“Liverpool”
[1° parte]
Un
cielo grigio piombo, quasi soffocante, accolse il mio arrivo, mentre
le gocce d’acqua cadevano copiose sferzando il vecchio cartello
arrugginito, su cui il nome “Liverpool” capeggiava un po’
smangiato dalla ruggine.
Liverpool.
Non mi era mai piaciuto quel posto.
Tanti
ne decantavano la bellezza rustica, il fascino di una città che si
affaccia sul mare e da cui si può respirare a fondo il profumo della
brezza marina.
Brezza
marina... bah, io l’avrei definito “tanfo di pesce morto”, ma
ognuno ha le sue opinioni, no?
L’unico
motivo per cui ritenevo sopportabile l’esistenza di quell’ammasso
di case colorate e fabbriche, era che quel posto aveva dato l’origine
ad una delle band che più amavo e che più avevo sentito presente
nella mia infanzia: i Beatles.
Buffo
che il gruppo che avrebbe dato una vera innovazione al mondo della
musica, fosse nato proprio in una città che di innovativo non aveva
proprio un cazzo di niente. Perfino la pioggia a cui avrei dovuto
essere abituato, il cielo livido o quell’insistente umidità che
s’insinuava a congelare i nervi fino alle ossa mi sembravano
noiose, stantie.
Come
se non fosse abbastanza poi, quel posto era anche la patria dei Kop.
Una firm simpatica... non c’è che dire.
Avrei
dato fuoco ad ognuno di quei nani, dalla parte in cui avrebbero preso
meglio. Tante belle torce umane. Loro, le loro cazzo di maglie o
quello stupido coro che ripetevano fino a fracassarmi le palle; i
loro stramaledetti coltelli e quella fottuta aria superiore che si
portavano dietro e che gli avevo sentito sempre addosso da che avevo
memoria.
Insomma,
Lillyverpool e quei nani che
la abitavano decisamente non rientravano tra le mie grazie e
mai ci sarebbero entrati, ma non potevo fare a meno di essere lì,
pur non riuscendo neanche ad ammettere con me stesso che, alla fine
dei conti, mi ero spinto tanto lontano senza avere niente con me
perché in quella città odiosa abitava l’unica persona da cui
avrei potuto cercare davvero rifugio.
Mamma.
Il
solo pensare a quella semplice parola mi
fece tremare le gambe mentre scendevo dal treno e mi lasciavo colpire
dalla pioggia.
Restai
impalato sulla banchina per un po’, come un perfetto imbecille,
incapace di fare qualcosa; se decidermi ad andare avanti o tirarmi
ancora indietro e scappare da qualche altra parte.
La
realtà era che non sapevo neanche perché ero fuggito in quel modo e
così lontano. Mi odiavo per questo, ma ne avevo sentito l’impellente
bisogno ed altro non avevo saputo fare che seguire ciò che il mio
istinto mi aveva suggerito.
Una
corsa sotto la pioggia, un treno preso al volo e poi di nuovo ancora
sotto quelle gocce d’acqua e il cielo di un’altra città, ad
aspettare chissà cosa e a sperare che l’odore di lei
mi si lavasse via di dosso.
Fu
forse quel pensiero che mi fece sobbalzare e mi spronò a fare
qualcosa, che mi suggerì di terminare quello per cui ero arrivato
fin lì. Proprio per questo mi ritrovai ad avanzare alle prime luci
tenui di un’alba piovosa, con le mani in tasca; percorrendo una
strada che altre volte avevo attraversato durante le trasferte a
Liverpool, fermandomi sempre a qualche passo da quella
porta blu scuro, senza trovare mai il coraggio di bussare, suonare
quel dannato campanello o semplicemente urlare a mia madre che ero
lì, anche per lei.
Incurante
di tutto avevo camminato tra le vie di quella città che
lentamente
si stava svegliando, assistendo come un osservatore distratto
all’alzarsi dei primi avvolgibili e dei bandoni dei negozi.
Provando l’irrefrenabile bisogno di sentire la consistenza di una
macchina fotografica tra le mani e di premere quel dannato pulsante,
per immortalare perfino quel posto maleodorante e rustico.
Un
passo dietro l’altro, sempre più strascicati ed insofferenti, e
alla fine mi ero ritrovato di nuovo davanti a quella porta blu,
con le gambe ridotte improvvisamente a due macigni che sembravano
essersi cementificati sull’asfalto.
Ero
completamente pietrificato dall’altra parte della strada, con gli
occhi fissi su quella sagoma regolare e scura, tanto da sembrare un
malintenzionato o uno psicopatico, e tanto da provocare la curiosità
dei pochi passanti che, forse insospettiti dal mio comportamento,
avevano iniziato a controllarmi sottecchi.
Per questo – oltre che per voler evitare una chiamata di qualche
stronzo a qualche poliziotto del cazzo – mi obbligai ad andare
ancora avanti e a far muovere la mia mano fino a quel maledetto
campanello.
Un
trillo acuto echeggiò dall’altra parte della porta e, dopo un
“arrivo” urlato da quella voce
che mi fece tremare, qualche secondo ed un frettoloso scalpitio,
questa venne aperta.
Ed
eccola lì, sulla soglia, con la mano ben stretta sulla maniglia e
sempre bella da far male, nonostante la vestaglia un po’ storta,
allacciata di fretta, i capelli arruffati e il viso stropicciato di
chi è appena stato svegliato.
Era
la donna più bella che avessi mai visto. Lo era sempre stata, mamma,
più bella di chiunque altra, con i suoi lunghi capelli scuri e
quegli occhioni neri, così grandi che potevi perdertici per ore a
guardarli.
Così
diversa da me, Brian e papà nei colori, che da bambino passavo
minuti interi a fissarla mentre si preparava per uscire. Davo uno
sguardo di tanto in tanto alle nostre due immagini vicine, riflesse
nello specchio, per poi arricciare il naso di disappunto nel vedere
il miei capelli disordinati e fin troppo biondi, tipici dei Dunham,
così discordi da quei lunghissimi fili scuri, morbidi e profumati;
sempre impeccabili e che le scendevano su una spalla in una treccia.
Era
sempre stata perfetta
lei, e spesso mi sono chiesto cosa ci potesse fare una donna così
con uno spiantato come mio padre. Poteva avere chiunque e in tanti mi
avevano raccontato di come faceva girare la testa, eppure, tra tutti
aveva scelto il male peggiore o come diceva Brian: “aveva scelto il
male peggiore, ma anche l’unico amore”.
Ed
era bellissima anche in quel momento, nonostante avesse dipinta in
faccia la stessa espressione di chi ha appena visto un fantasma... e
forse l’aveva anche creduto davvero, per un attimo. Il fantasma del
mio vecchio stronzo che era tornato in direttissima dall’inferno
per tormentarla come si deve.
La
vidi sbattere le palpebre più di una volta e schiudere le labbra con
una lentezza esasperante, tale da uccidermi. Mi sentivo un perfetto
coglione, impalato davanti a lei, con il cuore che batteva come un
forsennato e lo stomaco che si aggrovigliava, ma non avrei voluto
essere in nessun altro posto se non lì.
«Aaron...»
lo soffiò appena il mio nome, come se in fondo temesse di
pronunciarlo e di scoprire che fosse solo un sogno; come se il
pronunciare quelle lettere potesse farmi sfumare via di nuovo lontano
da lei, e mai come allora mi sentii la merda più colossale del
pianeta. Il bastardo che avevo per cuore poi, pensò bene di
torturarmi con una bella fitta da togliere il fiato, e abbastanza
dolorosa da ricordarmi quanto mi era mancato sentirmi chiamare dalla
sua voce.
«Così
dicono» provai a scherzare, condendo il tutto con una sottospecie di
sorriso, ma quello che andò a formarsi sulle mie labbra, fu qualcosa
di molto più simile a una strana smorfia di stizza.
Lei
però sembrò intuire il mio pietoso tentativo e colse la palla al
balzo. In fondo era sempre stata la migliore nell’interpretare il
“mondo di Aaron”.
«È
appena esplosa una bomba a Londra e ancora non lo so?» mi chiese
difatti, e il sarcasmo nella sua voce, seppur incerta, riuscì a
strapparmi un sbuffo divertito davvero sincero.
«Qualcosa
del genere.»
«Sei
completamente fradicio. Entra» mi disse, scostandosi su un lato per
lasciarmi passare. «Ma... non hai niente con te?»
Mi
limitai a fare un cenno di negazione un po’ incerto, troppo
impegnato a guardarmi intorno per prestarle davvero attenzione. In
tutti gli anni che mi ero ritrovato nei pressi di quella casa o
semplicemente l’avevo pensata, mi ero sempre chiesto come potesse
essere; mi domandavo se anche tra quelle mura potesse esserci posto
per il ricordo della famiglia che eravamo stati un tempo.
«Ti
vado a prendere qualcosa di asciutto da indossare» parlò ancora
lei, avviandosi nuovamente verso le scale. Solo quando riuscii a
distogliermi dai miei pensieri ed elaborare la frase le rivolsi una
strana occhiata, mentre dentro di me si facevano strada paura e una
malata, vecchia gelosia.
«Qualcosa
di chi?» le domandai immediatamente, sputando quelle parole
con fin troppo, incontrollato veleno nella voce. La vidi fermarsi e
fissarmi sorpresa e perplessa per un attimo, poi piegò le labbra in
un piccolo sorriso.
«Di
tuo padre, Aaron. Ho ancora un po’ della sua roba» rispose, con un
tono dolce come una delicata carezza, e io mi sentii di nuovo un
perfetto coglione. Non solo le ero piombato in casa all’improvviso
e a un orario improponibile, ma mi permettevo di metterla
immediatamente sotto inquisizione, dopo anni in cui quasi non ci
eravamo rivolti uno straccio di parola. Fantastico!
