì. – Per qualsiasi altra cosa tu abbia bisogno, puoi chiedere agli altri
schiavi. Li trovi in giro per la casa – la liquidò infine, prima di sparire
oltre la soglia.
Sophia si sedette sul letto, con un sospiro. Dovette ammettere che
non le era andata male; era capitata in una casa patrizia e non in un lupanare.
Certo, il padrone di casa non si era dimostrato molto entusiasta quando l’aveva
vista, ma alla fine aveva accettato la scelta del figlio, per quanto si capisse
che la considerava discutibile. Era ancora un po’ scossa dal fatto che avessero
parlato di lei come se nulla fosse, come se non fosse presente, o ancora peggio
come se fosse un oggetto.
Doveva farci l’abitudine, però. Ora,
lei era una schiava e in quanto tale era un oggetto.
Quella notte, Sophia
non riusciva a prendere sonno. Il caldo era insopportabile, e la debole
trepidazione che provava per l’inizio di quella nuova vita da serva era
abbastanza forte per impedirle di chiudere gli occhi e dormire.
Non sapeva cosa l’aspettava, e questo
la paralizzava. Fino a quel momento, era stata padrona della propria vita e
delle proprie decisioni, e non aveva ancora metabolizzato quel capovolgimento
subìto, quell’improvvisa perdita di libertà che ora la rendeva alle dipendenze
di qualcun altro.
Le era stato spiegato che, a partire
dal giorno seguente, avrebbe dovuto fare da insegnante ai due figli minori di
Tito, un maschio e una femmina. Avrebbe dovuto insegnare loro a parlare,
leggere e scrivere in greco, la sua lingua madre. Poteva farcela, non sarebbe
stato un compito arduo. Se ne sarebbe occupata in ogni caso, se…
No, non doveva pensarci.
Si alzò dal letto e decise di fare una
passeggiata. Per un attimo le balenò alla mente l’idea di fuggire, ma scemò
subito. Dove sarebbe potuta andare? Da chi avrebbe potuto cercare rifugio? Non
conosceva nessuno, lì a Roma. Avrebbe potuto tornare ad Atene, sì, ma non
avrebbe trovato nessuno ad attenderla. Non le restava altro da fare che
rassegnarsi al proprio destino di servitù.
Uscì dal proprio cubiculum e si ritrovò a
camminare lungo il perimetro del grande peristilio, ovvero il colonnato della domus che si
trovava appena dopo l’atrium
di entrata e dal quale si aprivano tutte le stanze. Esso dava inoltre su un
grande e curato giardino, in cui crescevano piante di ogni tipo e al centro del
quale si trovava un’ampia piscina circolare, alimentata da una fontana al centro
di essa, sulla quale troneggiava un gruppo statuario di gusto ellenistico che
raffigurava Tritone attorniato dalle Nereidi.
Sophia si inoltrò nel giardino, sperando di trovare un po’ di
frescura che desse tregua all’afa di quella notte. Si avvicinò alla grande
vasca e si chinò per immergervi dentro una mano; emise un sospiro di sollievo
quando saggiò la freschezza dell’acqua e chiuse gli occhi, con un sorriso. Poco
dopo li riaprì e si guardò in giro per accertarsi che nessuno oltre a lei si
aggirasse per la domus,
dopodiché si rialzò e si sfilò la leggera tunica che aveva indossato per andare
a dormire. Tolse anche il subligaculum che le copriva le parti intime e lo strophium che le
cingeva il seno, dopodiché si immerse nell’acqua, traendone subito sollievo.
Chiuse gli occhi e andò sott’acqua,
immergendosi completamente. Tornò su e iniziò a nuotare, facendo il giro della
vasca, che era abbastanza ampia e profonda da permetterle di muoversi
liberamente.
Si sentì leggera, e per un attimo
dimenticò i propri problemi e le proprie frustrazioni. Non pensò a nulla se non
alla piccola distesa d’acqua che la circondava e al silenzio che ammantava la domus. Trattenne il fiato e si immerse di nuovo sott’acqua,
dimentica di tutto.
Restò a crogiolarsi nell’acqua fresca
per quella che le parve un’eternità, finché una voce non la fece sussultare.
- Vedo che non hai perso tempo a
prendere confidenza con quello che la mia casa offre – disse infatti Lucio, con
una punta di ironia.
Sophia, udite quelle parole, soffocò un urlo e nuotò
immediatamente verso il bordo per accostarvisi e coprire le proprie nudità.
- Ti chiedo scusa, dominus – sussurrò ad occhi bassi, rossa in viso. – Non riuscivo a
dormire per il troppo caldo, e così ho pensato…
- Hai pensato di farti una nuotata –
proseguì per lei il giovane. – Non ti biasimo. La calura estiva di Roma è
asfissiante e insopportabile anche per noi cittadini romani, non oso immaginare
come deve essere per chi la sperimenta per la prima volta – aggiunse,
sorridendo comprensivo.
