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Autore: Pikky    28/06/2013    8 recensioni
Roma, 73 d.C.
Sophia giunge a Roma da schiava. Ha un doloroso passato da donna libera da dimenticare, se vuole adeguarsi subito alla sua nuova condizione. Viene acquistata da un giovane patrizio, Lucio. Senza nemmeno accorgersene si innamorerà di lui, e quando se ne renderà conto sarà troppo tardi. Le diverse condizioni sociali li dividono, ma sarà l’amore in grado di unirli? Ma soprattutto, sono solo quelle a separarli o c’è qualcun altro a cui un loro eventuale amore risulterebbe dannoso?
[Prima classificata al contest 'Impossible Love' indetto da Gely_9_5 sul Forum di Efp]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Capitoli:
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Schiavi d’amore

 

 

I

 

Roma, 73 d.C.

 

Sophia se ne stava ritta sulla tribuna, lo sguardo fermo e impassibile, a celare i turbamenti del proprio animo. Le immagini degli avvenimenti di cui recentemente era stata protagonista continuavano a ronzarle in testa, come un fastidioso tarlo, ma cercava di non farsi influenzare da esse. Come una cantilena, continuava a ripetere mentalmente gli insegnamenti del padre, ovvero i principi di quella filosofia stoica che egli aveva sempre impartito a giovani fanciulli e che lei aveva origliato ogni volta, nelle stanze della loro dimora.

Soppresse quei ricordi.

Doveva tenere a mente solo gli insegnamenti, non chi li aveva impartiti. Ricordare il padre faceva male, e lei non aveva più intenzione di soffrire, di aggiungere tormenti psicologici a quelli fisici.

La corda che le legava i polsi, infatti, era talmente stretta da rendere difficoltosa la circolazione del sangue e dal farle formicolare le dita, e ogni tanto doveva muoverle per riacquistare sensibilità. Per non parlare dell’afa soffocante che rendeva l’aria appiccicosa e la faceva sudare, sotto il sole cocente di Giugno nonché di metà mattinata; essendo trattata come una bestia, non poteva godere del sollievo che una zona in ombra le avrebbe potuto dare, per cui non le restava altro da fare che stare ritta su quel piccolo palco di legno, in attesa che qualche acquirente si mostrasse interessato a lei e la conducesse al suo destino, qualunque esso fosse.

Fin da quando era stata deportata dalla Grecia, aveva sempre saputo che le opzioni a cui andava incontro sarebbero state varie. Le aveva più volte soppesate mentalmente, eppure non era stata in grado di determinare quale fosse il minore dei mali. Erano tutte possibilità infamanti e degradanti, per persone che come lei erano nate libere e si erano ritrovate a essere schiave.

Per le donne che, come lei, erano state prima figlie e poi mogli esemplari, probabilmente il destino più disdicevole sarebbe stato quello di essere destinate a un lupanare, uno dei tanti bordelli di Roma, ognuno dei quali era frequentato da una folta schiera di clienti di ogni tipo e di ogni esigenza.

Serrò gli occhi per il disgusto, al solo pensiero. Per gli dèi, sarebbe stato orribile! L’unica sua consolazione sarebbe stata che suo padre e suo marito non ne sarebbero mai venuti al corrente, dall’Oltretomba in cui dimoravano.

Finire in una villa (1) di campagna, però, non sarebbe stato tanto meglio. Tutti sapevano che i servi delle villae erano i più sfruttati e i più maltrattati, i più fustigati e i meno longevi. Venivano infatti sfruttati al massimo da un ex schiavo per coltivare le terre e mandare avanti la villa mentre il dominus era lontano e godeva dei proventi del loro lavoro per vivere nel lusso.

Nemmeno le famiglie patrizie di Roma, tuttavia, potevano risultare un porto sicuro. Avrebbe potuto capitare in una buona famiglia o in una famiglia crudele, e doveva vagliare ogni possibilità.