«Mh»
mugugnai allora, incapace anche di chiederle apertamente scusa ma,
come c’era da aspettarsi, riuscì a leggere in quel suono
inarticolato ciò che avrei voluto dirle e si limitò a salire le
scale.
Nell’attesa
ripresi a guardarmi intorno, riconoscendo qualcosa qua e là,
appartenuto alla nostra vecchia casa.
C’era
una coperta a quadri colorati, ordinatamente ripiegata e posata sul
divano, che era stata prima di Brian, poi mia. Quando eravamo
piccoli, avevamo entrambi il pessimo vizio di addormentarci ovunque,
tranne che nei rispettivi letti. Per questo mia madre aveva
confezionato quella cosa di
lana pesante e con quella ci avvolgeva d’inverno,
per non lasciarci prendere freddo mentre ronfavamo allegramente in
qualche angolo della casa.
Sorrisi
a uno dei tanti ricordi legati a quella coperta ormai un po’
consunta e scolorita e proseguii la mia “ispezione” verso il
tavolino rotondo di legno scuro, posto lì accanto e colmo di cornici
d’argento.
Una
parte di me probabilmente sapeva a cosa sarei andato incontro nel
momento in cui avrei posato lo sguardo su quelle foto, e sapeva anche
quanto mi avrebbe fatto male vederle, ma nonostante tutto non riuscii
a farne a meno.
Ce
n’era
una in bianco e nero che ritraeva lei e i suoi genitori, gli unici
nonni che avevo conosciuto. Accanto, in una cornice più grande, io e
Brian facevamo sfoggio di due stupide smorfie, mentre in un’altra
ancora, mamma era riuscita ad immortalarci in uno strano momento di
pace, in cui non eravamo impegnati a darcele di santa ragione o a
combinarne qualcuna.
Vedere
quelle foto mi aveva ricordato che c’era
stato un tempo – molto poco
tempo – in cui anche Brian non era stato proprio uno stinco di
santo. Per un piccolissimo periodo anche lui aveva tirato fuori il
suo teppistico lato Dunham... già, peccato che poi era stato
risucchiato dalla parte del nemico.
Lui
e i suoi dannatissimi libri.
«Credo
quella sia l’unica
foto decente che ho di te e tuo fratello» esordì mamma, quasi
facendomi sobbalzare per lo spavento. Ero così impegnato a ricordare
quei vecchi momenti che neanche l’avevo
sentita arrivare, «bella eh?»
Mi
sforzai di sorridere, sollevando appena uno degli angoli della bocca,
e presi la cornice incriminata per guardarla meglio. «Eravamo sempre
troppo impegnati a prenderci a sberle e morsi per fare i seri.»
«No,
tu eri sempre troppo
impegnato a prendere a sberle e morsi tuo fratello» rettificò,
aggrottando la fronte. «Lui sopportava stoicamente e solo ogni tanto
si lasciava scappare la pazienza.»
«Era
uno stronzo. Non voleva mai giocare.»
«È
più grande di te. Aveva il suo da fare.»
Riposai
la cornice al suo posto e fissai gli occhi sul muro, troppo stranito
e imbarazzato per riuscire a guardarla in faccia. «Sì, un sacco di
cose noiose» borbottai poi e la sentii ridacchiare.
«Non
glielo perdonerai mai, di non averti seguito in ogni tua
stupidaggine, vero?»
Infilai
le mani in tasca, un po’ nervoso, e le rivolsi una velocissima
occhiata. Dovevo sembrare proprio un bell’idiota con qualcosa
ficcato su per il culo, per quanto ero rigido. Se mi avessero visto
Chris e Nathan, o peggio, Andy e Ted, avrebbero finito di sfottermi
solo quando sarei crepato. Forse.
Spostai
il peso da un piede all’altro e mi schiarii la voce, così da
fingere un’espressione indispettita. In fondo mi mancava scherzare
con lei. «Erano ‘piani di conquista’, non stupidaggini.»
«Ah,
pardon!» ribatté immediatamente, quasi temesse che quel poco
di confidenza che le stavo finalmente lasciando svanisse troppo
presto. «I tuoi ‘piani di conquista’... e magari, un giorno, mi
spiegherai anche la conquista di cosa?»
«Un
giorno» replicai vago, ma come potevo dirle che già da quando mi
credeva ancora un bimbetto più o meno innocente, io sognavo di
diventare il “Re di tutte le firm”?
Con
cognizione di causa poi, riuscii a capire perché quando lo svelai
orgoglioso a mio padre, lui mi pregò di non farlo mai
e poi mai sapere a
mamma. Ci avrebbe rimesso sicuramente le palle.
«Tieni,
cambiati» mi disse, porgendomi dei vestiti che riconobbi
immediatamente. C’erano i pantaloni grigi di una tuta, una
semplicissima t-shirt bianca e un maglione di lana pesante: tutte
cose appartenenti al mio vecchio e che tante volte gli avevo visto
indosso. «Dovrebbero starti bene. Ormai sei un gigante come lui.»
Presi
tutto con un po’ d’incertezza. Temevo che le mie stesse mani mi
avrebbero tradito mettendosi a tremare come ossesse. «Stai per caso
cercando di ricordarmi che gli rubavo le cose?»
«Quali
cose?» rispose abbozzando un sorriso ironico, e con quello ebbi
conferma del fatto che si ricordasse ancora di quanto amavo rendermi
ridicolo davanti a tutta la famiglia, rubando e indossando cose di
papà, pur di costringere tutti ad ammettere che ero cresciuto.
Avevo
una vera e propria mania. Volevo diventare grande a tutti costi, per
somigliare al mio vecchio... e se solo avessi saputo, forse non
l’avrei più desiderato tanto.
Alla
fine ce l’avevo fatta a “diventare grande” quanto lui. Peccato che non ci fosse per potermi vedere...
«Su,
dai. Cambiati» mi incitò mamma, e non le dissi mai quanto le fui
grato in quel momento per aver interrotto quel fiume di pensieri
tristi e nostalgia. «Il bagno è da quella parte e lascia pure i
tuoi vestiti lì. Ci penso io dopo a lavarli.»
«Non
importa, basta che si asciughino.»
«Vuoi
che ti prepari qualcosa per colazione?» domandò subito dopo,
praticamente ignorandomi. Si stava agitando davvero troppo. «Oppure
preferisci dormire e mangiare qualcosa più tardi? Puoi andare su
e...»
«Mamma,
spegniti» la bloccai. Qualche altro secondo del suo ansioso
farfugliare e ne sarei uscito scemo. «È presto. Torna pure a
dormire. Io mi cambio e prometto di non distruggere niente.»
«Ma
tranquillo, non ho sonno.»
«Non
volevo piombarti così in casa.»
Lei
sorrise dolcemente e per un attimo quegli occhi così scuri
s’inumidirono. «Aaron, non ti dico che questa è casa tua, perché
non è neanche casa mia e pago un affitto che poco si discosta da un
furto ma... ecco sì, non hai bisogno di scusarti.»
«Pensavo
mi avresti rispedito dal generale Brian a calci» le confessai
allora, sforzandomi di essere un po’ più rilassato e naturale. In
fondo era mia madre, ero nato da lei e mi aveva sopportato per nove
lunghissimi mesi dentro di sé, eppure era tutto così difficile.
Sciogliere quel velo di gelo che si era adagiato sul nostro legame
era un vero tormento.
«No,
ma lo farò se non alzi immediatamente quella cornetta e gli fai una
telefonata.»
La
mia fronte si aggrottò in una finta espressione di offeso
sconcerto. «Chi ti dice che non l’abbia già fatto?»
«Ma
per favore!» esclamò lei, ridendo apertamente. «Vado a vestirmi,
tu intanto avverti Brian e poi fatti una doccia se vuoi.»
«Agli
ordini» replicai con poca convinzione e, mentre il suono dei suoi
passi si faceva sempre più lontano, presi a fissare
con altrettanto scetticismo la cornetta del telefono.
Era
ancora l’alba e mio fratello era abituato ad aspettare i miei
rientri anche per il giorno successivo, a mattino ormai inoltrato,
eppure in quell’occasione non riuscivo a grattarmi via di dosso il
senso di colpa e a fregarmene.
Solitamente
tutto scivolava giù sulla mia pelle, a volte senza neanche arrivare
a sfiorarmi. Quel giorno invece, era tutto ancora lì. Quella
sensazione mi aveva avvolto in una nebbiosa e insistente presa che
mi bloccava e, per la prima volta, m’impediva di chiudere gli occhi
e lasciar svanire tutto intorno a me.
Era
come se, per una volta tanto nella vita, fossi diventato
improvvisamente cosciente del male che ero in grado di provocare; di
come potevo colpire le persone dentro e lasciare lividi e segni
invisibili come quelli delle botte racimolate durante le risse, ma
ben più dolorosi.
Io
ero stato ferito di nuovo, dopo tanto tempo, e dal copioso
fuoriuscire del mio tormento da quello squarcio, ero finalmente
riuscito a scorgere e comprendere quanto ne avevo fatto a mio
fratello.
Quello
strazio che partiva dalla bocca dello stomaco e risaliva su per la
gola a stringersi e schiacciarmi il respiro, fino a stridere e
ronzare nelle orecchie. Quel malessere opprimente che mi fotteva la
testa, mi aveva aiutato a comprendere la preoccupazione che ogni
volta affliggeva Brian, ma mi lasciava vergognare al punto di non
riuscire a muovere un dito per sollevare quella dannata cornetta e
fare una semplice telefonata. Così, tanto per rassicurarlo che,
purtroppo per la sua imminente ulcera, ero ancora vivo.
