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Autore: SidRevo    29/06/2013    38 recensioni
Una semplice raccolta di OS che si collegano in modo più o meno funzionale alla storia principale, "Blowing Bubbles", utilizzando però il punto di vista di Aaron Dunham.
Si consiglia quindi la lettura della long - che prima o poi terminerò, giuro - perché da sole non avrebbero ovviamente senso.
- 1° OS: "Liverpool - 1°parte"; da collocarsi tra il 18° e quello che sarà il 19° capitolo.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Contesto generale/vago
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Liverpool - 1°Parte [OS Aaron]


“Liverpool”

[1° parte]


Un cielo grigio piombo, quasi soffocante, accolse il mio arrivo, mentre le gocce d’acqua cadevano copiose sferzando il vecchio cartello arrugginito, su cui il nome “Liverpool” capeggiava un po’ smangiato dalla ruggine.
Liverpool. Non mi era mai piaciuto quel posto.
Tanti ne decantavano la bellezza rustica, il fascino di una città che si affaccia sul mare e da cui si può respirare a fondo il profumo della brezza marina.
Brezza marina... bah, io l’avrei definito “tanfo di pesce morto”, ma ognuno ha le sue opinioni, no?
L’unico motivo per cui ritenevo sopportabile l’esistenza di quell’ammasso di case colorate e fabbriche, era che quel posto aveva dato l’origine ad una delle band che più amavo e che più avevo sentito presente nella mia infanzia: i Beatles.
Buffo che il gruppo che avrebbe dato una vera innovazione al mondo della musica, fosse nato proprio in una città che di innovativo non aveva proprio un cazzo di niente. Perfino la pioggia a cui avrei dovuto essere abituato, il cielo livido o quell’insistente umidità che s’insinuava a congelare i nervi fino alle ossa mi sembravano noiose, stantie.
Come se non fosse abbastanza poi, quel posto era anche la patria dei Kop. Una firm simpatica... non c’è che dire.
Avrei dato fuoco ad ognuno di quei nani, dalla parte in cui avrebbero preso meglio. Tante belle torce umane. Loro, le loro cazzo di maglie o quello stupido coro che ripetevano fino a fracassarmi le palle; i loro stramaledetti coltelli e quella fottuta aria superiore che si portavano dietro e che gli avevo sentito sempre addosso da che avevo memoria.
Insomma, Lillyverpool e quei nani che la abitavano decisamente non rientravano tra le mie grazie e mai ci sarebbero entrati, ma non potevo fare a meno di essere lì, pur non riuscendo neanche ad ammettere con me stesso che, alla fine dei conti, mi ero spinto tanto lontano senza avere niente con me perché in quella città odiosa abitava l’unica persona da cui avrei potuto cercare davvero rifugio.
Mamma.
Il solo pensare a quella semplice parola mi fece tremare le gambe mentre scendevo dal treno e mi lasciavo colpire dalla pioggia.
Restai impalato sulla banchina per un po’, come un perfetto imbecille, incapace di fare qualcosa; se decidermi ad andare avanti o tirarmi ancora indietro e scappare da qualche altra parte.
La realtà era che non sapevo neanche perché ero fuggito in quel modo e così lontano. Mi odiavo per questo, ma ne avevo sentito l’impellente bisogno ed altro non avevo saputo fare che seguire ciò che il mio istinto mi aveva suggerito.
Una corsa sotto la pioggia, un treno preso al volo e poi di nuovo ancora sotto quelle gocce d’acqua e il cielo di un’altra città, ad aspettare chissà cosa e a sperare che l’odore di lei mi si lavasse via di dosso.
Fu forse quel pensiero che mi fece sobbalzare e mi spronò a fare qualcosa, che mi suggerì di terminare quello per cui ero arrivato fin lì. Proprio per questo mi ritrovai ad avanzare alle prime luci tenui di un’alba piovosa, con le mani in tasca; percorrendo una strada che altre volte avevo attraversato durante le trasferte a Liverpool, fermandomi sempre a qualche passo da
quella porta blu scuro, senza trovare mai il coraggio di bussare, suonare quel dannato campanello o semplicemente urlare a mia madre che ero lì, anche per lei.
Incurante di tutto avevo camminato tra le vie di quella città che lentamente si stava svegliando, assistendo come un osservatore distratto all’alzarsi dei primi avvolgibili e dei bandoni dei negozi. Provando l’irrefrenabile bisogno di sentire la consistenza di una macchina fotografica tra le mani e di premere quel dannato pulsante, per immortalare perfino quel posto maleodorante e rustico.
Un passo dietro l’altro, sempre più strascicati ed insofferenti, e alla fine mi ero ritrovato di nuovo davanti a quella porta blu, con le gambe ridotte improvvisamente a due macigni che sembravano essersi cementificati sull’asfalto.
Ero completamente pietrificato dall’altra parte della strada, con gli occhi fissi su quella sagoma regolare e scura, tanto da sembrare un malintenzionato o uno psicopatico, e tanto da provocare la curiosità dei pochi passanti che, forse insospettiti dal mio comportamento, avevano iniziato a controllarmi sottecchi.
Per questo – oltre che per voler evitare una chiamata di qualche stronzo a qualche poliziotto del cazzo – mi obbligai ad andare ancora avanti e a far muovere la mia mano fino a quel maledetto campanello.
Un trillo acuto echeggiò dall’altra parte della porta e, dopo un “arrivo” urlato da
quella voce che mi fece tremare, qualche secondo ed un frettoloso scalpitio, questa venne aperta.
Ed eccola lì, sulla soglia, con la mano ben stretta sulla maniglia e sempre bella da far male, nonostante la vestaglia un po’ storta, allacciata di fretta, i capelli arruffati e il viso stropicciato di chi è appena stato svegliato.
Era la donna più bella che avessi mai visto. Lo era sempre stata, mamma, più bella di chiunque altra, con i suoi lunghi capelli scuri e quegli occhioni neri, così grandi che potevi perdertici per ore a guardarli.
Così diversa da me, Brian e papà nei colori, che da bambino passavo minuti interi a fissarla mentre si preparava per uscire. Davo uno sguardo di tanto in tanto alle nostre due immagini vicine, riflesse nello specchio, per poi arricciare il naso di disappunto nel vedere il miei capelli disordinati e fin troppo biondi, tipici dei Dunham, così discordi da quei lunghissimi fili scuri, morbidi e profumati; sempre impeccabili e che le scendevano su una spalla in una treccia.
Era sempre stata perfetta lei, e spesso mi sono chiesto cosa ci potesse fare una donna così con uno spiantato come mio padre. Poteva avere chiunque e in tanti mi avevano raccontato di come faceva girare la testa, eppure, tra tutti aveva scelto il male peggiore o come diceva Brian: “aveva scelto il male peggiore, ma anche l’unico amore”.
Ed era bellissima anche in quel momento, nonostante avesse dipinta in faccia la stessa espressione di chi ha appena visto un fantasma... e forse l’aveva anche creduto davvero, per un attimo. Il fantasma del mio vecchio stronzo che era tornato in direttissima dall’inferno per tormentarla come si deve.