Come tante altre volte, desiderò essere defunta. Nella morte vedeva l’unica soluzione ai propri problemi, l’unico sollievo a quel tragico destino e l’unico modo per ricongiungersi ai propri cari.

A quel pensiero si rattristò e se possibile si incupì ancora di più. Emise un debole sospiro e tornò a fissare il vuoto, impassibile.

 

Lucio Sergio Fidena (2) osservò la piccola tribuna su cui erano accalcati una mezza dozzina di schiavi. Il padre l’aveva mandato a cercare uno schiavo che sapesse il greco e che fosse almeno un po’ acculturato, così da poter fare da precettore ai due figli più piccoli avuti da un secondo matrimonio, dato che la prima moglie era morta di parto dando alla luce Lucio. Anche la seconda consorte, però, era incorsa in quel destino.

Lucio era già stato da altri mercanti di schiavi, ma non aveva trovato quello che cercava. O meglio; aveva trovato uno schiavo sui quarant’anni di origine greca che poteva fare al caso suo, ma il prezzo era eccessivo e non aveva con sé abbastanza sesterzi. Era incredibile il valore che gli schiavi acculturati potevano raggiungere.

Annoiato e accaldato, diede una rapida occhiata agli schiavi ritti sul piccolo palco, nella speranza di trovare qualcuno che facesse al caso suo. Stava per andarsene, quando il suo sguardo si fermò su una ragazza che a prima vista doveva avere una ventina d’anni. Lesse il cartello che portava al collo e sorrise fra sé e sé: quella giovane donna proveniva da Atene, sapeva parlare il greco, sua lingua madre, ma anche il latino, e infine era istruita sia di letteratura che di filosofia. Immaginò che, essendo donna, non dovesse costare molto.

- Ehi, tu! – disse, rivolto al mercante di schiavi. Quest’ultimo si voltò verso di lui con un sorriso felino, capendo che molto probabilmente aveva trovato un acquirente.

- Quanto costa quella ragazza? – domandò Lucio, indicando la giovane donna, il cui volto non tradiva emozioni.

- Quella, eh? Duemila e cinquecento sesterzi (3). È un affare, per tutte le qualità che ha – rispose il mercante. – Ed è anche molto graziosa. Può rendere molti altri servigi rispetto a quelli elencati, non so se mi spiego – aggiunse in tono d’intesa, facendosi più vicino a Lucio.

Il ragazzo fu disgustato da quell’osservazione. A suo padre serviva uno schiavo istruito che facesse da precettore, non certo uno schiavo del sesso. – Non mi importano i suoi servigi secondari. Mi serve per la sua istruzione, non per il suo corpo – disse dunque per liquidare il mercante. – La prendo – decretò infine, porgendo all’uomo il sacchetto di cuoio che il padre gli aveva dato quella mattina. Conteneva la cifra esatta che il mercante gli chiedeva per quella ragazza.

- Non te ne pentirai – disse il mercante, afferrando prontamente il sacchetto, dopodiché si voltò e afferrò la corda che legava i polsi della ragazza, per farla scendere dalla tribuna, quindi la porse a Lucio.

La ragazza osservò per la prima volta il suo nuovo padrone, sperando così di intuire quale sarebbe stato il proprio destino. Doveva avere all’incirca la sua età, forse qualche anno in più; la sua altezza rientrava nella media e la sua corporatura non era molto robusta, segno che non era un soldato. In base agli abiti che indossava, doveva essere una persona di alto rango, addirittura un patrizio, o semplicemente molto ricco.

- Come ti chiami? – le chiese, dopo aver afferrato la corda che il mercante gli porgeva.

- Sophia – rispose lei, in tono flebile.

Lucio pensò che Sophia fosse un bel nome. Sapeva che era un nome greco e che era un sostantivo che stava per ‘sapere’. Pensò che, per il compito che le sarebbe stato assegnato nella sua domus, quel nome fosse particolarmente calzante. Sperò solo che il padre la pensasse allo stesso modo.