E
poi che dire?
Che
ero scappato perché ero un emerito deficiente con il terrore di
provare a contare troppo sugli altri? O peggio, che me la facevo
semplicemente sotto al solo pensiero di lasciar passare qualcuno
oltre la mia ostinata corazza, perché non avrei avuto il coraggio di
guardarmi poi allo specchio, nell’eventualità che questa persona
potesse andarsene come papà, e mi abbandonasse a tirare quei fili
che tenevano insieme il mio corpo per non sgretolarmi di nuovo.
Che
non volevo mettere da parte il mio egoismo, che non volevo smettere
di pensare solo a me stesso e fregarmene di tutto il resto, perché
credevo che se mi fossi davvero concesso una semplice, evidente
preoccupazione verso qualcun altro, poi mi avrebbe inghiottito per
sempre.
Che
non sapevo neanche da che parte cominciare e mi sentivo smarrito? Che
non volevo neanche sentir parlare di quelle cazzate sull’amore,
sentimento che, per altro, riuscivo a vedere solo come un fottuto
parassita che ti attaccava ed annebbiava il cervello?
Non
c’era traccia di paura o insicurezza dentro di me quando si
trattava di alzare le mani e prendere a calci in culo quei bastardi.
Era facile chiudere a chiave la coscienza in qualche angolo remoto e
muoversi guidato solo dagli istinti. Era semplice finché questa se
ne stava lì buona, addormentata in un lungo sonno; lo era stato per
dieci lunghi anni, finché non era arrivata quella cocciuta, patetica
ragazzina vuota che, contrariamente a me, assorbiva ogni emozione
come una spugna da quando si era finalmente liberata dal controllo
degli altri, arrivando a Londra.
Guardava
tutto con sorpresa. Muoveva quegli occhi scuri con troppa curiosità;
così tanta che non riusciva neanche a nasconderla e trattenersi per
rispettare tutte le moralistiche stronzate con cui le avevano
riempito la testa, durante l’intero tragitto percorso prima di
arrivare da me, già accuratamente prestabilito da qualcun altro.
Mi
osservava con l’aria supponente di chi pensa di sapere tutto e
vacillava con un niente, per poi colpirmi a tradimento e insinuarsi
sotto la pelle e infettarmi il sangue con la sua presenza e quel suo
ostinato desiderio di capirmi e di volermi curare.
Mi
ero lasciato fregare come un fesso e poi?
E
poi me ne stavo lì a fissare il telefono senza riuscire a far
niente; senza avere il coraggio d’agire perché l’istinto mi
suggeriva di scappare per salvarmi dalla mia egoistica quotidianità,
sconvolta da un volo arrivato dall’America.
Ecco
perché alla fine dei conti decisi di non comporre quel numero e di
lasciare l’ennesimo fardello a mia madre.
Ero
scappato fin lì proprio perché necessitavo di allontanarmi dalla
realtà presente nella mia cara, vecchia Londra, ormai troppo
saldamente intricata perché io potessi accettarla e capirla.
Per
un attimo la strada di casa mi era sembrata fin troppo stretta; per
un attimo, ogni cosa si era sgretolata e sembrava avere l’intenzione
di cadermi addosso e seppellirmi sotto il peso delle macerie dei muri
di convinzioni che, anno dopo anno, avevo saldamente costruito.
Mattoni fatti di ostinazione e credenze, spazzate via come se nulla
fosse, da una semplice frase e dall’abbraccio insicuro di una
ragazzina dentro l’abitacolo di una macchina.
Ero
scappato fin lì alla ricerca di un posto dove poter ricominciare a
respirare con tranquillità, senza l’oppressione che all’improvviso
era andata a schiacciarmi il petto, e l’unica cosa a cui volevo
davvero pensare era me stesso e a ciò che avevo lasciato nella
strada percorsa alle mie spalle; a quel passato che comunque
continuava a restare ancorato alla mia ombra.
«Non
l’hai ancora chiamato, vero?» la voce di mia madre mi sorprese di
nuovo. Mi voltai a osservarla con aria incerta, consapevole del
fatto che mentirle sarebbe stato totalmente inutile.
«No»
replicai quindi, «non ancora. Non...»
«Lo
immaginavo» sospirò interrompendomi, per poi indicarmi le scale con
un cenno della testa. «Il bagno è di sopra, se vuoi farti una
doccia. Riposati e a Brian per questa volta ci penso io.»
Arricciai
le labbra e abbozzai un sorriso, strofinandomi distrattamente i
capelli.
Mi
sentivo strano e inadeguato, imbarazzato come non ero mai stato
prima, eppure, in fondo a quel senso di disagio, potevo assaporare
ancora il calore che, da sempre, la presenza di mamma mi aveva acceso
dentro.
Sospettavo
che non si fosse mai spento, ma che fosse rimasto lì, in attesa,
sotto quintali di bugie che mi ero raccontato per non ammettere la
sua mancanza e sotto la forza con cui avevo continuato ad affossarlo
e reprimerlo, credendo stupidamente di fare il bene di chissà chi.
«Grazie»
mugugnai poi, soffiando quella parola tra le labbra appena schiuse,
così piano che non avrei scommesso fosse stato udibile, se solo
lei
non mi avesse regalato un piccolo, prezioso sorriso in risposta.
«Vado a farmi una doccia, allora...»
«Certo.
Certo, vai. Ci vediamo dopo.»
Annuii
appena e presi a salire le scale lentamente, come se tutte le energie
mi fossero state improvvisamente rubate. Varcai la soglia del bagno
e, chiudendomi la porta alle spalle, mi soffermai ad osservare il
mobilio candido, perfettamente pulito e in ordine, e le mattonelle a
muro pastello: tutto decisamente troppo simile a com’era nei
ricordi legati alla mia infanzia.
Respirai
a fondo e mi spogliai velocemente dei miei vestiti ancora umidi,
abbandonandoli in un angolo per lasciarmi cullare e accarezzare dal
getto della doccia. Chiusi gli occhi e, per un solo istante, la mia
mente costruì l’immagine di Elle, ferma sul vialetto di casa con
quell’espressione costernata che le avrei strappato volentieri
dalla faccia ma che, alla fine dei conti, non avevo neanche avuto il
coraggio di affrontare.
Non
ce l’avevo fatta a dire niente, né ad ascoltare ancora la sua
voce. Non ero riuscito a guardarla un’altra volta, accecato dalla
rabbia e dalla delusione.
Non
volevo neanche pensare all’idea di dover tornare a casa...
Mi
stropicciai la faccia con forza premendo i palmi sulle palpebre,
sperando così di poter cancellare quei frammenti di ricordi ben
impressi dietro i miei occhi e che, ogni tanto, pensavano bene di
tornare a bussare alla mia coscienza già abbastanza martoriata.
Qualche
altro minuto trascorso a fissare il vuoto e a bearmi dello scroscio
d’acqua che scorreva sulla mia pelle, e finalmente mi decisi ad
uscire da quel precario rifugio. Mi asciugai velocemente e restai per
un po’ a fissare i vestiti puliti, appesi alla maniglia della
finestra, che aspettavano di essere indossati.
Di
nuovo la mente venne invasa da ricordi. Più sbiaditi e confusi,
senza un vero filo logico, ma comunque capaci di scavarmi dentro, tra
le costole, fino a raggiungere cuore e polmoni; a ferire ad ogni
battito e a rendermi il respiro pesante, come se l’ossigeno fosse
improvvisamente scomparso da quella stanza.
Scossi
la testa e mi vestii trattenendo il fiato, temendo stupidamente che
qualche vecchia particella dell’odore di mio padre, sopravvissuta
al tempo, potesse insinuarsi nelle narici e fottermi ancora il
cervello. Quello con cui però non avevo fatto i conti, e che mi
avrebbe davvero ridotto ad uno straccio, era l’immagine che avrei
trovato allo specchio una volta riaperti gli occhi e gettato uno
sguardo al mio riflesso.
Un
pugno alla bocca dello stomaco probabilmente mi avrebbe fatto meno
male. Un calcio sferrato in faccia avrebbe bruciato meno di quelle
odiose lacrime che erano tornate a spingere ai bordi delle palpebre.
Essere
pressoché identico a Bill era sempre stato prima il mio orgoglio,
poi la mia croce. Gli somigliavo davvero troppo, in modo inquietante. Tanto da spaventare perfino me stesso e da far muovere una
delle mie mani verso lo specchio per posare le dita sul volto
riproposto da quella superficie liscia e fredda, e lasciare che i
miei occhi cancellassero quei pochi, insignificanti particolari che
ci distinguevano l’uno dall’altro, prima di ridisegnare con la
mente la sua immagine.
Faceva
male, ma una volta varcata la soglia di quella parte di memoria; una
volta permesso a quei ricordi perennemente sigillati di risalire dal
fondo, diventava come una droga e non riuscivo a farne a meno, né a
fermarmi.
Essere
cullato dal suo ricordo diventava una necessità, un bisogno a cui
non riuscivo più a dire di no, e le sequenze di vecchie immagini si
ripetevano, sempre più particolareggiate, man mano che un dettaglio
in più veniva rispolverato...
Era
una mattina come un’altra d’inverno.
Una
delle tante in cui me ne stavo a giocare sul pavimento, inventando
mondi e storie, mentre Brian sopportava il mio gattonare a destra e a
manca, cercando di concentrarsi sui suoi noiosissimi compiti.
Il
portone di casa poi era stato aperto e quella
voce profonda aveva dapprima salutato il primogenito di casa Dunham,
poi, dopo qualche secondo di silenzio probabilmente trascorso a
controllare che non mi stessi nascondendo dietro le tende, il divano
o qualche mobile, aveva pronunciato il mio nome: «Aaron.