La vidi sbattere le palpebre più di una volta e schiudere le labbra con una lentezza esasperante, tale da uccidermi. Mi sentivo un perfetto coglione, impalato davanti a lei, con il cuore che batteva come un forsennato e lo stomaco che si aggrovigliava, ma non avrei voluto essere in nessun altro posto se non lì.
«Aaron...» lo soffiò appena il mio nome, come se in fondo temesse di pronunciarlo e di scoprire che fosse solo un sogno; come se il pronunciare quelle lettere potesse farmi sfumare via di nuovo lontano da lei, e mai come allora mi sentii la merda più colossale del pianeta. Il bastardo che avevo per cuore poi, pensò bene di torturarmi con una bella fitta da togliere il fiato, e abbastanza dolorosa da ricordarmi quanto mi era mancato sentirmi chiamare dalla sua voce.
«Così dicono» provai a scherzare, condendo il tutto con una sottospecie di sorriso, ma quello che andò a formarsi sulle mie labbra, fu qualcosa di molto più simile a una strana smorfia di stizza.
Lei però sembrò intuire il mio pietoso tentativo e colse la palla al balzo. In fondo era sempre stata la migliore nell’interpretare il “mondo di Aaron”.
«È appena esplosa una bomba a Londra e ancora non lo so?» mi chiese difatti, e il sarcasmo nella sua voce, seppur incerta, riuscì a strapparmi un sbuffo divertito davvero sincero.
«Qualcosa del genere.»
«Sei completamente fradicio. Entra» mi disse, scostandosi su un lato per lasciarmi passare. «Ma... non hai niente con te?»
Mi limitai a fare un cenno di negazione un po’ incerto, troppo impegnato a guardarmi intorno per prestarle davvero attenzione. In tutti gli anni che mi ero ritrovato nei pressi di quella casa o semplicemente l’avevo pensata, mi ero sempre chiesto come potesse essere; mi domandavo se anche tra quelle mura potesse esserci posto per il ricordo della famiglia che eravamo stati un tempo.
«Ti vado a prendere qualcosa di asciutto da indossare» parlò ancora lei, avviandosi nuovamente verso le scale. Solo quando riuscii a distogliermi dai miei pensieri ed elaborare la frase le rivolsi una strana occhiata, mentre dentro di me si facevano strada paura e una malata, vecchia gelosia.
«Qualcosa di chi?» le domandai immediatamente, sputando quelle parole con fin troppo, incontrollato veleno nella voce. La vidi fermarsi e fissarmi sorpresa e perplessa per un attimo, poi piegò le labbra in un piccolo sorriso.
«Di tuo padre, Aaron. Ho ancora un po’ della sua roba» rispose, con un tono dolce come una delicata carezza, e io mi sentii di nuovo un perfetto coglione. Non solo le ero piombato in casa all’improvviso e a un orario improponibile, ma mi permettevo di metterla immediatamente sotto inquisizione, dopo anni in cui quasi non ci eravamo rivolti uno straccio di parola. Fantastico!
«Mh» mugugnai allora, incapace anche di chiederle apertamente scusa ma, come c’era da aspettarsi, riuscì a leggere in quel suono inarticolato ciò che avrei voluto dirle e si limitò a salire le scale.
Nell’attesa ripresi a guardarmi intorno, riconoscendo qualcosa qua e là, appartenuto alla nostra vecchia casa.
C’era una coperta a quadri colorati, ordinatamente ripiegata e posata sul divano, che era stata prima di Brian, poi mia. Quando eravamo piccoli, avevamo entrambi il pessimo vizio di addormentarci ovunque, tranne che nei rispettivi letti. Per questo mia madre aveva confezionato quella cosa di lana pesante e con quella ci avvolgeva dinverno, per non lasciarci prendere freddo mentre ronfavamo allegramente in qualche angolo della casa.
Sorrisi a uno dei tanti ricordi legati a quella coperta ormai un po
consunta e scolorita e proseguii la mia “ispezione” verso il tavolino rotondo di legno scuro, posto lì accanto e colmo di cornici dargento.
Una parte di me probabilmente sapeva a cosa sarei andato incontro nel momento in cui avrei posato lo sguardo su quelle foto, e sapeva anche quanto mi avrebbe fatto male vederle, ma nonostante tutto non riuscii a farne a meno.
Ce nera una in bianco e nero che ritraeva lei e i suoi genitori, gli unici nonni che avevo conosciuto. Accanto, in una cornice più grande, io e Brian facevamo sfoggio di due stupide smorfie, mentre in unaltra ancora, mamma era riuscita ad immortalarci in uno strano momento di pace, in cui non eravamo impegnati a darcele di santa ragione o a combinarne qualcuna.
Vedere quelle foto mi aveva ricordato che c
era stato un tempo – molto poco tempo – in cui anche Brian non era stato proprio uno stinco di santo. Per un piccolissimo periodo anche lui aveva tirato fuori il suo teppistico lato Dunham... già, peccato che poi era stato risucchiato dalla parte del nemico.
Lui e i suoi dannatissimi libri.
«Credo quella sia lunica foto decente che ho di te e tuo fratello» esordì mamma, quasi facendomi sobbalzare per lo spavento. Ero così impegnato a ricordare quei vecchi momenti che neanche lavevo sentita arrivare, «bella eh?»
Mi sforzai di sorridere, sollevando appena uno degli angoli della bocca, e presi la cornice incriminata per guardarla meglio. «Eravamo sempre troppo impegnati a prenderci a sberle e morsi per fare i seri.»
«No, tu eri sempre troppo impegnato a prendere a sberle e morsi tuo fratello» rettificò, aggrottando la fronte. «Lui sopportava stoicamente e solo ogni tanto si lasciava scappare la pazienza.»
«Era uno stronzo. Non voleva mai giocare.»
«È più grande di te. Aveva il suo da fare.»
Riposai la cornice al suo posto e fissai gli occhi sul muro, troppo stranito e imbarazzato per riuscire a guardarla in faccia. «Sì, un sacco di cose noiose» borbottai poi e la sentii ridacchiare.
«Non glielo perdonerai mai, di non averti seguito in ogni tua stupidaggine, vero?»
Infilai le mani in tasca, un po’ nervoso, e le rivolsi una velocissima occhiata. Dovevo sembrare proprio un bell’idiota con qualcosa ficcato su per il culo, per quanto ero rigido. Se mi avessero visto Chris e Nathan, o peggio, Andy e Ted, avrebbero finito di sfottermi solo quando sarei crepato. Forse.
Spostai il peso da un piede all’altro e mi schiarii la voce, così da fingere un’espressione indispettita. In fondo mi mancava scherzare con lei. «Erano ‘piani di conquista’, non stupidaggini.»
«Ah, pardon!» ribatté immediatamente, quasi temesse che quel poco di confidenza che le stavo finalmente lasciando svanisse troppo presto. «I tuoi ‘piani di conquista’... e magari, un giorno, mi spiegherai anche la conquista di cosa?»
«Un giorno» replicai vago, ma come potevo dirle che già da quando mi credeva ancora un bimbetto più o meno innocente, io sognavo di diventare il “Re di tutte le firm”?
Con cognizione di causa poi, riuscii a capire perché quando lo svelai orgoglioso a mio padre, lui mi pregò di non farlo mai e poi mai sapere a mamma. Ci avrebbe rimesso sicuramente le palle.
«Tieni, cambiati» mi disse, porgendomi dei vestiti che riconobbi immediatamente. C’erano i pantaloni grigi di una tuta, una semplicissima t-shirt bianca e un maglione di lana pesante: tutte cose appartenenti al mio vecchio e che tante volte gli avevo visto indosso. «Dovrebbero starti bene. Ormai sei un gigante come lui.»
Presi tutto con un po’ d’incertezza. Temevo che le mie stesse mani mi avrebbero tradito mettendosi a tremare come ossesse. «Stai per caso cercando di ricordarmi che gli rubavo le cose?»
«Quali cose?» rispose abbozzando un sorriso ironico, e con quello ebbi conferma del fatto che si ricordasse ancora di quanto amavo rendermi ridicolo davanti a tutta la famiglia, rubando e indossando cose di papà, pur di costringere tutti ad ammettere che ero cresciuto.
Avevo una vera e propria mania. Volevo diventare grande a tutti costi, per somigliare al mio vecchio... e se solo avessi saputo, forse non l’avrei più desiderato tanto.
Alla fine ce l’avevo fatta a “diventare grande” quanto lui. Peccato che non ci fosse per potermi vedere...
«Su, dai. Cambiati» mi incitò mamma, e non le dissi mai quanto le fui grato in quel momento per aver interrotto quel fiume di pensieri tristi e nostalgia. «Il bagno è da quella parte e lascia pure i tuoi vestiti lì. Ci penso io dopo a lavarli.»
«Non importa, basta che si asciughino.»
«Vuoi che ti prepari qualcosa per colazione?» domandò subito dopo, praticamente ignorandomi. Si stava agitando davvero troppo. «Oppure preferisci dormire e mangiare qualcosa più tardi? Puoi andare su e...»
«Mamma, spegniti» la bloccai. Qualche altro secondo del suo ansioso farfugliare e ne sarei uscito scemo. «È presto. Torna pure a dormire. Io mi cambio e prometto di non distruggere niente.»
«Ma tranquillo, non ho sonno.»
«Non volevo piombarti così in casa.»
Lei sorrise dolcemente e per un attimo quegli occhi così scuri s’inumidirono. «Aaron, non ti dico che questa è casa tua, perché non è neanche casa mia e pago un affitto che poco si discosta da un furto ma... ecco sì, non hai bisogno di scusarti.»
«Pensavo mi avresti rispedito dal generale Brian a calci» le confessai allora, sforzandomi di essere un po’ più rilassato e naturale. In fondo era mia madre, ero nato da lei e mi aveva sopportato per nove lunghissimi mesi dentro di sé, eppure era tutto così difficile. Sciogliere quel velo di gelo che si era adagiato sul nostro legame era un vero tormento.
«No, ma lo farò se non alzi immediatamente quella cornetta e gli fai una telefonata.»
La mia fronte si aggrottò in una finta espressione di offeso sconcerto. «Chi ti dice che non l’abbia già fatto?»
«Ma per favore!» esclamò lei, ridendo apertamente. «Vado a vestirmi, tu intanto avverti Brian e poi fatti una doccia se vuoi.»
«Agli ordini» replicai con poca convinzione e, mentre il suono dei suoi passi si faceva sempre più lontano, presi a fissare con altrettanto scetticismo la cornetta del telefono.
Era ancora l’alba e mio fratello era abituato ad aspettare i miei rientri anche per il giorno successivo, a mattino ormai inoltrato, eppure in quell’occasione non riuscivo a grattarmi via di dosso il senso di colpa e a fregarmene.
Solitamente tutto scivolava giù sulla mia pelle, a volte senza neanche arrivare a sfiorarmi. Quel giorno invece, era tutto ancora lì. Quella sensazione mi aveva avvolto in una nebbiosa e insistente presa che mi bloccava e, per la prima volta, m’impediva di chiudere gli occhi e lasciar svanire tutto intorno a me.
Era come se, per una volta tanto nella vita, fossi diventato improvvisamente cosciente del male che ero in grado di provocare; di come potevo colpire le persone dentro e lasciare lividi e segni invisibili come quelli delle botte racimolate durante le risse, ma ben più dolorosi.
Io ero stato ferito di nuovo, dopo tanto tempo, e dal copioso fuoriuscire del mio tormento da quello squarcio, ero finalmente riuscito a scorgere e comprendere quanto ne avevo fatto a mio fratello.
Quello strazio che partiva dalla bocca dello stomaco e risaliva su per la gola a stringersi e schiacciarmi il respiro, fino a stridere e ronzare nelle orecchie. Quel malessere opprimente che mi fotteva la testa, mi aveva aiutato a comprendere la preoccupazione che ogni volta affliggeva Brian, ma mi lasciava vergognare al punto di non riuscire a muovere un dito per sollevare quella dannata cornetta e fare una semplice telefonata. Così, tanto per rassicurarlo che, purtroppo per la sua imminente ulcera, ero ancora vivo.
E poi che dire?
Che ero scappato perché ero un emerito deficiente con il terrore di provare a contare troppo sugli altri? O peggio, che me la facevo semplicemente sotto al solo pensiero di lasciar passare qualcuno oltre la mia ostinata corazza, perché non avrei avuto il coraggio di guardarmi poi allo specchio, nell’eventualità che questa persona potesse andarsene come papà, e mi abbandonasse a tirare quei fili che tenevano insieme il mio corpo per non sgretolarmi di nuovo.
Che non volevo mettere da parte il mio egoismo, che non volevo smettere di pensare solo a me stesso e fregarmene di tutto il resto, perché credevo che se mi fossi davvero concesso una semplice, evidente preoccupazione verso qualcun altro, poi mi avrebbe inghiottito per sempre.
Che non sapevo neanche da che parte cominciare e mi sentivo smarrito? Che non volevo neanche sentir parlare di quelle cazzate sull’amore, sentimento che, per altro, riuscivo a vedere solo come un fottuto parassita che ti attaccava ed annebbiava il cervello?
Non c’era traccia di paura o insicurezza dentro di me quando si trattava di alzare le mani e prendere a calci in culo quei bastardi. Era facile chiudere a chiave la coscienza in qualche angolo remoto e muoversi guidato solo dagli istinti. Era semplice finché questa se ne stava lì buona, addormentata in un lungo sonno; lo era stato per dieci lunghi anni, finché non era arrivata quella cocciuta, patetica ragazzina vuota che, contrariamente a me, assorbiva ogni emozione come una spugna da quando si era finalmente liberata dal controllo degli altri, arrivando a Londra.
Guardava tutto con sorpresa. Muoveva quegli occhi scuri con troppa curiosità; così tanta che non riusciva neanche a nasconderla e trattenersi per rispettare tutte le moralistiche stronzate con cui le avevano riempito la testa, durante l’intero tragitto percorso prima di arrivare da me, già accuratamente prestabilito da qualcun altro.
Mi osservava con l’aria supponente di chi pensa di sapere tutto e vacillava con un niente, per poi colpirmi a tradimento e insinuarsi sotto la pelle e infettarmi il sangue con la sua presenza e quel suo ostinato desiderio di capirmi e di volermi curare.
Mi ero lasciato fregare come un fesso e poi?
E poi me ne stavo lì a fissare il telefono senza riuscire a far niente; senza avere il coraggio d’agire perché l’istinto mi suggeriva di scappare per salvarmi dalla mia egoistica quotidianità, sconvolta da un volo arrivato dall’America.
Ecco perché alla fine dei conti decisi di non comporre quel numero e di lasciare l’ennesimo fardello a mia madre.
Ero scappato fin lì proprio perché necessitavo di allontanarmi dalla realtà presente nella mia cara, vecchia Londra, ormai troppo saldamente intricata perché io potessi accettarla e capirla.
Per un attimo la strada di casa mi era sembrata fin troppo stretta; per un attimo, ogni cosa si era sgretolata e sembrava avere l’intenzione di cadermi addosso e seppellirmi sotto il peso delle macerie dei muri di convinzioni che, anno dopo anno, avevo saldamente costruito. Mattoni fatti di ostinazione e credenze, spazzate via come se nulla fosse, da una semplice frase e dall’abbraccio insicuro di una ragazzina dentro l’abitacolo di una macchina.
Ero scappato fin lì alla ricerca di un posto dove poter ricominciare a respirare con tranquillità, senza l’oppressione che all’improvviso era andata a schiacciarmi il petto, e l’unica cosa a cui volevo davvero pensare era me stesso e a ciò che avevo lasciato nella strada percorsa alle mie spalle; a quel passato che comunque continuava a restare ancorato alla mia ombra.
«Non l’hai ancora chiamato, vero?» la voce di mia madre mi sorprese di nuovo. Mi voltai a osservarla con aria incerta, consapevole del fatto che mentirle sarebbe stato totalmente inutile.
«No» replicai quindi, «non ancora. Non...»
«Lo immaginavo» sospirò interrompendomi, per poi indicarmi le scale con un cenno della testa. «Il bagno è di sopra, se vuoi farti una doccia. Riposati e a Brian per questa volta ci penso io.»
Arricciai le labbra e abbozzai un sorriso, strofinandomi distrattamente i capelli.
Mi sentivo strano e inadeguato, imbarazzato come non ero mai stato prima, eppure, in fondo a quel senso di disagio, potevo assaporare ancora il calore che, da sempre, la presenza di mamma mi aveva acceso dentro.
Sospettavo che non si fosse mai spento, ma che fosse rimasto lì, in attesa, sotto quintali di bugie che mi ero raccontato per non ammettere la sua mancanza e sotto la forza con cui avevo continuato ad affossarlo e reprimerlo, credendo stupidamente di fare il bene di chissà chi.
«Grazie» mugugnai poi, soffiando quella parola tra le labbra appena schiuse, così piano che non avrei scommesso fosse stato udibile, se solo lei non mi avesse regalato un piccolo, prezioso sorriso in risposta. «Vado a farmi una doccia, allora...»
«Certo. Certo, vai. Ci vediamo dopo.»
Annuii appena e presi a salire le scale lentamente, come se tutte le energie mi fossero state improvvisamente rubate. Varcai la soglia del bagno e, chiudendomi la porta alle spalle, mi soffermai ad osservare il mobilio candido, perfettamente pulito e in ordine, e le mattonelle a muro pastello: tutto decisamente troppo simile a com’era nei ricordi legati alla mia infanzia.
Respirai a fondo e mi spogliai velocemente dei miei vestiti ancora umidi, abbandonandoli in un angolo per lasciarmi cullare e accarezzare dal getto della doccia. Chiusi gli occhi e, per un solo istante, la mia mente costruì l’immagine di Elle, ferma sul vialetto di casa con quell’espressione costernata che le avrei strappato volentieri dalla faccia ma che, alla fine dei conti, non avevo neanche avuto il coraggio di affrontare.
Non ce l’avevo fatta a dire niente, né ad ascoltare ancora la sua voce. Non ero riuscito a guardarla un’altra volta, accecato dalla rabbia e dalla delusione.
Non volevo neanche pensare all’idea di dover tornare a casa...
Mi stropicciai la faccia con forza premendo i palmi sulle palpebre, sperando così di poter cancellare quei frammenti di ricordi ben impressi dietro i miei occhi e che, ogni tanto, pensavano bene di tornare a bussare alla mia coscienza già abbastanza martoriata.
Qualche altro minuto trascorso a fissare il vuoto e a bearmi dello scroscio d
acqua che scorreva sulla mia pelle, e finalmente mi decisi ad uscire da quel precario rifugio. Mi asciugai velocemente e restai per un po’ a fissare i vestiti puliti, appesi alla maniglia della finestra, che aspettavano di essere indossati.
Di nuovo la mente venne invasa da ricordi. Più sbiaditi e confusi, senza un vero filo logico, ma comunque capaci di scavarmi dentro, tra le costole, fino a raggiungere cuore e polmoni; a ferire ad ogni battito e a rendermi il respiro pesante, come se l’ossigeno fosse improvvisamente scomparso da quella stanza.
Scossi la testa e mi vestii trattenendo il fiato, temendo stupidamente che qualche vecchia particella dell’odore di mio padre, sopravvissuta al tempo, potesse insinuarsi nelle narici e fottermi ancora il cervello. Quello con cui però non avevo fatto i conti, e che mi avrebbe davvero ridotto ad uno straccio, era l’immagine che avrei trovato allo specchio una volta riaperti gli occhi e gettato uno sguardo al mio riflesso.
Un pugno alla bocca dello stomaco probabilmente mi avrebbe fatto meno male. Un calcio sferrato in faccia avrebbe bruciato meno di quelle odiose lacrime che erano tornate a spingere ai bordi delle palpebre.
Essere pressoché identico a Bill era sempre stato prima il mio orgoglio, poi la mia croce. Gli somigliavo davvero troppo, in modo inquietante. Tanto da spaventare perfino me stesso e da far muovere una delle mie mani verso lo specchio per posare le dita sul volto riproposto da quella superficie liscia e fredda, e lasciare che i miei occhi cancellassero quei pochi, insignificanti particolari che ci distinguevano l’uno dall’altro, prima di ridisegnare con la mente la sua immagine.
Faceva male, ma una volta varcata la soglia di quella parte di memoria; una volta permesso a quei ricordi perennemente sigillati di risalire dal fondo, diventava come una droga e non riuscivo a farne a meno, né a fermarmi.
Essere cullato dal suo ricordo diventava una necessità, un bisogno a cui non riuscivo più a dire di no, e le sequenze di vecchie immagini si ripetevano, sempre più particolareggiate, man mano che un dettaglio in più veniva rispolverato...