- Quindi non dirai nulla a tuo padre? –
chiese Sophia, un po’ sollevata. Temeva infatti che
Lucio andasse a spifferare tutto al senatore e che questi decidesse di
venderla, dato che aveva deciso di farsi una nuotata senza il permesso di
nessuno.
- No, non dirò nulla.
Sophia trasse un sospiro di sollievo. Alzò lo sguardo e vide che
Lucio le sorrideva, ma si accorse anche di un altro fatto, abbastanza curioso.
- Ma tu sei vestito a giorno, dominus… Non ti
sei svegliato perché ho fatto rumore, vero? – chiese dunque, dando voce ai
propri sospetti. Il sorriso scomparve improvvisamente dalle labbra di Lucio,
che divenne subito serio. – Stai tornando da chissà dove, non è così?
- Sì, è così. Sei perspicace, non c’è
che dire – confermò il ragazzo. – E mio padre non deve saperlo – sentenziò
dunque. Era stato, come altre notti, da una matrona annoiata con cui
intratteneva una relazione clandestina. Se suo padre ne fosse venuto a
conoscenza, sarebbe andato su tutte le furie, lo sapeva, sia perché se la
relazione del figlio con una donna sposata fosse venuta alla luce avrebbe
gettato fango sul buon nome della propria famiglia e sia perché Roma era una
città pericolosa, di notte.
- Va bene, dominus – lo rassicurò Sophia. – Siamo in
due ad avere un segreto da nascondere, ora.
- Già – constatò Lucio. – Ora ti
dispiacerebbe cedermi il posto nella vasca? Ero venuto qui per darmi una
rinfrescata, ma poi ho visto che c’eri tu. A meno che tu non decida di restare
a farmi compagnia…
- No, no, torno nel mio cubiculum – si
affrettò a interromperlo la ragazza, imbarazzata. – Se mi fai il favore di
voltarti, dominus, prendo i miei
abiti e me ne vado.
Lucio emise una breve risata e si
voltò, mentre Sophia usciva dalla vasca. Fu tentato
di sbirciare ma si trattenne; per quella notte ne aveva già avuto abbastanza,
di donne.
- Buonanotte, dominus – lo salutò la ragazza dopo essersi rivestita in fretta e
furia, prima di correre via e tornare nella propria stanza.
- Buonanotte – disse di rimando Lucio,
prima di voltarsi nuovamente.
Sophia era già sparita, al sicuro nella propria stanza.
Note
(1) La villa romana non è una dimora di lusso,
come per noi oggi. Il significato più corretto sarebbe quello di ‘azienda
agricola’. Per farla breve, era una sorta di fattoria/cascina.
(2) Il
protagonista maschile, Lucio, appartiene alla gens Sergia
(la stessa a cui apparteneva anche Catilina), che si
divideva in vari rami, tra cui i Fidena.
L’ho chiamato Lucio in onore del protagonista del
romanzo di Apuleio, L’asino d’oro (o Metamorfosi).
Approfitto di questo spazio per dire che ogni
patrizio aveva tre nomi: il primo nome (praenomen), il nomen gentilicium (cioè il nome della gens d’appartenenza) e
il cognomen.
(3) Sia Alberto
Angela che la mia prof di numismatica indicavano questa cifra, come prezzo
standard di uno schiavo. Il mercato era fiorente e in base alle qualità che uno
schiavo possedeva, il suo prezzo variava. Un sesterzio equivale a circa due
euro attuali (ma sono calcoli da prendere con le pinze), quindi
duemilacinquecento sesterzi sono circa cinquemila euro.
Eccomi
di nuovo qui in questa sezione con una nuova storia, che ha partecipato al
concorso ‘Impossible Love’ indetto da Gely_9_5 sul
forum di Efp, classificandosi prima e aggiudicandosi
il ‘Premio Lacrima’. Ancora stento a crederci!
Che
dire?
La
storia consta di cinque capitoli e pubblicherò una volta a settimana.
L’ho
ambientata nell’Antica Roma forte dei miei studi in archeologia e della lettura
dei libri di Alberto Angela. Oltre a ciò ho letto anche un po’ di libri di
narrativa ambientati in questo periodo, di vari autori: Valerio Massimo
Manfredi, Adele Vieri Castellano e Andrea Frediani.
Ve li consigli vivamente, meritano tutti. Sarà che io amo l’Antica Roma e
quindi sono un po’ di parte xD
Spero
che questa storia vi piaccia :)
Se
notate qualche imprecisione, errore di battitura o di ortografia, non esitate a
farmelo presente. Per quanto io controlli e ricontrolli qualcosa mi sfugge
sempre.
Anche
se avete qualche dubbio, se ritenete che io abbia spiegato male qualche cosa,
ditemelo, così provvederò.^^
A
presto^^
Sara