Aaron, dove sei?»
Abbandonare
immediatamente ogni cosa – qualsiasi cosa fosse – e correre nella
direzione in cui le mie orecchie l’avevano percepita, non era mai
stato un sacrificio. Era uno dei momenti più belli della giornata
quando papà rientrava in casa, perché sapevo che, anche se era così
stanco da rischiare di addormentarsi in piedi, o dolorante e
letteralmente a pezzi, trovava sempre un po’ di tempo per giocare
con me.
Una
corsa veloce, con quelle gambe all’epoca così corte e magre e
perennemente segnate da qualche graffio o sbucciatura sulle
ginocchia, e con un sorriso sulle labbra gli andavo incontro,
spalancavo le braccia e terminavo il mio tragitto gettandomi tra le
sue.
«Eccolo
qua il mio campione!»
Era
così che mi chiamava: campione, il suo campione.
Mi
prendeva in braccio e mi scompigliava i capelli. A volte poi mi dava
un buffetto sul naso o anche un bacio sulla fronte, ma quello che non
mancava mai di rivolgermi era un sorriso: uno speciale che
sembrava dedicare solo e soltanto a me.
«Papà,
credo che la mamma sia un po’ arrabbiata con te»
glielo sussurrai come se fosse un segreto, avvicinandomi con
complicità al suo orecchio.
Lui aveva arricciato le labbra e finto una buffa espressione di stizza.
«Davvero? E dov’è?»
«Da
Sarah.»
«Oh
fantastico...» era stato il suo commento, e la sua faccia non era poi più tanto divertita e ironica.
«Aaron, ricordati sempre una cosa: quando due donne si
coalizzano, non pensarci due volte, scappa.»
«Si
coa... che?»
«Coalizzano»
replicò, ridacchiando
probabilmente della mia smorfia stranita. «Vuol dire che
stanno dalla stessa parte.»
«Ma
tu dici sempre che non si deve mai scappare! Che i veri uomini non
scappano!»
«Dalle
donne sì, fidati del tuo vecchio» rispose
lui, tornando a sussurrare con aria complice, nel momento in cui
sentì il portone di casa aprirsi e richiudersi con poca grazia.
«Specie quando sono arrabbiate.»
Col
senno di poi riuscii anche a capire il perché di quelle sue parole:
quando Sarah e mamma si ritrovavano in gruppo con le altre mogli e
fidanzate dei componenti della firm, o stavano organizzando qualche
cena o festa, per cui c’era
sempre da strofinarsi le mani con l’acquolina
già in bocca, o c’era
da aver paura, perché sarebbero stati davvero cazzi amari per
tutti... e in quell’occasione,
be’...
non poteva essere che la seconda.
Papà
sospirò, con la mente già alla ricerca di qualche stupida scusa che
tanto non avrebbe retto, e che molto probabilmente l’avrebbe
portato ad un incontro ravvicinato con una padella, un posacenere o
un qualsiasi altro oggetto contundente che mamma avrebbe trovato a
portata di mano.
La
cosa assurda poi, era che nei loro litigi riuscivano ad essere sempre
tremendamente comici: mamma urlava e lui subiva a testa bassa,
tentando ogni tanto di rivolgerle un sorriso per ottenere un perdono
facile che, tanto, non sarebbe mai arrivato.
Mia
madre era sempre stata un tipino orgoglioso. Gliele faceva pagare per
giorni, tenendogli il muso e quasi ringhiando ogni volta che lui
provava ad avvicinarsi per abbracciarla.
Un
paio di volte l’aveva
perfino spedito a dormire sul divano – più di un paio, a dire il
vero – e quelle erano le mie occasioni preferite, non perché mi
piacesse vederli litigare, ma perché papà sapeva cogliere sempre il
lato divertente delle situazioni e trasformava quello “sfratto”
dal letto coniugale in un gioco.
Fingevamo
di essere in un improvvisato campeggio e montava per me una
sottospecie di tenda con l’ausilio
del divano, di una vecchia coperta e delle sedie. C’infilavamo
dentro con i sacchi a pelo e i cuscini e ce ne stavamo lì per ore a
giocare, prima di convincermi ad addormentarmi.
Qualche
volta riuscivamo a coinvolgere anche quella barba umana di mio
fratello e in quelle occasioni mi sentivo anche più felice, perché
ero sicuro che presto anche mamma ci avrebbe raggiunti, un po’
per gelosia e un po’
perché non voleva perdersi quei momenti nonostante fosse ancora
arrabbiata.
Negli
anni poi, avevo capito che questo serviva a farle scemare la rabbia e
a rendere più veloci le riappacificazioni, perciò inventavo sempre
qualche cosa che potesse unirci tutti e quattro insieme. E anche
Brian l’aveva
capito – più per il fatto che già all’epoca
era difficile nascondergli qualche mia intenzione che per altro – e
non sbuffava più neanche, ogni volta che gli chiedevo aiuto.
Comunque
fosse, in quei casi, i rientri di mamma erano sempre la parte tragica
della “storia”, tanto che, durante l’adolescenza,
io e Brian ci divertivamo a canticchiare i motivetti di un qualche
film horror di pessima categoria.
Sul
volto di mio padre invece, si formava sempre un sorriso tirato, da
paraculo di dimensioni cosmiche qual
era, che alla fine dei conti
non serviva proprio a niente – se non a farla incazzare più di
quanto già non fosse – ma che era diventato ormai una specie di
tic nervoso.
Anche
quella volta le sue labbra non mancarono di piegarsi e, mentre si
voltava per affrontare il suo ingresso in casa, lo sentii borbottare
frasi incomprensibili.
Probabilmente
stava pregando un Dio in cui non credeva, perché gli risparmiasse
ancora la vita e ciò che c’era
di prezioso tra le sue gambe.
«Ma
bene! Guardate un po’ chi è tornato!»
esclamò mamma, scrutandoci attentamente con quegli occhioni troppo
scuri. Sapevo di non aver combinato niente per cui essere
rimproverato, ma quando fissava qualcuno così metteva sempre una
gran stizza. «Hai idea di che ore sono?!»
«Ciao
tesoro» le rispose mio padre, e
quando lo vidi rinnovare il proprio sorriso a quello strano saluto,
decisi di imitarlo perfettamente, convinto che forse in quel modo
sarei riuscito a salvarmi dalla sua furia.
«Ciao
mammy.»
Povero
ingenuo.
«Oh
no, no!» ringhiò quasi lei,
mentre un’espressione
esasperata andava a disegnarsi sul suo bel viso. «Non
pensare di cavartela con un sorriso di quella faccia da schiaffi e
tu...» proseguì, indicandomi e
facendomi sobbalzare, «... vedi di non somigliare a tuo
padre!»
Papà
si avvicinò un poco a me, con circospezione, e sussurrò:
«Vedi Aaron... questi
sarebbero i momenti da cui dovresti scappare.»
«Ehi,
cosa state confabulando voi due?»
«Niente!»
risposi di rimando, aggrappandomi alla maglia del mio vecchio – la
stessa che poi mamma mi avrebbe dato da indossare – già
aspettandomi il peggio, ma lei, contro ogni mia previsione, si limitò
a sospirare sconsolata e a protendere le braccia verso di me per
invitarmi a raggiungerla.
«Vieni
dalla mamma tu, prima che ti trasformi in un bastar... ehm... un
mascalzone, come quell’essere immondo che ti ritrovi come padre.»
Poco
convinto e temendo il peggio, mi ero fatto comunque coraggio e mi ero
allungato verso il suo collo. Lei mi aveva stampato un soffice bacio
sulla guancia, che avevo prontamente pulito con un’espressione
disgustata, più falsa che mai; pensando stupidamente che potesse
servire a farmi sembrare più uomo e adulto, quando la realtà era
che, le coccole e le attenzioni di mamma, mi scioglievano dentro.
Senza
poi aggiungere né una parola, né uno sguardo per mio padre, aveva
salutato Brian e mi aveva portato con sé, nella mia stanza.
«Non
hai sonno?» mi aveva chiesto dopo, riferendosi al fatto che era
ancora presto per me, per alzarmi, e che la notte precedente non
avevo dormito granché. In fondo era sempre così: quando mio padre
non era in casa, abbandonarmi al sonno era difficile.
Avevo
negato prontamente con la testa, ma il tremendo bruciore negli occhi
e un piccolo sbadiglio mal celato avevano raccontato la verità.
Mamma allora mi aveva sorriso e mi aveva adagiato sul letto, con un
immancabile bacio sulla fronte.
«Mammy»
l’avevo
chiamata incerto, rannicchiandomi contro il cuscino.
«Che
c’è amore?»
Mi
ero mordicchiato le labbra, provando a soppesare la situazione, poi
mi ero fatto coraggio e avevo borbottato: «Non sei più
arrabbiata con papà, vero?»
«No,
tesoro» rispose con quel
suo classico sospiro rassegnato, avvicinandosi in seguito a posare la
sua fronte contro la mia e a sfiorarmi la punta del naso con
l’indice.
Era rimasta per un po’
in silenzio a fissarmi, poi aveva sussurrato: «Aaron, me
lo fai un favore? Non crescere. Resta sempre l’amore della mamma.»
Sentire
quelle parole era stato strano. Per un attimo mi era lampeggiato
nella testa che con gli anni lei avrebbe potuto smettere di volermi
bene. «Perché? Se divento grande come papà non lo sono
più?»
«Certo
che sì...» aveva sorriso e un
altro dolce bacio era stato posato sulla mia fronte, poi aveva
mormorato: «... il problema è che diventerai uno stronzo
come tuo padre e... oddio, cancella quello che ti ho detto!»