Era una mattina come un’altra d’inverno.
Una delle tante in cui me ne stavo a giocare sul pavimento, inventando mondi e storie, mentre Brian sopportava il mio gattonare a destra e a manca, cercando di concentrarsi sui suoi noiosissimi compiti.
Il portone di casa poi era stato aperto e quella voce profonda aveva dapprima salutato il primogenito di casa Dunham, poi, dopo qualche secondo di silenzio probabilmente trascorso a controllare che non mi stessi nascondendo dietro le tende, il divano o qualche mobile, aveva pronunciato il mio nome: «Aaron. Aaron, dove sei?»
Abbandonare immediatamente ogni cosa – qualsiasi cosa fosse – e correre nella direzione in cui le mie orecchie l’avevano percepita, non era mai stato un sacrificio. Era uno dei momenti più belli della giornata quando papà rientrava in casa, perché sapevo che, anche se era così stanco da rischiare di addormentarsi in piedi, o dolorante e letteralmente a pezzi, trovava sempre un po’ di tempo per giocare con me.
Una corsa veloce, con quelle gambe all’epoca così corte e magre e perennemente segnate da qualche graffio o sbucciatura sulle ginocchia, e con un sorriso sulle labbra gli andavo incontro, spalancavo le braccia e terminavo il mio tragitto gettandomi tra le sue.
«Eccolo qua il mio campione!»
Era così che mi chiamava: campione, il suo campione.
Mi prendeva in braccio e mi scompigliava i capelli. A volte poi mi dava un buffetto sul naso o anche un bacio sulla fronte, ma quello che non mancava mai di rivolgermi era un sorriso: uno speciale che sembrava dedicare solo e soltanto a me.
«Papà, credo che la mamma sia un po’ arrabbiata con te» glielo sussurrai come se fosse un segreto, avvicinandomi con complicità al suo orecchio.
Lui aveva arricciato le labbra e finto una buffa espressione di stizza.
«Davvero? E dov’è?»
«Da Sarah.»
«Oh fantastico...»
era stato il suo commento, e la sua faccia non era poi più tanto divertita e ironica. «Aaron, ricordati sempre una cosa: quando due donne si coalizzano, non pensarci due volte, scappa
«Si coa... che?»
«Coalizzano»
replicò, ridacchiando probabilmente della mia smorfia stranita. «Vuol dire che stanno dalla stessa parte.»
«Ma tu dici sempre che non si deve mai scappare! Che i veri uomini non scappano!»
«Dalle donne sì, fidati del tuo vecchio»
rispose lui, tornando a sussurrare con aria complice, nel momento in cui sentì il portone di casa aprirsi e richiudersi con poca grazia. «Specie quando sono arrabbiate.»
Col senno di poi riuscii anche a capire il perché di quelle sue parole: quando Sarah e mamma si ritrovavano in gruppo con le altre mogli e fidanzate dei componenti della firm, o stavano organizzando qualche cena o festa, per cui cera sempre da strofinarsi le mani con lacquolina già in bocca, o cera da aver paura, perché sarebbero stati davvero cazzi amari per tutti... e in quelloccasione, be’... non poteva essere che la seconda.
Papà sospirò, con la mente già alla ricerca di qualche stupida scusa che tanto non avrebbe retto, e che molto probabilmente l
avrebbe portato ad un incontro ravvicinato con una padella, un posacenere o un qualsiasi altro oggetto contundente che mamma avrebbe trovato a portata di mano.
La cosa assurda poi, era che nei loro litigi riuscivano ad essere sempre tremendamente comici: mamma urlava e lui subiva a testa bassa, tentando ogni tanto di rivolgerle un sorriso per ottenere un perdono facile che, tanto, non sarebbe mai arrivato.
Mia madre era sempre stata un tipino orgoglioso. Gliele faceva pagare per giorni, tenendogli il muso e quasi ringhiando ogni volta che lui provava ad avvicinarsi per abbracciarla.
Un paio di volte laveva perfino spedito a dormire sul divano – più di un paio, a dire il vero – e quelle erano le mie occasioni preferite, non perché mi piacesse vederli litigare, ma perché papà sapeva cogliere sempre il lato divertente delle situazioni e trasformava quello “sfratto” dal letto coniugale in un gioco.
Fingevamo di essere in un improvvisato campeggio e montava per me una sottospecie di tenda con l
ausilio del divano, di una vecchia coperta e delle sedie. Cinfilavamo dentro con i sacchi a pelo e i cuscini e ce ne stavamo lì per ore a giocare, prima di convincermi ad addormentarmi.
Qualche volta riuscivamo a coinvolgere anche quella barba umana di mio fratello e in quelle occasioni mi sentivo anche più felice, perché ero sicuro che presto anche mamma ci avrebbe raggiunti, un po
per gelosia e un po perché non voleva perdersi quei momenti nonostante fosse ancora arrabbiata.
Negli anni poi, avevo capito che questo serviva a farle scemare la rabbia e a rendere più veloci le riappacificazioni, perciò inventavo sempre qualche cosa che potesse unirci tutti e quattro insieme. E anche Brian l
aveva capito – più per il fatto che già allepoca era difficile nascondergli qualche mia intenzione che per altro – e non sbuffava più neanche, ogni volta che gli chiedevo aiuto.
Comunque fosse, in quei casi, i rientri di mamma erano sempre la parte tragica della “storia”, tanto che, durante l
adolescenza, io e Brian ci divertivamo a canticchiare i motivetti di un qualche film horror di pessima categoria.
Sul volto di mio padre invece, si formava sempre un sorriso tirato, da paraculo di dimensioni cosmiche qual
era, che alla fine dei conti non serviva proprio a niente – se non a farla incazzare più di quanto già non fosse – ma che era diventato ormai una specie di tic nervoso.
Anche quella volta le sue labbra non mancarono di piegarsi e, mentre si voltava per affrontare il suo ingresso in casa, lo sentii borbottare frasi incomprensibili.
Probabilmente stava pregando un Dio in cui non credeva, perché gli risparmiasse ancora la vita e ciò che cera di prezioso tra le sue gambe.
«Ma bene! Guardate un po’ chi è tornato!» esclamò mamma, scrutandoci attentamente con quegli occhioni troppo scuri. Sapevo di non aver combinato niente per cui essere rimproverato, ma quando fissava qualcuno così metteva sempre una gran stizza. «Hai idea di che ore sono?!»
«Ciao tesoro»
le rispose mio padre, e quando lo vidi rinnovare il proprio sorriso a quello strano saluto, decisi di imitarlo perfettamente, convinto che forse in quel modo sarei riuscito a salvarmi dalla sua furia.
«Ciao mammy.»
Povero ingenuo.
«Oh no, no!» ringhiò quasi lei, mentre unespressione esasperata andava a disegnarsi sul suo bel viso. «Non pensare di cavartela con un sorriso di quella faccia da schiaffi e tu...» proseguì, indicandomi e facendomi sobbalzare, «... vedi di non somigliare a tuo padre!»
Papà si avvicinò un poco a me, con circospezione, e sussurrò: «Vedi Aaron... questi sarebbero i momenti da cui dovresti scappare.»
«Ehi, cosa state confabulando voi due?»
«Niente!»
risposi di rimando, aggrappandomi alla maglia del mio vecchio – la stessa che poi mamma mi avrebbe dato da indossare – già aspettandomi il peggio, ma lei, contro ogni mia previsione, si limitò a sospirare sconsolata e a protendere le braccia verso di me per invitarmi a raggiungerla.
«Vieni dalla mamma tu, prima che ti trasformi in un bastar... ehm... un mascalzone, come quell’essere immondo che ti ritrovi come padre.»
Poco convinto e temendo il peggio, mi ero fatto comunque coraggio e mi ero allungato verso il suo collo. Lei mi aveva stampato un soffice bacio sulla guancia, che avevo prontamente pulito con un’espressione disgustata, più falsa che mai; pensando stupidamente che potesse servire a farmi sembrare più uomo e adulto, quando la realtà era che, le coccole e le attenzioni di mamma, mi scioglievano dentro.
Senza poi aggiungere né una parola, né uno sguardo per mio padre, aveva salutato Brian e mi aveva portato con sé, nella mia stanza.
«Non hai sonno?» mi aveva chiesto dopo, riferendosi al fatto che era ancora presto per me, per alzarmi, e che la notte precedente non avevo dormito granché. In fondo era sempre così: quando mio padre non era in casa, abbandonarmi al sonno era difficile.
Avevo negato prontamente con la testa, ma il tremendo bruciore negli occhi e un piccolo sbadiglio mal celato avevano raccontato la verità. Mamma allora mi aveva sorriso e mi aveva adagiato sul letto, con un immancabile bacio sulla fronte.
«Mammy» lavevo chiamata incerto, rannicchiandomi contro il cuscino.
«Che c’è amore?»
Mi ero mordicchiato le labbra, provando a soppesare la situazione, poi mi ero fatto coraggio e avevo borbottato: «Non sei più arrabbiata con papà, vero?»
«No, tesoro»
rispose con quel suo classico sospiro rassegnato, avvicinandosi in seguito a posare la sua fronte contro la mia e a sfiorarmi la punta del naso con lindice. Era rimasta per un po in silenzio a fissarmi, poi aveva sussurrato: «Aaron, me lo fai un favore? Non crescere. Resta sempre l’amore della mamma.»
Sentire quelle parole era stato strano. Per un attimo mi era lampeggiato nella testa che con gli anni lei avrebbe potuto smettere di volermi bene. «Perché? Se divento grande come papà non lo sono più?»
«Certo che sì...»
aveva sorriso e un altro dolce bacio era stato posato sulla mia fronte, poi aveva mormorato: «... il problema è che diventerai uno stronzo come tuo padre e... oddio, cancella quello che ti ho detto!»
Si era infine sollevata dal letto ridacchiando e mi aveva sfiorato la testa con una carezza.
Aveva un’espressione strana quella mattina, definita da una strana malinconia. Mi guardava come se già le mancassero i momenti appena vissuti e quasi temesse sempre di più ogni naturale passo verso il futuro.
Forse era il suo “spirito di mamma” o qualche stronzata del genere a renderla così sensibile ma, da quel momento in poi, quell’espressione nostalgica non l’aveva più abbandonata.
Spesso negli anni mi sono trovato a chiedermi se lei in fondo, in qualche modo, già sapesse come sarebbero andate a finire le cose. Come non sarebbe mai stata in grado di fermare la malattia che avrebbe portato via papà, né la sua “eredità” con la firm, che l’avrebbe allontanata da me; come la nostra famiglia si sarebbe sfaldata negli anni, fino a non rimanere altro che un ammasso confuso di vecchi ricordi.
Lei sembrava comprendere sempre tutto con una semplice occhiata – così come poi avrebbe fatto anche Brian – e probabilmente era stata quello il propulsore della sua forza per riuscire ad andare avanti ogni volta, anche quando il mondo le crollava ripetutamente addosso e tutto quello in cui aveva sperato la tradiva, spariva o le si ritorceva improvvisamente contro.
Papà era il pazzo scatenato, il picchiatore, “la bestia”, l’eroe di tutta la firm... ma il più forte tra i due era sempre stata lei... già, perché c’era una bella differenza tra l’essere un folle e non aver paura – come me, come mio padre – e l’avere un gran coraggio.
E Anne ne aveva abbastanza, per tutti quanti...