 

- Dimmi che ti stai prendendo gioco di me – tuonò Tito Sergio Fidena, padre di Lucio nonché senatore.

- No, padre, ho fatto quello che mi hai chiesto – si difese il ragazzo. – Volevi uno schiavo greco e colto, ed è quello che ho trovato – aggiunse dunque, indicando Sophia con un gesto della mano.

- No, per niente! – lo contraddisse il padre. – Hai trovato una schiava, non uno schiavo! Una donna! Cosa me ne faccio io, di una donna? Ne ho già abbastanza, di schiave!

- Se mi avessi dato più denaro, avrei potuto comprare uno schiavo che rispondesse ai criteri che mi hai elencato. L’avevo trovato, ma non avevo con me abbastanza sesterzi, dato che ne costava cinquemila. Quelli che avevo sono stati sufficienti per comprare lei – si giustificò Lucio, stizzito. Non aveva certo colpa per l’avarizia del padre. I prezzi degli schiavi colti erano noti a tutti, e la sua pretesa di trovarne uno a duemila e cinquecento sesterzi era un po’ assurda.

- Cinquemila! Assurdo! – sbottò Tito, scuotendo la testa. – Sei giustificato, allora – aggiunse dunque, ormai calmato, e Lucio poté esalare un sospiro di sollievo. – Sappi però che se la schiava non si rivelerà all’altezza, la rivenderò – decretò infine, dopodiché diede la spalle al figlio e andò nel tablinum, il suo studio nel quale intratteneva corrispondenze con altri senatori, teneva i conti delle rendite delle proprietà terriere fuori Roma e si rilassava leggendo le opere di poeti e storiografi latini e greci.

Sophia seguì Lucio finché non giunsero in una stanzetta il cui unico arredamento era costituito da un letto, da una piccola cassapanca e da un tavolino sul quale era posata una brocca d’acqua.

- Questo è il tuo cubiculum – le spiegò Lucio, mentre scioglieva i nodi della corda che le stringeva le mani. – Nella brocca c’è dell’acqua con cui rinfrescarti e nella cassapanca troverai degli abiti – proseguì. – Per qualsiasi altra cosa tu abbia bisogno, puoi chiedere agli altri schiavi. Li trovi in giro per la casa – la liquidò infine, prima di sparire oltre la soglia.

Sophia si sedette sul letto, con un sospiro. Dovette ammettere che non le era andata male; era capitata in una casa patrizia e non in un lupanare. Certo, il padrone di casa non si era dimostrato molto entusiasta quando l’aveva vista, ma alla fine aveva accettato la scelta del figlio, per quanto si capisse che la considerava discutibile. Era ancora un po’ scossa dal fatto che avessero parlato di lei come se nulla fosse, come se non fosse presente, o ancora peggio come se fosse un oggetto.

Doveva farci l’abitudine, però. Ora, lei era una schiava e in quanto tale era un oggetto.

 

Quella notte, Sophia non riusciva a prendere sonno. Il caldo era insopportabile, e la debole trepidazione che provava per l’inizio di quella nuova vita da serva era abbastanza forte per impedirle di chiudere gli occhi e dormire.

Non sapeva cosa l’aspettava, e questo la paralizzava. Fino a quel momento, era stata padrona della propria vita e delle proprie decisioni, e non aveva ancora metabolizzato quel capovolgimento subìto, quell’improvvisa perdita di libertà che ora la rendeva alle dipendenze di qualcun altro.

Le era stato spiegato che, a partire dal giorno seguente, avrebbe dovuto fare da insegnante ai due figli minori di Tito, un maschio e una femmina. Avrebbe dovuto insegnare loro a parlare, leggere e scrivere in greco, la sua lingua madre. Poteva farcela, non sarebbe stato un compito arduo. Se ne sarebbe occupata in ogni caso, se…

No, non doveva pensarci.