Si
era infine sollevata dal letto ridacchiando e mi aveva sfiorato la
testa con una carezza.
Aveva
un’espressione strana quella mattina, definita da una strana
malinconia. Mi guardava come se già le mancassero i momenti appena
vissuti e quasi temesse sempre di più ogni naturale passo verso il
futuro.
Forse
era il suo “spirito di mamma” o qualche stronzata del genere a
renderla così sensibile ma, da quel momento in poi,
quell’espressione nostalgica non l’aveva più abbandonata.
Spesso
negli anni mi sono trovato a chiedermi se lei in fondo, in qualche
modo, già sapesse come sarebbero andate a finire le cose. Come non
sarebbe mai stata in grado di fermare la malattia che avrebbe portato
via papà, né la sua “eredità” con la firm, che l’avrebbe
allontanata da me; come la nostra famiglia si sarebbe sfaldata negli
anni, fino a non rimanere altro che un ammasso confuso di vecchi
ricordi.
Lei
sembrava comprendere sempre tutto con una semplice occhiata – così
come poi avrebbe fatto anche Brian – e probabilmente era stata
quello il propulsore della sua forza per riuscire ad andare avanti
ogni volta, anche quando il mondo le crollava ripetutamente addosso e
tutto quello in cui aveva sperato la tradiva, spariva o le si
ritorceva improvvisamente contro.
Papà
era il pazzo scatenato, il picchiatore, “la bestia”, l’eroe di
tutta la firm... ma il più forte tra i due era sempre stata lei...
già, perché c’era una bella differenza tra l’essere un folle e
non aver paura – come me, come mio padre – e l’avere un gran
coraggio.
E
Anne ne aveva abbastanza, per tutti quanti...
Gettai
un ultimo e veloce sguardo allo specchio, ricevendo in risposta
quella stessa e ormai familiare botta all’altezza dello stomaco,
che probabilmente mi avrebbe fatto compagnia per il resto dei miei
giorni e, senza riuscire a trattenere un sospiro un po’ scocciato,
uscii dal bagno e scesi le scale per tornare in soggiorno.
Mi
sedetti sul divano, distendendo le gambe per sgranchirle un po’, e
ripresi a guardarmi intorno con l’aria un po’ smarrita.
Quel
posto ovviamente mi era completamente sconosciuto, se non per qualche
vecchio oggetto appartenuto alla nostra famiglia, eppure aveva
qualcosa di familiare.
In
realtà, la cosa davvero strana era che, nonostante fosse a ore di
viaggio dalla mia Londra, aveva lo stesso odore di casa.
C’era
lo stesso profumo ad aleggiare nell’aria; lo stesso che ero
abituato a percepire da bambino e che ancora potevo respirare a pieni
polmoni quando mi gettavo a peso morto sul divano, quando entravo in
cucina o anche nella stanza di Brian ed Emma, ricolma di ricordi e di
oggetti un tempo appartenuti ai miei genitori.
Era
lei, mamma. Quel profumo era parte di lei... e solo
allora capii che ovunque fossi, se avessi condiviso quel posto con
mia madre, mi sarei sempre sentito a casa.
Sorrisi
appena a quel pensiero, percependo la sua presenza poco distante, nel
suo rumoroso trafficare con chissà che cosa. Scossi appena la testa
e per un breve istante mi sentii ancora quel moccioso petulante che
le stava sempre tra i piedi, che amava alla follia suo padre e che lo
ammirava come nessun altro, ma che al contempo non riusciva a
sentirsi più al sicuro che tra le braccia di sua madre, immerso nel
suo odore.
Mi
distesi sul divano e mi rannicchiai cercando di coprimi al meglio con
quella vecchia coperta, ormai decisamente troppo corta per le mie
dimensioni. Lanciai un’ultima occhiata nella direzione da cui
sentivo provenire quei suoni, testimoni della presenza di Anne e, con
uno strano calore dentro, chiusi gli occhi e mi addormentai
immediatamente, riscaldato da quella tranquillità che da troppo
tempo non mi apparteneva più.
Qualche
ora più tardi ci misi un bel po’ prima di realizzare dove fossi.
Aprii
lentamente gli occhi sbattendo più volte le palpebre per mettere a
fuoco la stanza e, spostando lo sguardo da una parte all’altra tra
quelle mura pressoché sconosciute, riuscii finalmente a scorgere mia
madre.
La
sua voce era scivolata nella mia mente durante il sonno, facendomi
risalire da quel pozzo di ricordi e riportandomi lentamente alla
realtà, ben lontana e diversa da quella dei miei sogni. Era stato il
suono delle sue parole e il suo profumo, che sembrava aver
inghiottito qualsiasi cosa in quella casa, ad aiutarmi a rimettere
insieme i pezzi degli ultimi avvenimenti.
Mi
stropicciai gli occhi lentamente, per poi passarmi le mani tra i
capelli e gettarmi alla disperata ricerca della forza per alzarmi dal
quel divano e di abbandonare il dolce tepore di quella vecchia
coperta.
Sbadigliai
più volte e mi girai su un fianco, nella vana convinzione che, se
avessi messo lentamente fuori una gamba dal quel caldo abbraccio di
lana, avrei accettato con più dignità la separazione da quei
morbidi cuscini.
Niente
di più sbagliato.
Riuscii
a malapena a sfiorare il pavimento con i piedi scalzi, che mi
raggomitolai con un guizzo, ben convinto a restare nel mio bozzolo.
Se solo qualche particolare soggetto della firm mi avesse
visto in quel momento, probabilmente avrei avuto risatine di
derisione a ronzarmi nelle orecchie per il resto della mia rovinata
esistenza.
Uno
strano mugolio frustrato fuoriuscì dalle mie labbra nel momento in
cui lo stomaco innalzò la propria protesta per esser stato
abbandonato a se stesso, ma ben presto mi dimenticai di quel piccolo
inconveniente, quando la voce di mia madre pronunciò un nome
preciso: quello dell’altro suo figlio, capace di farmi rabbrividire
anche a quella distanza al solo pensiero di ciò che mi avrebbe fatto
quando – e se – mi sarei ripresentato a casa.
Non
che temessi ripercussioni fisiche. Brian non era il tipo, e a parte
qualche sporadico schiaffo ben assestato e – sì, lo ammetto –
meritato, non era mai stato in grado di menare le mani. A differenza
mia, lui aveva sempre preferito risolvere le situazioni
scartabellando vecchi fogli in tribunale, e comunque l’impronta
perfetta delle sue cinque dita sulla mia faccia non mi aveva mai
fatto poi così male. Ero abituato a ben altro e c’era più una
questione di orgoglio ferito e fastidio a farmi rosicare dentro.
Non
potevo reagire contro di lui. Non avrei mai rifilato un vero pugno a
mio fratello.
Lasciargli
sfogare la rabbia e i suoi istinti su di me, senza possibilità di
replica e reprimendo la mia indole, era il mio modo per chiedergli
scusa per ciò che ero e per ciò che non potevo fare a meno di
essere.
Brian
poi, nonostante non reagissi, si era totalmente convinto che non
l’avessi mai ascoltato durante le sue ramanzine; il che
tecnicamente non era poi lontano dalla verità.
In
realtà l’avevo ascoltato le prime volte, solo che alla fine avevo
sempre scelto di seguire la mia testa e lui, per contro, non si era
mai voluto arrendere. Il tutto era finito con le stesse grida, gli
stessi noiosi discorsi sulla mia mancata responsabilità, sul mio non
voler crescere e non voler seguire una strada vera. Tutte cose che
comunque avevo sentito fino alla nausea e che avrei potuto ripetergli
parola per parola, virgola dopo virgola. Tutte cose che, in
definitiva, non avevo alcuna voglia di mettere in pratica.
No,
non erano né gli schiaffi né le sue urla a preoccuparmi, piuttosto
il suo sguardo, il suo modo di guardarmi e giudicarsi attraverso la
mia immagine.
In
fondo mi ero sempre divertito ad essere la sua piccola macchia nera
sulla sua vita perfetta. Mi piaceva essere il suo piccolo e
impertinente muro che non riusciva mai ad abbattere e contro cui non
riusciva a vincere, ma tutto quel battibeccare restava “bello”
finché riuscivo a scorgere nei suoi modi di fare quella tipica
grinta e ostinazione intrinseca nel sangue dei Dunham, e che Brian
era riuscito ad incanalare in altro che non fossero le risse.
Gli
anni di continue battaglie contro di me però, probabilmente erano
arrivati a sfinirlo e stava iniziando ad arrendersi sempre di più; a
rendersi colpevole per ciò che ero diventato, per non essere
riuscito ad evitarlo e a soffrirne.
In
poche parole, anche Brian stava diventando come mamma, e ogni giorno
di più, ogni volta in cui tornavo dai miei “affari” e osservavo
quello sguardo assieme al progressivo svanire della sua forza nel
combattermi e tenermi testa, mi rendevo conto di dover allontanare
anche lui in qualche modo.
Separarmi
dalla persona con cui avevo condiviso tutta la mia vita –
nonostante le nostre giornate fossero riempite esclusivamente da un
litigio e qualche minuto di tregua tra una guerra e l’altra –
però, era più difficile di qualunque altra cosa. Era un rapporto
più complicato da districare malgrado le continue divergenze su ogni
piano, perché comunque non riuscivo a ignorare quel patetico senso
di nostalgia che mi si formava dentro, ogni volta in cui valutavo
l’idea di fare con lui ciò che avevo già fatto con nostra madre.
Non
che lei non mi mancasse ogni giorno, ma con Brian era completamente
diverso.