Gettai un ultimo e veloce sguardo allo specchio, ricevendo in risposta quella stessa e ormai familiare botta all’altezza dello stomaco, che probabilmente mi avrebbe fatto compagnia per il resto dei miei giorni e, senza riuscire a trattenere un sospiro un po’ scocciato, uscii dal bagno e scesi le scale per tornare in soggiorno.
Mi sedetti sul divano, distendendo le gambe per sgranchirle un po’, e ripresi a guardarmi intorno con l’aria un po’ smarrita.
Quel posto ovviamente mi era completamente sconosciuto, se non per qualche vecchio oggetto appartenuto alla nostra famiglia, eppure aveva qualcosa di familiare.
In realtà, la cosa davvero strana era che, nonostante fosse a ore di viaggio dalla mia Londra, aveva lo stesso odore di casa.
C’era lo stesso profumo ad aleggiare nell’aria; lo stesso che ero abituato a percepire da bambino e che ancora potevo respirare a pieni polmoni quando mi gettavo a peso morto sul divano, quando entravo in cucina o anche nella stanza di Brian ed Emma, ricolma di ricordi e di oggetti un tempo appartenuti ai miei genitori.
Era lei, mamma. Quel profumo era parte di lei... e solo allora capii che ovunque fossi, se avessi condiviso quel posto con mia madre, mi sarei sempre sentito a casa.
Sorrisi appena a quel pensiero, percependo la sua presenza poco distante, nel suo rumoroso trafficare con chissà che cosa. Scossi appena la testa e per un breve istante mi sentii ancora quel moccioso petulante che le stava sempre tra i piedi, che amava alla follia suo padre e che lo ammirava come nessun altro, ma che al contempo non riusciva a sentirsi più al sicuro che tra le braccia di sua madre, immerso nel suo odore.
Mi distesi sul divano e mi rannicchiai cercando di coprimi al meglio con quella vecchia coperta, ormai decisamente troppo corta per le mie dimensioni. Lanciai un’ultima occhiata nella direzione da cui sentivo provenire quei suoni, testimoni della presenza di Anne e, con uno strano calore dentro, chiusi gli occhi e mi addormentai immediatamente, riscaldato da quella tranquillità che da troppo tempo non mi apparteneva più.