Si alzò dal letto e decise di fare una passeggiata. Per un attimo le balenò alla mente l’idea di fuggire, ma scemò subito. Dove sarebbe potuta andare? Da chi avrebbe potuto cercare rifugio? Non conosceva nessuno, lì a Roma. Avrebbe potuto tornare ad Atene, sì, ma non avrebbe trovato nessuno ad attenderla. Non le restava altro da fare che rassegnarsi al proprio destino di servitù.

Uscì dal proprio cubiculum e si ritrovò a camminare lungo il perimetro del grande peristilio, ovvero il colonnato della domus che si trovava appena dopo l’atrium di entrata e dal quale si aprivano tutte le stanze. Esso dava inoltre su un grande e curato giardino, in cui crescevano piante di ogni tipo e al centro del quale si trovava un’ampia piscina circolare, alimentata da una fontana al centro di essa, sulla quale troneggiava un gruppo statuario di gusto ellenistico che raffigurava Tritone attorniato dalle Nereidi.

Sophia si inoltrò nel giardino, sperando di trovare un po’ di frescura che desse tregua all’afa di quella notte. Si avvicinò alla grande vasca e si chinò per immergervi dentro una mano; emise un sospiro di sollievo quando saggiò la freschezza dell’acqua e chiuse gli occhi, con un sorriso. Poco dopo li riaprì e si guardò in giro per accertarsi che nessuno oltre a lei si aggirasse per la domus, dopodiché si rialzò e si sfilò la leggera tunica che aveva indossato per andare a dormire. Tolse anche il subligaculum che le copriva le parti intime e lo strophium che le cingeva il seno, dopodiché si immerse nell’acqua, traendone subito sollievo.

Chiuse gli occhi e andò sott’acqua, immergendosi completamente. Tornò su e iniziò a nuotare, facendo il giro della vasca, che era abbastanza ampia e profonda da permetterle di muoversi liberamente.

Si sentì leggera, e per un attimo dimenticò i propri problemi e le proprie frustrazioni. Non pensò a nulla se non alla piccola distesa d’acqua che la circondava e al silenzio che ammantava la domus. Trattenne il fiato e si immerse di nuovo sott’acqua, dimentica di tutto.

Restò a crogiolarsi nell’acqua fresca per quella che le parve un’eternità, finché una voce non la fece sussultare.

- Vedo che non hai perso tempo a prendere confidenza con quello che la mia casa offre – disse infatti Lucio, con una punta di ironia.

Sophia, udite quelle parole, soffocò un urlo e nuotò immediatamente verso il bordo per accostarvisi e coprire le proprie nudità.

- Ti chiedo scusa, dominus – sussurrò ad occhi bassi, rossa in viso. – Non riuscivo a dormire per il troppo caldo, e così ho pensato…

- Hai pensato di farti una nuotata – proseguì per lei il giovane. – Non ti biasimo. La calura estiva di Roma è asfissiante e insopportabile anche per noi cittadini romani, non oso immaginare come deve essere per chi la sperimenta per la prima volta – aggiunse, sorridendo comprensivo.

- Quindi non dirai nulla a tuo padre? – chiese Sophia, un po’ sollevata. Temeva infatti che Lucio andasse a spifferare tutto al senatore e che questi decidesse di venderla, dato che aveva deciso di farsi una nuotata senza il permesso di nessuno.

- No, non dirò nulla.

Sophia trasse un sospiro di sollievo. Alzò lo sguardo e vide che Lucio le sorrideva, ma si accorse anche di un altro fatto, abbastanza curioso.

- Ma tu sei vestito a giorno, dominus Non ti sei svegliato perché ho fatto rumore, vero? – chiese dunque, dando voce ai propri sospetti. Il sorriso scomparve improvvisamente dalle labbra di Lucio, che divenne subito serio. – Stai tornando da chissà dove, non è così?