Brian
c’era da sempre e mi aveva dato più volte la conferma che sarebbe
stato sempre presente, che avrebbe continuato a combattere contro la
mia indole e avrebbe cercato ancora di crescermi e far attecchire un
minimo di buonsenso nella mia testa arida di lodevoli iniziative.
Brian
era stato tutto: fratello, genitore, amico e nemico.
Lui
che mi sgridava e che continuava a tenermi con sé, probabilmente
avendomi scambiato per un animaletto selvatico da dover addomesticare
in qualche modo, prima di esser lanciato in pasto a una realtà che
avevo sempre e completamente ignorato per seguire le mie, di regole.
Era
lui con cui condividevo totalmente il sangue nelle vene, e forse
questo bastava a spiegare perché, a prescindere da tutto, il legame
che sentivo con Brian superava tutti gli altri.
Sarebbe
stato molto più semplice per tutti – sicuramente per lui e la
famiglia che avrebbe voluto con Emma – se avessi fatto i bagagli e
non fossi più tornato indietro, eppure il mio radicato lato
egoistico m’impediva di abbandonare il mio ruolo di “macchiolina
nera” e lasciarlo finalmente alla pace e alla felicità che
meritava.
Ecco
perché, in definitiva, anche il solo sapere che parlava dall’altra
parte della cornetta, mi fece accartocciare lo stomaco e tendere le
orecchie per sapere.
«Tesoro»
lo chiamò mamma con un sospiro, «non prendertela con lui...» la
sentii poi ridacchiare appena, probabilmente incapace di trattenersi
nell’udire il suo responsabile e pacato figlio che andava in
escandescenze e rischiava un infarto. Tentò poi di parlare ancora
per un paio di volte, inutilmente dato che Brian ne avrebbe avuto
ancora per molto, finché non azzardò un semplice: «Credo che stia
dormendo, ma se vuoi parlarci lo sveglio.»
Il
silenzio che ne seguì da parte di mia madre mi fece pensare che a
mio fratello fosse venuta un’improvvisa trombosi e fosse
stramazzato al suolo. L’alternativa era che avesse ripreso a
sbraitare come un dannato; e fu la seconda possibilità a rivelarsi
esatta, in via del fatto che dopo qualche minuto lei riprese
miracolosamente la parola: «Brian, andiamo. Credo farebbe bene ad
entrambi una chiacchierata... e poi non credo che voglia parlarne con
me. Tu sei l’unico che ci riesce» si soffermò ancora per
interminabili minuti e tentò un insicuro “non è così”, prima
di concludere: «Lo so, non è facile per nessuno e credimi, ero più
sorpresa di te quando me lo sono ritrovato davanti. Per un attimo ho
creduto che fosse solo un sogno... però, davvero, non credo che
parlerebbe con me di ciò che l’ha spinto a correre qua. A dirla
tutta, è già tanto se mi parla di com’è il tempo qua a
Liverpool! Per questo ti dico che dovresti parlarci... e poi sei suo
fratello! Se preferisci provo a proporgli di chiamarti quando sarà
sveglio.»
Un
altro profondo sospiro fuoriuscì dalle sue labbra con una nota di
rassegnazione. Brian le stava dando del filo da torcere. «D’accordo,
d’accordo... vediamo come va a finire questa storia. Intanto vado a
preparargli qualcosa di commestibile. Magari a stomaco pieno sarà
più avvicinabile e propenso al dialogo. Ti richiamo presto.»
Attese
qualche secondo e, dopo aver mormorato un “ti voglio bene” e una
raccomandazione di salutarle le due donne di casa, riagganciò la
cornetta ed emise l’ennesimo sospiro, come se stesse per affrontare
una delle battaglie più complesse della sua vita.
«Lo
sai, Bill...» mugugnò al niente, facendomi mancare l’aria, «...
arriverà il giorno in cui te le farò ripagare tutte. Nessuno più
di te sarebbe stato in grado di capirlo.»
Una
fitta data dal senso di colpa arrivò a picchiarmi contro il fianco.
Di nuovo, avrei preferito avere mille risse da combattere, piuttosto
che affrontare quelle battaglie emotive abbandonate e nascoste nel
passato.
Con
un fastidioso groppo alla gola mi alzai dal divano e la raggiunsi con
un po’ d’incertezza. In fondo non avevo la più pallida idea di
cosa fare, ma qualcosa doveva succedere. In un modo o in un altro
c’erano cose che avrei dovuto rimettere a posto, e che non potevo
più rimandare o ignorare. «Non c’è bisogno di papà» le dissi
perciò, facendola sobbalzare per lo spavento. «Avevo solo bisogno
di staccare un po’ da tutto. Sono solo stanco...» mi fermai per un
attimo, per osservare la sua espressione stupita – la stessa di
qualche ora prima, quando le ero piombato in casa – e il mio
stomaco rovinò il silenzio di quel momento mettendosi ad annunciare
proteste. Aggrottai perciò la fronte e tentai di abbozzare un
sorriso, «... e un po’ affamato. Tutto qua.»
Mamma
continuò a fissarmi senza dire niente, quasi tentasse di leggere
qualcosa sulla mia faccia, finché si arrese – o almeno, lo
credetti – e mi sorrise: «D’accordo. Andiamo a porre rimedio
all’Apocalisse che si sta svolgendo nel tuo stomaco.»
Dopo
aver rischiato di ripulirle la credenza per sfamarmi, mamma uscì di
casa per andare a lavoro, lasciandomi un paio di chiavi di riserva,
nel caso avessi avuto voglia di farmi un giro in città.
Non
che covassi tutto questo entusiasmo all’idea di una scampagnata per
le strade di Lillyverpool, ma non è che la mia giornata fosse
ricolma d’impegni, e girellare per quella strana cittadina – in
cui comunque restava sempre la questione “Beatles” con cui
ammazzare il tempo – poteva apparire meno noioso che trascorrere
l’intera giornata a girarmi i pollici o nel dilettarmi con la conta
delle mattonelle del bagno.
Decisi
perciò di trascorrere il resto della mattinata in casa, ancora a
crogiolarmi sul divano e a guardarmi intorno nell’intenzione di
sapere di più sulla vita di mia madre, – un modo carino per dire
che desideravo farmi i fatti suoi – e uscire per concedermi un
altro spuntino fuori, con un po’ di classico “Fish and Chips”.
Avevo
bisogno di passare un po’ di tempo da solo per schiarirmi le idee e
pensare. Avevo bisogno di stare lontano da quella che era la mia vita
di tutti i giorni; dalle mie passioni, dai miei compagni... perfino
dalla mia famiglia e dalla firm, ma soprattutto da Elle e da tutti
quei dubbi che mi aveva piantato addosso.
Se i
miei amici mi avessero visto in quel momento, avrebbero sicuramente
pensato che fossi impazzito da un momento all’altro e che avessi un
serio bisogno di uno strizzacervelli, ma nell’analizzare la
situazione a mente fredda, non mi sarei definito propriamente
“pazzo”.
Delirante,
impulsivo, stupido forse, ed estremamente confuso. Questo era come mi
sentivo: intrappolato in una matassa di pensieri e sensazioni che non
sapevo neanche come districare. Non riuscivo a capire nemmeno da dove
poter partire e la cosa era dannatamente frustrante.
Ogni
volta in cui tentavo di concentrarmi per provare a capire quando
tutto era iniziato, due cose mi parevano lampanti e chiare: che
presto mi sarebbe venuta un’emicrania di proporzioni cosmiche, e
che gran parte dei miei casini erano cominciati dall’atterraggio di
quello stramaledetto aereo proveniente dalla Florida.
Con
quelle certezze ben salde nella mente indossai un vecchio parka di
mio padre, verde miliare ed un po’ consunto, che mamma mi aveva
lasciato per coprirmi assieme ad una sua sciarpa chiara, e uscii di
casa.
L’aria
fredda e umida mi sferzò immediatamente la faccia, facendomi
rabbrividire. Potevo ancora vedere un sottile velo di nebbia dinnanzi
a me, assieme a microscopiche e copiose goccioline d’acqua che
fluttuavano nell’aria. Di tanto in tanto poi, con un’improvvisa
folata di vento, la sensazione di respirare una lieve brezza marina,
dal chiaro sapore di salsedine, si faceva strada nella mia gola e mi
faceva storcere il naso.
Tirai
un profondo sospiro e m’inoltrai, con un passo lento e strascicato,
per le vie di Liverpool contornate di classiche villette a due piani
dai mattoni rossi a vista, guardandomi intorno e osservando con
minuziosa attenzione ogni angolo di quella città per quella che poi
era la prima volta.
Quel
posto non mi aveva mai mosso simpatie e le volte in cui ne avevo
calcato le strade, i miei occhi erano sì, attenti a ciò che mi
circondava, ma con il solo obbiettivo di individuare eventuali membri
della Kop. In tutti quegli anni non mi ero mai soffermato a
osservare ciò che viveva fra quelle intricate stradine, né mi ero
concesso di godermi lo spettacolo che regalava l’estuario della
Mersey, lungo cui l’intera Liverpool sorgeva.
Con
qualche piccola difficoltà nell’orientarmi, finalmente riuscii a
raggiungere la lunga via che costeggiava il fiume, dovendo ammettere
che in fondo – molto in fondo – non era poi così male quel
posto.
Mi
piaceva osservare l’acqua che scorreva lenta e sentire la
sensazione dei raggi di un tiepido sole nascosto dietro qualche
nuvola, che in un modo o nell’altro riusciva a scaldarmi un poco la
faccia. Mi piaceva l’idea di poter respirare un’aria diversa,
insieme all’illusione di essermi distanziato un po’ dai miei
problemi.