Qualche ora più tardi ci misi un bel po’ prima di realizzare dove fossi.
Aprii lentamente gli occhi sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco la stanza e, spostando lo sguardo da una parte all’altra tra quelle mura pressoché sconosciute, riuscii finalmente a scorgere mia madre.
La sua voce era scivolata nella mia mente durante il sonno, facendomi risalire da quel pozzo di ricordi e riportandomi lentamente alla realtà, ben lontana e diversa da quella dei miei sogni. Era stato il suono delle sue parole e il suo profumo, che sembrava aver inghiottito qualsiasi cosa in quella casa, ad aiutarmi a rimettere insieme i pezzi degli ultimi avvenimenti.
Mi stropicciai gli occhi lentamente, per poi passarmi le mani tra i capelli e gettarmi alla disperata ricerca della forza per alzarmi dal quel divano e di abbandonare il dolce tepore di quella vecchia coperta.
Sbadigliai più volte e mi girai su un fianco, nella vana convinzione che, se avessi messo lentamente fuori una gamba dal quel caldo abbraccio di lana, avrei accettato con più dignità la separazione da quei morbidi cuscini.
Niente di più sbagliato.
Riuscii a malapena a sfiorare il pavimento con i piedi scalzi, che mi raggomitolai con un guizzo, ben convinto a restare nel mio bozzolo. Se solo qualche particolare soggetto della firm mi avesse visto in quel momento, probabilmente avrei avuto risatine di derisione a ronzarmi nelle orecchie per il resto della mia rovinata esistenza.
Uno strano mugolio frustrato fuoriuscì dalle mie labbra nel momento in cui lo stomaco innalzò la propria protesta per esser stato abbandonato a se stesso, ma ben presto mi dimenticai di quel piccolo inconveniente, quando la voce di mia madre pronunciò un nome preciso: quello dell’altro suo figlio, capace di farmi rabbrividire anche a quella distanza al solo pensiero di ciò che mi avrebbe fatto quando – e se – mi sarei ripresentato a casa.
Non che temessi ripercussioni fisiche. Brian non era il tipo, e a parte qualche sporadico schiaffo ben assestato e – sì, lo ammetto – meritato, non era mai stato in grado di menare le mani. A differenza mia, lui aveva sempre preferito risolvere le situazioni scartabellando vecchi fogli in tribunale, e comunque l’impronta perfetta delle sue cinque dita sulla mia faccia non mi aveva mai fatto poi così male. Ero abituato a ben altro e c’era più una questione di orgoglio ferito e fastidio a farmi rosicare dentro.
Non potevo reagire contro di lui. Non avrei mai rifilato un vero pugno a mio fratello.
Lasciargli sfogare la rabbia e i suoi istinti su di me, senza possibilità di replica e reprimendo la mia indole, era il mio modo per chiedergli scusa per ciò che ero e per ciò che non potevo fare a meno di essere.
Brian poi, nonostante non reagissi, si era totalmente convinto che non l’avessi mai ascoltato durante le sue ramanzine; il che tecnicamente non era poi lontano dalla verità.
In realtà l’avevo ascoltato le prime volte, solo che alla fine avevo sempre scelto di seguire la mia testa e lui, per contro, non si era mai voluto arrendere. Il tutto era finito con le stesse grida, gli stessi noiosi discorsi sulla mia mancata responsabilità, sul mio non voler crescere e non voler seguire una strada vera. Tutte cose che comunque avevo sentito fino alla nausea e che avrei potuto ripetergli parola per parola, virgola dopo virgola. Tutte cose che, in definitiva, non avevo alcuna voglia di mettere in pratica.
No, non erano né gli schiaffi né le sue urla a preoccuparmi, piuttosto il suo sguardo, il suo modo di guardarmi e giudicarsi attraverso la mia immagine.
In fondo mi ero sempre divertito ad essere la sua piccola macchia nera sulla sua vita perfetta. Mi piaceva essere il suo piccolo e impertinente muro che non riusciva mai ad abbattere e contro cui non riusciva a vincere, ma tutto quel battibeccare restava “bello” finché riuscivo a scorgere nei suoi modi di fare quella tipica grinta e ostinazione intrinseca nel sangue dei Dunham, e che Brian era riuscito ad incanalare in altro che non fossero le risse.
Gli anni di continue battaglie contro di me però, probabilmente erano arrivati a sfinirlo e stava iniziando ad arrendersi sempre di più; a rendersi colpevole per ciò che ero diventato, per non essere riuscito ad evitarlo e a soffrirne.
In poche parole, anche Brian stava diventando come mamma, e ogni giorno di più, ogni volta in cui tornavo dai miei “affari” e osservavo quello sguardo assieme al progressivo svanire della sua forza nel combattermi e tenermi testa, mi rendevo conto di dover allontanare anche lui in qualche modo.
Separarmi dalla persona con cui avevo condiviso tutta la mia vita – nonostante le nostre giornate fossero riempite esclusivamente da un litigio e qualche minuto di tregua tra una guerra e l’altra – però, era più difficile di qualunque altra cosa. Era un rapporto più complicato da districare malgrado le continue divergenze su ogni piano, perché comunque non riuscivo a ignorare quel patetico senso di nostalgia che mi si formava dentro, ogni volta in cui valutavo l’idea di fare con lui ciò che avevo già fatto con nostra madre.
Non che lei non mi mancasse ogni giorno, ma con Brian era completamente diverso.
Brian c’era da sempre e mi aveva dato più volte la conferma che sarebbe stato sempre presente, che avrebbe continuato a combattere contro la mia indole e avrebbe cercato ancora di crescermi e far attecchire un minimo di buonsenso nella mia testa arida di lodevoli iniziative.
Brian era stato tutto: fratello, genitore, amico e nemico.
Lui che mi sgridava e che continuava a tenermi con sé, probabilmente avendomi scambiato per un animaletto selvatico da dover addomesticare in qualche modo, prima di esser lanciato in pasto a una realtà che avevo sempre e completamente ignorato per seguire le mie, di regole.
Era lui con cui condividevo totalmente il sangue nelle vene, e forse questo bastava a spiegare perché, a prescindere da tutto, il legame che sentivo con Brian superava tutti gli altri.
Sarebbe stato molto più semplice per tutti – sicuramente per lui e la famiglia che avrebbe voluto con Emma – se avessi fatto i bagagli e non fossi più tornato indietro, eppure il mio radicato lato egoistico m’impediva di abbandonare il mio ruolo di “macchiolina nera” e lasciarlo finalmente alla pace e alla felicità che meritava.
Ecco perché, in definitiva, anche il solo sapere che parlava dall’altra parte della cornetta, mi fece accartocciare lo stomaco e tendere le orecchie per sapere.
«Tesoro» lo chiamò mamma con un sospiro, «non prendertela con lui...» la sentii poi ridacchiare appena, probabilmente incapace di trattenersi nell’udire il suo responsabile e pacato figlio che andava in escandescenze e rischiava un infarto. Tentò poi di parlare ancora per un paio di volte, inutilmente dato che Brian ne avrebbe avuto ancora per molto, finché non azzardò un semplice: «Credo che stia dormendo, ma se vuoi parlarci lo sveglio.»
Il silenzio che ne seguì da parte di mia madre mi fece pensare che a mio fratello fosse venuta un’improvvisa trombosi e fosse stramazzato al suolo. L’alternativa era che avesse ripreso a sbraitare come un dannato; e fu la seconda possibilità a rivelarsi esatta, in via del fatto che dopo qualche minuto lei riprese miracolosamente la parola: «Brian, andiamo. Credo farebbe bene ad entrambi una chiacchierata... e poi non credo che voglia parlarne con me. Tu sei l’unico che ci riesce» si soffermò ancora per interminabili minuti e tentò un insicuro “non è così”, prima di concludere: «Lo so, non è facile per nessuno e credimi, ero più sorpresa di te quando me lo sono ritrovato davanti. Per un attimo ho creduto che fosse solo un sogno... però, davvero, non credo che parlerebbe con me di ciò che l’ha spinto a correre qua. A dirla tutta, è già tanto se mi parla di com’è il tempo qua a Liverpool! Per questo ti dico che dovresti parlarci... e poi sei suo fratello! Se preferisci provo a proporgli di chiamarti quando sarà sveglio.»
Un altro profondo sospiro fuoriuscì dalle sue labbra con una nota di rassegnazione. Brian le stava dando del filo da torcere. «D’accordo, d’accordo... vediamo come va a finire questa storia. Intanto vado a preparargli qualcosa di commestibile. Magari a stomaco pieno sarà più avvicinabile e propenso al dialogo. Ti richiamo presto.»
Attese qualche secondo e, dopo aver mormorato un “ti voglio bene” e una raccomandazione di salutarle le due donne di casa, riagganciò la cornetta ed emise l’ennesimo sospiro, come se stesse per affrontare una delle battaglie più complesse della sua vita.
«Lo sai, Bill...» mugugnò al niente, facendomi mancare l’aria, «... arriverà il giorno in cui te le farò ripagare tutte. Nessuno più di te sarebbe stato in grado di capirlo.»
Una fitta data dal senso di colpa arrivò a picchiarmi contro il fianco. Di nuovo, avrei preferito avere mille risse da combattere, piuttosto che affrontare quelle battaglie emotive abbandonate e nascoste nel passato.
Con un fastidioso groppo alla gola mi alzai dal divano e la raggiunsi con un po’ d’incertezza. In fondo non avevo la più pallida idea di cosa fare, ma qualcosa doveva succedere. In un modo o in un altro c’erano cose che avrei dovuto rimettere a posto, e che non potevo più rimandare o ignorare. «Non c’è bisogno di papà» le dissi perciò, facendola sobbalzare per lo spavento. «Avevo solo bisogno di staccare un po’ da tutto. Sono solo stanco...» mi fermai per un attimo, per osservare la sua espressione stupita – la stessa di qualche ora prima, quando le ero piombato in casa – e il mio stomaco rovinò il silenzio di quel momento mettendosi ad annunciare proteste. Aggrottai perciò la fronte e tentai di abbozzare un sorriso, «... e un po’ affamato. Tutto qua.»
Mamma continuò a fissarmi senza dire niente, quasi tentasse di leggere qualcosa sulla mia faccia, finché si arrese – o almeno, lo credetti – e mi sorrise: «D’accordo. Andiamo a porre rimedio all’Apocalisse che si sta svolgendo nel tuo stomaco.»