- Sì, è così. Sei perspicace, non c’è che dire – confermò il ragazzo. – E mio padre non deve saperlo – sentenziò dunque. Era stato, come altre notti, da una matrona annoiata con cui intratteneva una relazione clandestina. Se suo padre ne fosse venuto a conoscenza, sarebbe andato su tutte le furie, lo sapeva, sia perché se la relazione del figlio con una donna sposata fosse venuta alla luce avrebbe gettato fango sul buon nome della propria famiglia e sia perché Roma era una città pericolosa, di notte.

- Va bene, dominus – lo rassicurò Sophia. – Siamo in due ad avere un segreto da nascondere, ora.

- Già – constatò Lucio. – Ora ti dispiacerebbe cedermi il posto nella vasca? Ero venuto qui per darmi una rinfrescata, ma poi ho visto che c’eri tu. A meno che tu non decida di restare a farmi compagnia…

- No, no, torno nel mio cubiculum – si affrettò a interromperlo la ragazza, imbarazzata. – Se mi fai il favore di voltarti, dominus, prendo i miei abiti e me ne vado.

Lucio emise una breve risata e si voltò, mentre Sophia usciva dalla vasca. Fu tentato di sbirciare ma si trattenne; per quella notte ne aveva già avuto abbastanza, di donne.

- Buonanotte, dominus – lo salutò la ragazza dopo essersi rivestita in fretta e furia, prima di correre via e tornare nella propria stanza.

- Buonanotte – disse di rimando Lucio, prima di voltarsi nuovamente.

Sophia era già sparita, al sicuro nella propria stanza.

 

 

 

Note

(1)  La villa romana non è una dimora di lusso, come per noi oggi. Il significato più corretto sarebbe quello di ‘azienda agricola’. Per farla breve, era una sorta di fattoria/cascina.

(2)  Il protagonista maschile, Lucio, appartiene alla gens Sergia (la stessa a cui apparteneva anche Catilina), che si divideva in vari rami, tra cui i Fidena.

L’ho chiamato Lucio in onore del protagonista del romanzo di Apuleio, L’asino d’oro (o Metamorfosi).

Approfitto di questo spazio per dire che ogni patrizio aveva tre nomi: il primo nome (praenomen), il nomen gentilicium (cioè il nome della gens d’appartenenza) e il cognomen.

(3)  Sia Alberto Angela che la mia prof di numismatica indicavano questa cifra, come prezzo standard di uno schiavo. Il mercato era fiorente e in base alle qualità che uno schiavo possedeva, il suo prezzo variava. Un sesterzio equivale a circa due euro attuali (ma sono calcoli da prendere con le pinze), quindi duemilacinquecento sesterzi sono circa cinquemila euro.

 

Eccomi di nuovo qui in questa sezione con una nuova storia, che ha partecipato al concorso ‘Impossible Love’ indetto da Gely_9_5 sul forum di Efp, classificandosi prima e aggiudicandosi il ‘Premio Lacrima’. Ancora stento a crederci!

Che dire?

La storia consta di cinque capitoli e pubblicherò una volta a settimana.

L’ho ambientata nell’Antica Roma forte dei miei studi in archeologia e della lettura dei libri di Alberto Angela. Oltre a ciò ho letto anche un po’ di libri di narrativa ambientati in questo periodo, di vari autori: Valerio Massimo Manfredi, Adele Vieri Castellano e Andrea Frediani. Ve li consigli vivamente, meritano tutti. Sarà che io amo l’Antica Roma e quindi sono un po’ di parte xD

Spero che questa storia vi piaccia :)

Se notate qualche imprecisione, errore di battitura o di ortografia, non esitate a farmelo presente. Per quanto io controlli e ricontrolli qualcosa mi sfugge sempre.

Anche se avete qualche dubbio, se ritenete che io abbia spiegato male qualche cosa, ditemelo, così provvederò.^^

A presto^^

Sara

   
 
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