Era
una libertà estremamente provvisoria e a breve termine, ne ero
consapevole, ma in quel momento non avrei potuto desiderare niente di
meglio. Era come se avessi trattenuto il fiato per troppo tempo, in
perenne confusione e nell’indecisione di cosa dover fare e cosa no,
e tornare a riempire i polmoni d’aria in un’atmosfera placida
come quella, riuscì finalmente a svuotarmi la testa.
Mi
fermai per qualche minuto a osservare il panorama dinanzi a me,
poggiando gli avambracci sulla balaustra e sporgendomi per quanto mi
era concesso, per non perdermi neanche un singolo dettaglio di quel
posto.
Non
era la mia Londra; niente lo sarebbe mai stato, ma era abbastanza
perché desiderassi imprimerlo nella mente, e magari rivangarlo se
mai un giorno si fosse ripresentato un soffocante incubo come quello
che mi aveva spinto a correre via.
Mi
divertiva essere un semplice spettatore. Passare lo sguardo su ogni
ombra che lentamente si spostava seguendo il corso di quel debole
sole, disegnandosi in altre forme. Mi affascinava osservare come il
bianco gesso delle vecchie e imponenti costruzioni e il grigio e il
ruggine dei casermoni portuali si alternavano tra loro, tra l’antico
sfarzo e l’odierna realtà, e
brillassero colpiti dal chiarore dei raggi, per poi riflettersi come
in uno specchio sulle placide acque sottostanti.
Era
bello prendersi tutto il tempo del mondo e restare immobile senza
aspettarsi niente. Svuotarsi di tutto fin quasi a confondersi col
resto della città e limitarsi a guardare ciò che sfrecciava su
quelle strade. Posare lo sguardo su un qualsiasi dettaglio o una
semplice persona, immaginarne il passato e la vita, sentirsi davvero
libero nel vedere tutti correre da una parte all’altra,
mentre la mia unica occupazione era semplicemente quella di
girovagare senza meta, con le mani affondate nelle tasche.
Era
bello sentirsi così: senza una destinazione, un obbligo né un
legame. Mi faceva sorridere e mi lasciava un fresco e piacevole vuoto
dentro. E in fondo sarebbe stata quella la vita che avrei voluto per
me... già, se solo nel profondo di quella libertà provvisoria non
avesse continuato ad agitarsi il pensiero di ciò che mi ero
lasciato alle spalle; di chi mi ero lasciato alle spalle.
Una
minuscola e fastidiosa parte di me avrebbe voluto anche lei
lì. Elle e quel suo continuo guardarsi intorno come una bambina, il
suo osservare tutto come se fosse una gigantesca sorpresa e quel
buffo e impacciato camminare col naso all’insù,
così da non perdersi proprio niente.
L’avrei
voluta lì: a precedere ogni mio passo e a sorridere anche delle più
piccole cose che avrebbe visto.
Mi
ero ormai così abituato ad averla intorno – a sentirmi circondato
dalla sua minuta presenza, a percepire il suo odore ovunque, come se
avesse invaso anche le mie cose – che per un attimo mi ero perfino
lasciato cullare dalla mia immaginazione e dall’illusione di
poterla scorgere tra il resto delle persone. Di vederla sollevare lo
sguardo verso di me e di sorridermi, prima di venirmi incontro per
afferrarmi la manica di quel vecchio parka ed intimarmi a muovermi,
perché c’erano ancora troppe
cose che avrebbe voluto visitare e fare insieme.
Una
cosa schifosamente patetica, lo so... ma era pur sempre la verità.
Scossi
quindi la testa e lasciai svanire quella fantasia nel nulla, così
com’era arrivata, e continuai a
camminare per neanche io saprei dire quanto, finché con un sorriso sulle
labbra mi ritrovai esattamente davanti a uno dei luoghi sacri che
avevano segnato la musica e, nel mio piccolo, anche la mia infanzia.
L’ormai
rinomato “Cavern Club” di Liverpool si stagliava davanti a me, in
un semplice e vecchio edificio di mattoni a vista. L’originale
porta rosso sangue era ancora chiusa a quell’ora,
ma l’insegna luminosa faceva
comunque mostra orgogliosa di sé, sopra di essa, nonostante la luce
del giorno.
Sapevo
che quello non era certo il pub originale – purtroppo demolito più
di dieci anni prima, seppur fosse stato miracolosamente ricostruito
con tutti gli stessi materiali ancora reperibili, compresa la quasi
totalità dei mattoni esterni – ma un brivido freddo risalì
comunque lungo la mia schiena nel trovarmi davanti a uno dei luoghi
che più avevano contribuito a costruire la musica.
Perché
per quanto la firm e lo stadio fossero le mie più grandi passioni
assieme alla fotografia, quando mi trovavo nella solitudine della mia
stanza non potevo far a meno di dare il via libera alla radio o
rispolverare qualche vecchio vinile, perché riempissero il vuoto tra
quelle mura; perché quei capolavori riempissero completamente anche
me.
Mi
soffermai ancora per un attimo ad osservarlo, ripromettendomi di
berci assolutamente almeno una birra durante quel mio soggiorno e,
con un po’ di malinconia addosso
per non aver avuto la possibilità di vivere negli anni in cui il
“Cavern Club” aveva visto i suoi giorni d’oro
con i Beatles, proseguii nel mio ozioso girovagare.
Come
guidato da un filo invisibile tra le mie – ormai risapute –
passioni, seguii le indicazioni per lo stadio principale della città:
l’enorme e squadrato “Anfield”,
orgogliosamente situato nell’omonima via, così come in genere
dettava la tradizione calcistica inglese.
In
realtà, di tutta Lillyverpool, quello era decisamente uno dei
pochi posti che avrei dovuto assolutamente evitare come la peste
bubbonica, ma che le mie capacità di giudizio non fossero
propriamente attive e all’avanguardia
non era certo un segreto per nessuno. Perciò decisi di ignorare
deliberatamente la mia povera coscienza e continuai ad avvicinarmi,
pur essendo sempre più conscio del fatto che fosse una colossale
cazzata.
Per
un povero Cristo di una firm avversaria sarebbe stato comunque
scarsamente sconsigliato aggirarsi nei dintorni, specie se si
trattava di qualcuno riconoscibile nell’arco di un paio di nano
secondi scarsi come il sottoscritto, e soprattutto se, i tizi che
spadroneggiavano in quei luoghi, altro non aspettavano che l’arrivo
di quel weekend proprio per affrontare il mio West Ham.
Non
c’era neanche un misero motivo per cui non avrei dovuto girare sui
tacchi all’istante e tornare indietro per evitare i miei soliti
casini. Non esisteva neanche uno stupido incentivo a proseguire in
quel mio suicidio, ma continuai ad avanzare come se nulla fosse,
perfettamente consapevole che di lì a poco qualcuno avrebbe fatto il
mio nome e probabilmente ne sarebbe succeduta una poco piacevole
visita alla stazione di polizia più vicina, con conseguente e ancor
meno allettante incontro con mia madre, che avrebbe dovuto garantire
per la mia uscita ed il mio rientro a casa.
No,
in definitiva non esisteva proprio un “perché” plausibile alla
mia presenza in quel posto, ma le mie gambe continuarono ad andare
per la loro casuale strada e, come da copione, ben presto vennero
affiancate da qualcun altro.
«Ciao
Peter» salutai con un sospiro annoiato, ben edotto su chi fosse il
primo dei cinque che mi avevano gentilmente avvicinato.
Peter
Kelly, meglio conosciuto come il leader indiscusso della Kop,
se ne stava a meno di un metro da me, avvolto nel suo giubbotto di
tela nera ampiamente consunta, con le braccia conserte e gli insoliti
capelli lunghi e scuri, con qualche filo d’argento a testimoniare
che non faceva propriamente parte dei “plotoni” più giovani
della firm.
Doveva
avere una quarantina d’anni o poco più, e faceva già parte del
gruppo dai tempi in cui l’I.C.F.
era nelle mani di mio padre, seppur all’epoca fosse poco più che
un ragazzino. Dalle voci che giravano su di lui comunque, e da quel che
avevo potuto constatare con i miei stessi occhi, non era certo un
tipo con cui poter amabilmente scherzare.
Non
era forse più reattivo e veloce come un tempo e come le storie a
riguardo narravano, ma aveva un bel po’ di anni ed esperienze dalla
sua parte e, sulla mia stessa pelle, avevo provato che non erano
affatto elementi da sottovalutare.
Il
suo sguardo poi non premetteva niente di rassicurante. Pareva essere
particolarmente infastidito dalla mia presenza, non tanto per il mio
stesso girovagare, quanto più per il fatto che lo stavo facendo da
solo, come una sorta di irrispettosa sfida e beffa verso la loro
autorità sul posto.
A
suoi occhi dovevo sembrare particolarmente insolente, al limite del
ridicolo, o particolarmente
stupido,
per il mio gesto. Qualunque alternativa fosse comunque, non me lo
diede mai a sapere, bensì si limitò a scuotere la testa e ad
aggrottare la fronte in un’espressione confusa, quasi gli costasse
un’immensa fatica comprendere il perché di quella mia stupida
trovata.
E,
a dirla tutta, non l’avevo compreso neanche io.
«Tuo
padre era un pazzo» iniziò placidamente. «Credimi, l’ho
incontrato più di una volta e posso affermarlo con certezza. Ma era
un folle scatenato, non un idiota.
Neanche a lui sarebbe venuto in mente di venire qui,
per di più da solo...»
«Non
sono mio padre» lo interruppi, sollevando un sopracciglio. Avevo già
perfettamente capito dove volesse andare a parare: voleva farmi la
festa, ma prima desiderava capire la motivazione per cui mi trovavo
nei pressi dello stadio.