Dopo aver rischiato di ripulirle la credenza per sfamarmi, mamma uscì di casa per andare a lavoro, lasciandomi un paio di chiavi di riserva, nel caso avessi avuto voglia di farmi un giro in città.
Non che covassi tutto questo entusiasmo all’idea di una scampagnata per le strade di Lillyverpool, ma non è che la mia giornata fosse ricolma d’impegni, e girellare per quella strana cittadina – in cui comunque restava sempre la questione “Beatles” con cui ammazzare il tempo – poteva apparire meno noioso che trascorrere l’intera giornata a girarmi i pollici o nel dilettarmi con la conta delle mattonelle del bagno.
Decisi perciò di trascorrere il resto della mattinata in casa, ancora a crogiolarmi sul divano e a guardarmi intorno nell’intenzione di sapere di più sulla vita di mia madre, – un modo carino per dire che desideravo farmi i fatti suoi – e uscire per concedermi un altro spuntino fuori, con un po’ di classico “Fish and Chips”.
Avevo bisogno di passare un po’ di tempo da solo per schiarirmi le idee e pensare. Avevo bisogno di stare lontano da quella che era la mia vita di tutti i giorni; dalle mie passioni, dai miei compagni... perfino dalla mia famiglia e dalla firm, ma soprattutto da Elle e da tutti quei dubbi che mi aveva piantato addosso.
Se i miei amici mi avessero visto in quel momento, avrebbero sicuramente pensato che fossi impazzito da un momento all’altro e che avessi un serio bisogno di uno strizzacervelli, ma nell’analizzare la situazione a mente fredda, non mi sarei definito propriamente “pazzo”.
Delirante, impulsivo, stupido forse, ed estremamente confuso. Questo era come mi sentivo: intrappolato in una matassa di pensieri e sensazioni che non sapevo neanche come districare. Non riuscivo a capire nemmeno da dove poter partire e la cosa era dannatamente frustrante.
Ogni volta in cui tentavo di concentrarmi per provare a capire quando tutto era iniziato, due cose mi parevano lampanti e chiare: che presto mi sarebbe venuta un’emicrania di proporzioni cosmiche, e che gran parte dei miei casini erano cominciati dall’atterraggio di quello stramaledetto aereo proveniente dalla Florida.
Con quelle certezze ben salde nella mente indossai un vecchio parka di mio padre, verde miliare ed un po’ consunto, che mamma mi aveva lasciato per coprirmi assieme ad una sua sciarpa chiara, e uscii di casa.
L’aria fredda e umida mi sferzò immediatamente la faccia, facendomi rabbrividire. Potevo ancora vedere un sottile velo di nebbia dinnanzi a me, assieme a microscopiche e copiose goccioline d’acqua che fluttuavano nell’aria. Di tanto in tanto poi, con un’improvvisa folata di vento, la sensazione di respirare una lieve brezza marina, dal chiaro sapore di salsedine, si faceva strada nella mia gola e mi faceva storcere il naso.
Tirai un profondo sospiro e m’inoltrai, con un passo lento e strascicato, per le vie di Liverpool contornate di classiche villette a due piani dai mattoni rossi a vista, guardandomi intorno e osservando con minuziosa attenzione ogni angolo di quella città per quella che poi era la prima volta.
Quel posto non mi aveva mai mosso simpatie e le volte in cui ne avevo calcato le strade, i miei occhi erano sì, attenti a ciò che mi circondava, ma con il solo obbiettivo di individuare eventuali membri della Kop. In tutti quegli anni non mi ero mai soffermato a osservare ciò che viveva fra quelle intricate stradine, né mi ero concesso di godermi lo spettacolo che regalava l’estuario della Mersey, lungo cui l’intera Liverpool sorgeva.
Con qualche piccola difficoltà nell’orientarmi, finalmente riuscii a raggiungere la lunga via che costeggiava il fiume, dovendo ammettere che in fondo – molto in fondo – non era poi così male quel posto.
Mi piaceva osservare l’acqua che scorreva lenta e sentire la sensazione dei raggi di un tiepido sole nascosto dietro qualche nuvola, che in un modo o nell’altro riusciva a scaldarmi un poco la faccia. Mi piaceva l’idea di poter respirare un’aria diversa, insieme all’illusione di essermi distanziato un po’ dai miei problemi.
Era una libertà estremamente provvisoria e a breve termine, ne ero consapevole, ma in quel momento non avrei potuto desiderare niente di meglio. Era come se avessi trattenuto il fiato per troppo tempo, in perenne confusione e nell’indecisione di cosa dover fare e cosa no, e tornare a riempire i polmoni d’aria in un’atmosfera placida come quella, riuscì finalmente a svuotarmi la testa.
Mi fermai per qualche minuto a osservare il panorama dinanzi a me, poggiando gli avambracci sulla balaustra e sporgendomi per quanto mi era concesso, per non perdermi neanche un singolo dettaglio di quel posto.
Non era la mia Londra; niente lo sarebbe mai stato, ma era abbastanza perché desiderassi imprimerlo nella mente, e magari rivangarlo se mai un giorno si fosse ripresentato un soffocante incubo come quello che mi aveva spinto a correre via.
Mi divertiva essere un semplice spettatore. Passare lo sguardo su ogni ombra che lentamente si spostava seguendo il corso di quel debole sole, disegnandosi in altre forme. Mi affascinava osservare come il bianco gesso delle vecchie e imponenti costruzioni e il grigio e il ruggine dei casermoni portuali si alternavano tra loro, tra lantico sfarzo e lodierna realtà, e brillassero colpiti dal chiarore dei raggi, per poi riflettersi come in uno specchio sulle placide acque sottostanti.
Era bello prendersi tutto il tempo del mondo e restare immobile senza aspettarsi niente. Svuotarsi di tutto fin quasi a confondersi col resto della città e limitarsi a guardare ciò che sfrecciava su quelle strade. Posare lo sguardo su un qualsiasi dettaglio o una semplice persona, immaginarne il passato e la vita, sentirsi davvero libero nel vedere tutti correre da una parte allaltra, mentre la mia unica occupazione era semplicemente quella di girovagare senza meta, con le mani affondate nelle tasche.
Era bello sentirsi così: senza una destinazione, un obbligo né un legame. Mi faceva sorridere e mi lasciava un fresco e piacevole vuoto dentro. E in fondo sarebbe stata quella la vita che avrei voluto per me... già, se solo nel profondo di quella libertà provvisoria non avesse continuato ad agitarsi il pensiero di ciò che mi ero lasciato alle spalle; di chi mi ero lasciato alle spalle.
Una minuscola e fastidiosa parte di me avrebbe voluto anche lei lì. Elle e quel suo continuo guardarsi intorno come una bambina, il suo osservare tutto come se fosse una gigantesca sorpresa e quel buffo e impacciato camminare col naso allinsù, così da non perdersi proprio niente.
Lavrei voluta lì: a precedere ogni mio passo e a sorridere anche delle più piccole cose che avrebbe visto.
Mi ero ormai così abituato ad averla intorno – a sentirmi circondato dalla sua minuta presenza, a percepire il suo odore ovunque, come se avesse invaso anche le mie cose – che per un attimo mi ero perfino lasciato cullare dalla mia immaginazione e dall’illusione di poterla scorgere tra il resto delle persone. Di vederla sollevare lo sguardo verso di me e di sorridermi, prima di venirmi incontro per afferrarmi la manica di quel vecchio parka ed intimarmi a muovermi, perché cerano ancora troppe cose che avrebbe voluto visitare e fare insieme.
Una cosa schifosamente patetica, lo so... ma era pur sempre la verità.
Scossi quindi la testa e lasciai svanire quella fantasia nel nulla, così comera arrivata, e continuai a camminare per neanche io saprei dire quanto, finché con un sorriso sulle labbra mi ritrovai esattamente davanti a uno dei luoghi sacri che avevano segnato la musica e, nel mio piccolo, anche la mia infanzia.
Lormai rinomato “Cavern Club” di Liverpool si stagliava davanti a me, in un semplice e vecchio edificio di mattoni a vista. Loriginale porta rosso sangue era ancora chiusa a quellora, ma linsegna luminosa faceva comunque mostra orgogliosa di sé, sopra di essa, nonostante la luce del giorno.
Sapevo che quello non era certo il pub originale – purtroppo demolito più di dieci anni prima, seppur fosse stato miracolosamente ricostruito con tutti gli stessi materiali ancora reperibili, compresa la quasi totalità dei mattoni esterni – ma un brivido freddo risalì comunque lungo la mia schiena nel trovarmi davanti a uno dei luoghi che più avevano contribuito a costruire la musica.
Perché per quanto la firm e lo stadio fossero le mie più grandi passioni assieme alla fotografia, quando mi trovavo nella solitudine della mia stanza non potevo far a meno di dare il via libera alla radio o rispolverare qualche vecchio vinile, perché riempissero il vuoto tra quelle mura; perché quei capolavori riempissero completamente anche me.
Mi soffermai ancora per un attimo ad osservarlo, ripromettendomi di berci assolutamente almeno una birra durante quel mio soggiorno e, con un po di malinconia addosso per non aver avuto la possibilità di vivere negli anni in cui il “Cavern Club” aveva visto i suoi giorni doro con i Beatles, proseguii nel mio ozioso girovagare.
Come guidato da un filo invisibile tra le mie – ormai risapute – passioni, seguii le indicazioni per lo stadio principale della città: lenorme e squadrato “Anfield”, orgogliosamente situato nell’omonima via, così come in genere dettava la tradizione calcistica inglese.
In realtà, di tutta Lillyverpool, quello era decisamente uno dei pochi posti che avrei dovuto assolutamente evitare come la peste bubbonica, ma che le mie capacità di giudizio non fossero propriamente attive e all’avanguardia non era certo un segreto per nessuno. Perciò decisi di ignorare deliberatamente la mia povera coscienza e continuai ad avvicinarmi, pur essendo sempre più conscio del fatto che fosse una colossale cazzata.
Per un povero Cristo di una firm avversaria sarebbe stato comunque scarsamente sconsigliato aggirarsi nei dintorni, specie se si trattava di qualcuno riconoscibile nell’arco di un paio di nano secondi scarsi come il sottoscritto, e soprattutto se, i tizi che spadroneggiavano in quei luoghi, altro non aspettavano che l’arrivo di quel weekend proprio per affrontare il mio West Ham.
Non c’era neanche un misero motivo per cui non avrei dovuto girare sui tacchi all’istante e tornare indietro per evitare i miei soliti casini. Non esisteva neanche uno stupido incentivo a proseguire in quel mio suicidio, ma continuai ad avanzare come se nulla fosse, perfettamente consapevole che di lì a poco qualcuno avrebbe fatto il mio nome e probabilmente ne sarebbe succeduta una poco piacevole visita alla stazione di polizia più vicina, con conseguente e ancor meno allettante incontro con mia madre, che avrebbe dovuto garantire per la mia uscita ed il mio rientro a casa.
No, in definitiva non esisteva proprio un “perché” plausibile alla mia presenza in quel posto, ma le mie gambe continuarono ad andare per la loro casuale strada e, come da copione, ben presto vennero affiancate da qualcun altro.
«Ciao Peter» salutai con un sospiro annoiato, ben edotto su chi fosse il primo dei cinque che mi avevano gentilmente avvicinato.
Peter Kelly, meglio conosciuto come il leader indiscusso della Kop, se ne stava a meno di un metro da me, avvolto nel suo giubbotto di tela nera ampiamente consunta, con le braccia conserte e gli insoliti capelli lunghi e scuri, con qualche filo d’argento a testimoniare che non faceva propriamente parte dei “plotoni” più giovani della firm.
Doveva avere una quarantina d’anni o poco più, e faceva già parte del gruppo dai tempi in cui l’
I.C.F. era nelle mani di mio padre, seppur all’epoca fosse poco più che un ragazzino. Dalle voci che giravano su di lui comunque, e da quel che avevo potuto constatare con i miei stessi occhi, non era certo un tipo con cui poter amabilmente scherzare.
Non era forse più reattivo e veloce come un tempo e come le storie a riguardo narravano, ma aveva un bel po’ di anni ed esperienze dalla sua parte e, sulla mia stessa pelle, avevo provato che non erano affatto elementi da sottovalutare.
Il suo sguardo poi non premetteva niente di rassicurante. Pareva essere particolarmente infastidito dalla mia presenza, non tanto per il mio stesso girovagare, quanto più per il fatto che lo stavo facendo da solo, come una sorta di irrispettosa sfida e beffa verso la loro autorità sul posto.
A suoi occhi dovevo sembrare particolarmente insolente, al limite del ridicolo, o
particolarmente stupido, per il mio gesto. Qualunque alternativa fosse comunque, non me lo diede mai a sapere, bensì si limitò a scuotere la testa e ad aggrottare la fronte in un’espressione confusa, quasi gli costasse un’immensa fatica comprendere il perché di quella mia stupida trovata.
E, a dirla tutta, non l’avevo compreso neanche io.
«Tuo padre era un pazzo» iniziò placidamente. «Credimi, l’ho incontrato più di una volta e posso affermarlo con certezza. Ma era un folle scatenato, non un idiota. Neanche a lui sarebbe venuto in mente di venire qui, per di più da solo...»
«Non sono mio padre» lo interruppi, sollevando un sopracciglio. Avevo già perfettamente capito dove volesse andare a parare: voleva farmi la festa, ma prima desiderava capire la motivazione per cui mi trovavo nei pressi dello stadio.
«Lo vedo. Non ti ha insegnato proprio niente?»
«Mi ha insegnato quanto basta.»
«No, Peter» intervenne uno dei ragazzi al suo fianco, con i capelli scuri e rasati ai lati. Doveva avere più o meno la mia età, ma era più che evidente, da come si atteggiava, che sapeva il fatto suo. «Non può essere lui. Aaron Dunham non è tanto idiota da presentarsi da solo all’Anfield
Nell’osservarlo meglio in quella sua espressione infastidita, riconobbi in lui Denton, un altro di quelli che si era fatto un certo nome tra le firm e che di certo non aveva paura di chiazzarsi un po’ i vestiti di sangue.
«A quanto pare sopravvalutate la mia intelligenza, ma non preoccuparti, sono qui solo per una visita di famiglia» gli dissi perciò con unovvia nota ilare nella voce, pur restando guardingo nei confronti di quel nano dalle spalle un po troppo ampie. «Però se il resto dei tuoi amichetti vuole un autografo, possiamo parlarne.»
«Questa tua sbruffonaggine non ti servirà quando ti attaccheremo al posto di una di quelle bandiere» mi ringhiò contro avvicinandosi di un passo, fino a posizionarsi pressoché sotto il mio mento, con le mani strette a pugno che tremavano dalla voglia di spezzarmi qualche osso.
«Accidenti! Fin lassù?» domandai, sollevando appena lo sguardo verso quei rettangoli di stoffa che sventolavano sulla sommità dello stadio; continuando sulla mia strada, e rischiando davvero che le bellicose intenzioni di Denton si trasformassero in realtà. «Spero che abbiate addestrato qualcuno, perché sarebbe un’impresa in cui non mi cimenterei neanch’io. Con questo freddo poi!»
«Ti rendi conto dell’abissale differenza numerica che c’è, oppure tutti gli scontri di questi anni ti hanno compromesso il cervello?!» grugnì ancora digrignando i denti, quando un ragazzetto che non doveva aver più di tredici anni, e che fino a quel momento non avevo neanche visto, sbucò da dietro le sue spalle e si frappose tra noi.
Mi fissò in cagnesco, gonfiandosi orgoglioso nel suo metro e sessanta scarso, i capelli tagliati in un’orribile cresta e le nocche delle mani impiastricciate di china, nel ridicolo tentativo di tatuarsi addosso la sigla “L.F.C”:
Liverpool Football Club; poi, con un grugno deciso sulla faccia, sputò velenoso: «Ti faranno il culo!»
Porca troia, che ambientino!, pensai dentro di me, ma mi limitai a rivolgergli un sorriso tra il divertito e l’intenerito. In fondo ero stato anche io un ragazzetto tanto impudente e scalpitante, nonché incapace di rispettare le gerarchie.
Sollevai poi lo sguardo verso Denton, e mi resi conto che anche lui era della mia stessa opinione. Non gli era affatto piaciuta quell’uscita infelice, ma doveva voler davvero bene a quel ragazzino e, per la salvezza della sua giovane e spropositata autostima, si sarebbe limitato a sgridarlo nel momento in cui sarebbero stati soli. Non davanti ad altri componenti e soprattutto non davanti a
me.
«Sta calmo, piccolo Mangiagallette» lo apostrofai, trattenendomi a stento dal dargli una pacca sulla nuca. «Te l’ho appena detto, sono qui solo in veste di turista. Non ho la macchina fotografica con me perché è stato un soggiorno deciso all’ultimo momento, ma ti assicuro che diversamente ti avrei anche potuto proporre uno scatto insieme. Sono un pacifista sotto, sotto!»
Il ragazzino fu probabilmente sul punto di sferrarmi un calcio sugli stinchi, dato che la sua precaria altezza gli impediva di poter raggiungere la mia faccia, ma Denton intervenne prima che potesse fare o dire qualsiasi cosa, afferrandolo per il colletto del cappotto e trascinandoselo nuovamente dietro, quasi fosse stato un animaletto da compagnia.
Se fosse stata unaltra situazione probabilmente mi sarei fatto una grassa risata, ma dal modo in cui continuava a fissarmi capii che non cera affatto possibilità di scherzare.
«E dimmi un po’, la meta di questo tuo presunto viaggio turistico è proprio lo stadio, per di più a meno di una settimana dalla partita che, guarda caso, si disputerà proprio qui contro il West Ham?»
«Ammiro sinceramente le tue doti di sintesi.»
«Perché tutto questo odora tanto di presa per il culo?» mi accusò difatti questo, mentre gli occhi di Peter si assottigliavano e si concentravano sulle mie espressioni, come se si aspettasse di poterci leggere qualcosa.
«A dire il vero, l’unico odore che sento io è quello di fritto del ‘Fish and Chips’ all’angolo» sbuffai divertito e, comera già nellaria da un po, le dita di Denton andarono a stringersi a pugno sul colletto del mio parka, per poi strattonarmi in basso verso la sua faccia.
«Dunham, non sei nella posizione di fare lo spiritoso.»
«Sto solo difendendo le mie ragioni» replicai secco. La voglia dironia era improvvisamente passata anche a me, lasciando il posto a quel familiare formicolio che mi pervadeva i palmi, nellattesa di una sacrosanta scazzottata.
«Chi mi dice che non sei venuto qui in qualità di spia?» stavolta fu nuovamente Peter a parlare, e quasi gli fui grato di quell’intervento. Doveva aver capito verso quale direzione stava degenerando la situazione e, probabilmente, dall’alto delle sue conoscenze in merito di firm, voleva evitare più grane inutili di quante già ce ne fossero.
«Il semplice fatto che noi dell’I.C.F non abbiamo certo bisogno di questi giochetti per asfaltarvi come si deve» feci schioccare la lingua e assottigliai lo sguardo, prima di liberarmi da quella fastidiosa presa, «e che comunque, se anche fosse, non mi sarei certo scomodato io per venire fin qui, soprattutto considerando il fatto che mi avreste riconosciuto dal limite della piazza.»
«Supponendo per assurdo che tu stia dicendo il vero...»
«Puoi togliere le supposizioni.»
«... per quale motivo dovresti aggirarti da queste parti?»
«Magari proprio per il fatto che non sono davvero intelligente come credete» risposi ancora, prima di offrigli una scusa – che poi non era che la pura verità – che sperai potesse reggere ed evitarmi guai. Non ero tanto sciocco da poter pensare di affrontarne cinque di loro e passarla liscia. Soprattutto non nel loro territorio, dove i rinforzi avrebbero impiegato lirrisorio tempo di qualche secondo per correre a dare man forte e darmi una bella ripassata, «o più semplicemente perché sono davvero in veste di turista, senza la benché minima voglia di cacciarmi in una bella rissa. Detto in parole povere, se rientro a casa anche solo con un misero livido, rischio di essere sbattuto fuori senza tanti complimenti e, non offenderti, ma il mio desiderio di menar le mani con voi non vale una notte passata a congelare.»
Alle mie parole, Denton si lasciò sfuggire una breve risata. «Be’, se la metti in questi termini, potremmo anche riaccompagnarti all’ovile. Potremmo testimoniare a tuo favore, non credi?»
«Già, ho dimenticato di dirti che è molto più probabile che mi metta a nuotare nudo nel fiume per una notte intera, piuttosto che dirti dove alloggio» fu la mia immediata risposta, prima di protendermi verso di lui, così che potesse guardarmi dritto negli occhi e capire che, nonostante lo svantaggio, le mie minacce erano più che serie, «e sia chiaro, Scouse, non provare neanche solo a pensare di farmi seguire da uno dei tuoi, perché quant’è vero che sono in piedi davanti a te, di quel povero disgraziato dovresti esser grato se ti rimandassi indietro anche solo gli occhi.»
«Te lo ripeto solo un’altra volta: non sei nella posizione per fare lo sbruffone.»
«E io ti assicuro che sono sempre nella posizione di fare quel che cazzo mi pare» sibilai, scandendo bene ognuna di quelle parole. Non avevo davvero più voglia di scherzare. Non in quel momento in cui si era affacciata anche solo la vaga possibilità di pericolo per mia madre, «così come sappiamo entrambi che non farai un bel niente finché non avrai le prove che sono qui per un motivo preciso che riguarda le firm, perché te la fai sotto dalla paura al solo pensiero del macello che ne verrebbe fuori.»
Denton mantenne il contatto visivo con fierezza – abbassare lo sguardo avrebbe significato lammettere una sorta di mia superiorità –, ma nonostante questo, non diede la solita, pronta risposta.
La realtà dei fatti era che avevo di nuovo accennato alla pura verità, al peggiore scenario che si sarebbe potuto verificare tra le due firm, se solo si fossero azzardati ad alzare le mani su di me che girovagavo in solitaria e per di più senza avere uno straccio di scusa o di prova delle mie pessime intenzioni, per farlo.
Se mi avessero fatto anche solo un graffio – e ovviamente il futuro più prossimo si prospettava decisamente peggiore per me, di qualche livido – la voce si sarebbe velocemente sparsa fino a Londra, e lì, una volta saputo dell’accaduto, sarebbe scoppiato il pandemonio.
Non ci sarebbero stati a quel punto tradizionali weekend di partite da rispettare. Sarebbe stata pura e semplice guerra per difendere lonore della firm e di un compagno calpestato senza un “giusto motivo”; e sarebbe stata decisamente peggiore di tutte le altre volte.
«Ti do un consiglio da amico, Denton» gli dissi perciò. «Queste stronzate lasciale a chi ha abbastanza palle per farle... o per meglio dire, a chi è tanto stupido da farle, tipo quei simpatici tizi dei Docks a sud.»
Dal canto suo, perfettamente al corrente di quanto avessi ragione, non rispose alla mia provocazione né proseguì per la sue intenzioni di farmi la festa. Contrariamente a lui, fu Peter a sorridermi e a rispondermi per le rime: «A proposito di quei ‘simpatici tizi’, com’è che vanno le cose ai Docks, Dunham? Avete deciso diventare una grande famigliola felice?»
Quellultima domanda mi lasciò spiazzato per un attimo.
Non ero sicuro di aver sentito bene le sue parole ma, dal modo in cui presero a sorridere anche tutti gli altri, era più che evidente che le mie orecchie non avevano fatto cilecca. Per quanto mi sembrasse completamente assurda, Peter aveva detto proprio quella frase.
«Non so di cosa tu stia parlando» replicai in tono asciutto, scandagliando ogni loro movimento. Non erano degli idioti, e se avevano parlato a quel modo, un motivo doveva pur esserci.
«Corrono voci di una strana amicizia» si limitò ad accennare lui, e io non riuscii a trattenere uno sbuffo divertito.
«Non è che l’unico cervello compromesso qui è il tuo?»
«Siamo lontani da Londra qui, e detto sinceramente non ce ne frega un cazzo dei vostri affari, ma fossi in te comincerei a guardarmi le spalle, soprattutto quando passeggi al porto.»
Scossi la testa, sospirando esasperato. Quella era davvero la più apocalittica buffonata che avessi mai sentito dire. Perfino peggiore delle storielle fantascientifiche di Chris. «Ti rendi conto di star dicendo un mucchio di stronzate? Fosse per noi, non divideremmo neanche l’aria che respiriamo.»
«Può essere. Io ti ho solo detto che girano strane voci a riguardo.»
«A riguardo di cosa
«Te l’ho appena detto. Simpatie. Forse qualcuno fa il doppio gioco» spiegò lui, fissandomi dritto negli occhi con decisione, quasi volesse trasmettermi in quella sua tenacia che non stava affatto inventando qualcosa, «e girano anche voci sul fatto che sei un po’ distratto da altri pensieri ultimamente... o sono stronzate anche queste?»
«Ma piantala!»
«Non ne so molto, anzi, diciamo pure che non ne so niente a riguardo... ma se certe notizie sono state messe in giro, qualcosa di fondo deve pur esserci. Nessuno altrimenti si sognerebbe di farlo...»
«Be’, te lo dico io da adesso: sono tutte cazzate, e chi le ha messe in giro, farà bene a nascondersi» lo interruppi, completamente stufo di quella ridicola conversazione, e tanto più dell’accenno ad Elle. Non mi piaceva affatto che girassero voci su di lei. Nonostante lavessi portata con me allo stadio – e continuavo a pentirmi di quella mia scelta – doveva restare totalmente fuori da quelle faccende.
In preda alla collera e alla frustrazione, pur di evitare di scaricarmi sul primo che avrei potuto trovarmi davanti, voltai le spalle ai simpatici Scousers che avevano fino a quel momento allietato la mia giornata, e mi allontanai da loro a passi grandi e nervosi.
«Dove diavolo pensi di andare adesso?!» gridò Peter, evidentemente infastidito dal mio gesto, pur tenendosi ben lontano dall’idea di seguirmi.
«A casa. E ricordati ciò che ho promesso... non vi conviene farmi seguire» risposi, senza neanche voltarmi, continuando ad avanzare nella speranza che quell’andatura agguerrita servisse a farmi sbollire.
Una volante della polizia passò nelle vicinanze, rallentando immediatamente nel momento in cui il conducente si rese conto della nostra presenza. Percorse una parte della via quasi fermandosi in mezzo, nellindecisione se accostare o meno, per scendere a sincerarsi della situazione e fare qualche domanda.
A quel punto fui certo che nessuno di loro avrebbe mosso un dito. Non con quei bastardi in divisa a pochi metri, non con così pochi giorni a separarli dallo scontro vero e proprio con lI.C.F., ma soprattutto, non con la ghigliottina che pendeva sulle loro teste, come una promessa di completo marasma se solo avessero osato fare qualcosa.
«Stammi bene, Peter.»


Percorsi parecchie stradine senza neanche vederle, zigzagando a caso tra le varie svolte, troppo preso dai miei pensieri per concentrarmi su altro.
Le parole di quel Peter continuavano a rimbalzarmi fastidiosamente in testa, facendo nascere strani e assurdi sospetti anche dove non avevano motivo di essercene.
Non vi era alcuna possibilità che ai Docks qualcuno facesse il doppio gioco. Sarebbe stato troppo pericoloso per chiunque e non avrebbe avuto alcun senso, né avrebbe portato giovamento da una parte o dall’altra.
Cera una rivalità che gettava le proprie radici troppo in profondità, a strisciare tra i due punti estremi di quei cantieri; una rivalità che perdurava da anni e che, anzi, continuava a rafforzarsi di più ad ogni scontro. Ogni episodio era buono per aggrapparsi a qualche imperdonabile affronto per cui quella faida aveva raggiunto il così detto “punto di non ritorno”. Non cera davvero possibilità di tregua e non ci sarebbe mai stata.
Ecco perché quelle parole continuavano a suonare completamente assurde; ed ecco perché, prima di uscirne completamente pazzo, realizzai di aver bisogno di parlarne con qualcuno che potesse darmi la conferma sulla totale impossibilità della cosa, neanche fossimo stati in un universo parallelo.
Mi avviai quindi verso la prima cabina telefonica disponibile sulla mia strada e frugai nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. Li inserii nella fessura e composi un numero che avrei potuto fare anche ad occhi chiusi e di spalle. Infine mi appoggiai con la schiena alla parete di plexiglas, picchiettandovi con la mano libera, nell’attesa che quel suono noioso venisse interrotto da qualcuno all’altro capo, e maledicendomi ogni secondo nel chiedermi se fosse davvero la cosa giusta da fare. Non avevo prove; non avevo proprio un bel niente, ma quella conversazione mi aveva innestato un tarlo in testa ed era un dubbio che dovevo togliermi.
Sbuffai nervoso e in quello stesso istante la cornetta venne alzata proprio dalla persona che stavo cercando: Nathan.
«Pronto?»
«Ehi, sono io» dissi semplicemente, e dal mugugno che percepii dall’altra parte, capii che non avevo bisogno di altre presentazioni.
«Ah, ma allora sei vivo!» esclamò lui, senza neanche provare a nascondere il nervoso sarcasmo che trasudava dalla sua voce. Non potevo biasimarlo per avercela con me, né avevo scuse plausibili con cui potermi difendere, ma non riuscii comunque ad arginare la mia solita insofferenza nel dover rendere conto a qualcuno. Anche se questo “qualcuno” era il mio migliore amico.
«Possiamo saltare la parte in cui reciti il padre coscienzioso? C’è già Brian che adempie fin troppo bene al ruolo.»
«Vaffanculo, Aaron. Ma seriamente, va’ e restaci!»
Sollevai gli occhi e sbuffai scocciato. «Ti senti abbandonato, Pollicino
«Mi sento preso per il culo, grazie» replicò secco, per poi ripartire con una filippica che non avevo la minima voglia di stare a sentire. «Mi spieghi che cazzo ti ha detto il cervello?! Abbiamo trovato la tua moto oggi, e non è stato affatto piacevole non vederti nei dintorni.»
«Non mi hai visto perché non sono a Londra.»
«E dove cazzo sei?!»
«A Lillyverpool, ma non è questo il punto.»
Nathan restò in silenzio per qualche secondo, probabilmente impegnato a elaborare le informazioni che gli avevo rifilato fino ad allora. «Che ci fai in mezzo agli Scousers?» se ne uscì infine e io non riuscii a trattenere uno sbuffo scocciato.
«Mammina, sono ad un telefono pubblico. Se magari mi dai il tempo di parlare ti spiego tutto e forse evito di accendere un mutuo in banca per pagare questa stramaledetta telefonata!»
«Ultima cosa: sei da tua madre?»

«Sì» risposi con un sospiro e dall’altro capo percepii chiaramente un mugugno disperato.
«Allora è peggio di quanto pensavo. Ottimo» borbottò infatti, prima di prendere un lungo respiro e proseguire: «Allora? Che diavolo succede?»
«Sono passato nei pressi dell’Anfield qualche ora fa...»
«Ma benissimo! Fantastico!» minterruppe isterico. «Hai avuto qualche altra bellissima idea, tipo rapinare il primo negozio che ti capitava a tiro o prendere a calci una vecchietta? No, sai... te lo chiedo perché nelle ultime ventiquatt’ore pare che le tue capacità di giudizio facciano un tantino cilecca!»
«Sono sempre ad un telefono pubblico, sai? Gli spiccioli stanno finendo.»
«Dimmi almeno che non hai scatenato una rissa.»
«No, ma ho incontrato Peter Kelly, e prima che tu mi propini un altro melodramma, abbiamo solo discusso un po’.»
«A riguardo di?»
«Stronzate in realtà. Dice che son circolate strane voci sui
Docks. Qualcosa su un’improbabile accordo o che ci sia qualcuno che tiene il piede in due scarpe, da l’una o dall’altra parte.»
Altri secondi di silenzio, poi Nathan mi rispose esattamente come avevo pensato e sperato: «Dì un po’, ti sei fatto? Ma che stronzate stai dicendo?»
«È quello che gli ho detto anch’io. Non esiste né in cielo né in terra una cosa del genere» mormorai, tirando però un sospiro di sollievo. «Facciamo che è solo colpa del fatto che ho parecchie ore di sonno da recuperare.»
«Credi che esista qualcuno così idiota da mettersi in una posizione tanto scomoda, col rischio di fare un bel ‘boom’ da un momento all’altro?»
«No» replicai più sicuro, aggrottando la fronte nell
udire il segnale attraverso la cornetta che minformava che la telefonata era già agli sgoccioli, «e se esiste deve essere internato seduta stante.»
«Altre follie dell’ultimo minuto?»
«Negativo» ribattei sbrigativo. «Ti richiamo se dovesse esserci altro, anche se ne dubito fortemente.»
«Non hai nient’altro da chiedermi?»
«Tipo?» feci il vago, esultando però dentro di me per essere riuscito a raccapezzare un
altra monetina dalle mie tasche, che mi permettesse di allungare ancora un po quella chiamata. In fondo sapevo che alla fine dei conti gli argomenti avrebbero portato lì e, anche se non lavrei mai ammesso neanche con me stesso, una parte di me moriva dalla voglia di sapere che diavolo stesse succedendo in mia assenza.
«Aaron, seriamente... non so se sei davvero così idiota o solo stronzo.»
«Magari entrambe...»
«Quando pensi di tornare?»
«Non lo so» sospirai, e un
altra monetina seguì il corso dellaltra. Quella conversazione mi sarebbe costata lo spuntino! «Non credo neanche che sarò presente domenica. Non posso, per mia madre...»
«Lo so. Non è un problema.»
«Magari non per te e Chris, ma per gli altri...»
«Diremo che hai avuto un’emergenza con tua madre e che non puoi rischiare. Capiranno» mi rassicurò Nathan. «Anche se a Liverpool non sono tipi da fare carognate del genere, è meglio non metterci la mano sul fuoco.»
«Ok, grazie.»
«E di che... tu datti solo una mossa a tornare.»
«Senti già la mia mancanza,
principessa?» ghignai divertito e lui mi rispose con un mugolio insofferente.
«Per quel che mi riguarda puoi buttarti anche nella Mersey, ma
forse, qualcuno che ti aspetta c’è, anche se non te lo meriti.»
«Hai finito con queste cagate?» replicai, cercando di mantenere un tono distaccato. Alla fine dei conti, non ero poi così sicuro di voler davvero sapere cosa stava succedendo nella mia Londra, e l
improvviso crampo allo stomaco ne era la prova lampante.
«Fa’ un po’ come ti pare.»
«Come sempre!»
«Fatti sentire.»
«Ok... e saluta Chris, prima che gli venga un attacco di gelosia.»
Nathan ridacchiò e lo immaginai scuotere la testa. «Ciao idiota.»
«Ciao» dissi semplicemente e riagganciai con una lieve scia di amara malinconia a scendermi giù per la gola. Meno di un giorno senza i miei più cari amici e la mia Londra, e già mi ero ridotto ad un povero sentimentale.
Davvero un gran bellaffare.

***

*NB: "Lillyverpool" è un soprannome dispregiativo con cui i londinesi chiamano Liverpool - unendo il nome della città a quello del paese immaginario Lilliput, de "I viaggi di Gulliver" - per una vecchia diceria che riguarda i suoi abitanti, secondo cui vengono definiti persone particolarmente basse nella media. Non so sinceramente da dove venga questa cosa, ma è questo il motivo per cui Aaron li chiama appunto "quei nani". "Mangiagallette" e "Scouse" - o "Scousers" al plurale - sono altri soprannomi che sono stati affibbiati agli abitanti di Liverpool. Sono collegati l'uno all'altro, difatti il primo riguarda ovviamente una tradizione "culinaria" di Liverpool e il fatto che, soprattutto tra i lavoratori del porto e marinai in sé, fosse molto diffusa la tradizione di mangiare appunto gallette, soprattutto nei lunghi viaggi in mare; il secondo invece viene proprio dal nome con cui si identifica il dialetto parlato a Liverpool. Come a Londra esiste il "Cockney" a Liverpool esiste lo "Scouse". Da questo proviene la tradizione di identificarli come "Scouse" o "Scousers". Il fatto che poi "Scouse" significhi letteralmente "galletta", spiega da sé la correlazione tra le due cose!


Qualcuno di voi mi odia, altri vorrebbero vedermi appesa ad una forca, altri ancora probabilmente si saranno scocciati di aspettare e decisamente non posso biasimarli! So che è più di un anno che attendete il diciannovesimo capitolo - sono una persona orribile, sì - e che la misera prima parte di un'OS - benché sia strettamente collegata e funzionale al resto della storia - significa poco o niente, ma purtroppo questo è il massimo che sono riuscita a fare.
C'è già una seconda parte pressoché completa e il diciannovesimo capitolo che è scritto a pezzi random qua e là e che aspetta di essere risistemato e magari anche collegato con un senso, oltre che scritto in un italiano più o meno comprensibile ma, nonostante questo, proprio non so darvi un'idea di quando riuscirò a postarlo.
Mi rendo perfettamente conto che questa non è la notizia che vi sareste aspettati, e mi rendo anche perfettamente conto di quanto sia odioso tutto questo. Come dico sempre, sono una lettrice anch
'io e impazzisco nell'attesa degli aggiornamenti di storie che amo, ma per svariati motivi che non posso stare a spiegarvi in questa sede e in questo momento - oltre ai soliti impegni universitari, di vita sociale ecc - per adesso non riesco a garantirvi una data o un periodo sicuro in cui riuscirò ad aggiornare. 
Non è piacevole neanche per me. Preferirei di gran lunga avere tutto il tempo del mondo per dargli finalmente una fine e chiudere questa storia, perché in parte sta diventando una specie di maledizione e un incubo questo mio continuo ritardo, ma ora come ora non posso fare altrimenti. 
Vi chiedo quindi per l'ennesima volta scusa - anche se non so quanto possa valere - e, se ne avete voglia, di pazientare ancora un po'. Prima o poi, in un modo o nell'altro, Blowing Bubbles avrà una fine.  Promesso.
Detto questo, spero che questa "piccola" prima parte vi sia piaciuta, benché vi siate dovuti sorbire gli infiniti pipponi mentali di Aaron. Spero anche che siano chiari i pochi appuntini che vi ho lasciato qua sopra in merito ai vari soprannomi che si scambiano londinesi e "Liverpudlians" - altro nomignolo che, come avrete capito, ha a che fare con questo presunto "nanismo" su cui ho dei serissimi dubbi, ma tant'é! - con tanto amore.

E quindi niente, non ho molto altro da aggiungere, se non infilarmi in un angolino a vergognarmi, perché davvero non ho delle vere e proprie scusanti. Mi auguro di aver placato almeno un poco la vostra "voglia di sapere" per come andrà a finire tra questi due disagiati mentali e anche qualche curiosità su quel disastro ambulante di Aaron.

Conto di darvi qualche altra notizia al più presto, per quel che mi è possibile.

Un bacione, 
Veronica.


   
 
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