«Lo
vedo. Non ti ha insegnato proprio niente?»
«Mi
ha insegnato quanto basta.»
«No,
Peter» intervenne uno dei ragazzi al suo fianco, con i capelli scuri
e rasati ai lati. Doveva avere più o meno la mia età, ma era più
che evidente, da come si atteggiava, che sapeva il fatto suo. «Non
può essere lui. Aaron Dunham non è tanto idiota da presentarsi da
solo all’Anfield.»
Nell’osservarlo
meglio in quella sua espressione infastidita, riconobbi in lui
Denton, un altro di quelli che si era fatto un certo nome tra le firm
e che di certo non aveva paura di chiazzarsi un po’ i vestiti di
sangue.
«A
quanto pare sopravvalutate la mia intelligenza, ma non preoccuparti,
sono qui solo per una visita di famiglia» gli dissi perciò con
un’ovvia nota ilare nella voce,
pur restando guardingo nei confronti di quel nano dalle spalle un po’
troppo ampie. «Però se il resto dei tuoi amichetti vuole un
autografo, possiamo parlarne.»
«Questa
tua sbruffonaggine non ti servirà quando ti attaccheremo al posto di
una di quelle bandiere» mi ringhiò contro avvicinandosi di un
passo, fino a posizionarsi pressoché sotto il mio mento, con le mani
strette a pugno che tremavano dalla voglia di spezzarmi qualche osso.
«Accidenti!
Fin lassù?» domandai, sollevando appena lo sguardo verso quei
rettangoli di stoffa che sventolavano sulla sommità dello stadio;
continuando sulla mia strada, e rischiando davvero che le bellicose
intenzioni di Denton si trasformassero in realtà. «Spero che
abbiate addestrato qualcuno, perché sarebbe un’impresa in cui non
mi cimenterei neanch’io. Con questo freddo poi!»
«Ti
rendi conto dell’abissale differenza numerica che c’è, oppure
tutti gli scontri di questi anni ti hanno compromesso il cervello?!»
grugnì ancora digrignando i denti, quando un
ragazzetto che non doveva aver più di tredici anni, e che fino a
quel momento non avevo neanche visto, sbucò da dietro le sue spalle
e si frappose tra noi.
Mi
fissò in cagnesco, gonfiandosi orgoglioso nel suo metro e sessanta
scarso, i capelli tagliati in un’orribile cresta e le nocche delle
mani impiastricciate di china, nel ridicolo tentativo di tatuarsi
addosso la sigla “L.F.C”: Liverpool
Football Club; poi, con un
grugno deciso sulla faccia, sputò velenoso: «Ti faranno il
culo!»
Porca
troia, che ambientino!, pensai
dentro di me, ma mi limitai a rivolgergli un sorriso tra il divertito
e l’intenerito. In fondo ero stato anche io un ragazzetto tanto
impudente e scalpitante, nonché incapace di rispettare le gerarchie.
Sollevai
poi lo sguardo verso Denton, e mi resi conto che anche lui era della
mia stessa opinione. Non gli era affatto piaciuta quell’uscita
infelice, ma doveva voler davvero bene a quel ragazzino e, per la
salvezza della sua giovane e spropositata autostima, si sarebbe
limitato a sgridarlo nel momento in cui sarebbero stati soli. Non
davanti ad altri componenti e soprattutto non davanti a me.
«Sta
calmo, piccolo Mangiagallette» lo apostrofai, trattenendomi a
stento dal dargli una pacca sulla nuca. «Te l’ho appena detto,
sono qui solo in veste di turista. Non ho la macchina fotografica con
me perché è stato un soggiorno deciso all’ultimo momento, ma ti
assicuro che diversamente ti avrei anche potuto proporre uno scatto
insieme. Sono un pacifista sotto, sotto!»
Il
ragazzino fu probabilmente sul punto di sferrarmi un calcio sugli
stinchi, dato che la sua precaria altezza gli impediva di poter
raggiungere la mia faccia, ma Denton intervenne prima che potesse
fare o dire qualsiasi cosa, afferrandolo per il colletto del cappotto
e trascinandoselo nuovamente dietro, quasi fosse stato un animaletto
da compagnia.
Se
fosse stata un’altra situazione
probabilmente mi sarei fatto una grassa risata, ma dal modo in cui
continuava a fissarmi capii che non c’era
affatto possibilità di scherzare.
«E
dimmi un po’, la meta di questo tuo presunto viaggio turistico è
proprio lo stadio, per di più a meno di una settimana dalla partita
che, guarda caso, si disputerà proprio qui contro il West Ham?»
«Ammiro
sinceramente le tue doti di sintesi.»
«Perché
tutto questo odora tanto di presa per il culo?» mi accusò difatti
questo, mentre gli occhi di Peter si assottigliavano e si
concentravano sulle mie espressioni, come se si aspettasse di poterci
leggere qualcosa.
«A
dire il vero, l’unico odore che sento io è quello di fritto del
‘Fish and Chips’ all’angolo» sbuffai divertito e, com’era
già nell’aria da un po’,
le dita di Denton andarono a stringersi a pugno sul colletto del mio
parka, per poi strattonarmi in basso verso la sua faccia.
«Dunham,
non sei nella posizione di fare lo spiritoso.»
«Sto
solo difendendo le mie ragioni» replicai secco. La voglia d’ironia
era improvvisamente passata anche a me, lasciando il posto a quel
familiare formicolio che mi pervadeva i palmi, nell’attesa
di una sacrosanta scazzottata.
«Chi
mi dice che non sei venuto qui in qualità di spia?» stavolta fu
nuovamente Peter a parlare, e quasi gli fui grato di
quell’intervento. Doveva aver capito verso quale direzione stava
degenerando la situazione e, probabilmente, dall’alto delle sue
conoscenze in merito di firm, voleva evitare più grane inutili di
quante già ce ne fossero.
«Il
semplice fatto che noi dell’I.C.F non abbiamo certo bisogno di
questi giochetti per asfaltarvi come si deve» feci schioccare la
lingua e assottigliai lo sguardo, prima di liberarmi da quella
fastidiosa presa, «e che comunque, se anche fosse, non mi sarei
certo scomodato io per venire fin qui, soprattutto considerando il
fatto che mi avreste riconosciuto dal limite della piazza.»
«Supponendo
per assurdo che tu stia dicendo il vero...»
«Puoi
togliere le supposizioni.»
«...
per quale motivo dovresti aggirarti da queste parti?»
«Magari
proprio per il fatto che non sono davvero intelligente come credete»
risposi ancora, prima di offrigli una scusa – che poi non era che
la pura verità – che sperai potesse reggere ed evitarmi guai. Non
ero tanto sciocco da poter pensare di affrontarne cinque di loro e
passarla liscia. Soprattutto non nel loro territorio, dove i rinforzi
avrebbero impiegato l’irrisorio
tempo di qualche secondo per correre a dare man forte e darmi una
bella ripassata, «o più semplicemente perché sono davvero
in veste di turista,
senza la benché minima voglia di cacciarmi in una bella rissa. Detto
in parole povere, se rientro a casa anche solo con un misero livido,
rischio di essere sbattuto fuori senza tanti complimenti e, non
offenderti, ma il mio desiderio di menar le mani con voi non vale una
notte passata a congelare.»
Alle
mie parole, Denton si lasciò sfuggire una breve risata. «Be’, se
la metti in questi termini, potremmo anche riaccompagnarti all’ovile.
Potremmo testimoniare a tuo favore, non credi?»
«Già,
ho dimenticato di dirti che è molto più probabile che mi metta a
nuotare nudo nel fiume per una notte intera, piuttosto che dirti dove
alloggio» fu la mia immediata risposta, prima di protendermi verso
di lui, così che potesse guardarmi dritto negli occhi e capire che,
nonostante lo svantaggio, le mie minacce erano più che serie, «e
sia chiaro, Scouse, non provare neanche solo a pensare di
farmi seguire da uno dei tuoi, perché quant’è vero che sono in
piedi davanti a te, di quel povero disgraziato dovresti esser grato
se ti rimandassi indietro anche solo gli occhi.»
«Te
lo ripeto solo un’altra volta: non sei nella posizione per fare lo
sbruffone.»
«E
io ti assicuro che sono sempre nella posizione di fare quel
che cazzo mi pare» sibilai, scandendo bene ognuna di quelle parole.
Non avevo davvero più voglia di scherzare. Non in quel
momento in cui si era affacciata anche solo la vaga possibilità di
pericolo per mia madre, «così come sappiamo entrambi che non farai
un bel niente finché non avrai le prove che sono qui per un motivo
preciso che riguarda le firm, perché te la fai sotto dalla paura al
solo pensiero del macello che ne verrebbe fuori.»
Denton
mantenne il contatto visivo con fierezza – abbassare lo sguardo
avrebbe significato l’ammettere
una sorta di mia superiorità –, ma nonostante questo, non diede la
solita, pronta risposta.
La
realtà dei fatti era che avevo di nuovo accennato alla pura verità,
al peggiore scenario che si sarebbe potuto verificare tra le due
firm, se solo si fossero azzardati ad alzare le mani su di me che
girovagavo in solitaria e per di più senza avere uno straccio di
scusa o di prova delle mie pessime intenzioni, per farlo.
Se
mi avessero fatto anche solo un graffio – e ovviamente il futuro
più prossimo si prospettava decisamente peggiore per me, di qualche
livido – la voce si sarebbe velocemente sparsa fino a Londra, e lì,
una volta saputo dell’accaduto, sarebbe scoppiato il pandemonio.
Non
ci sarebbero stati a quel punto tradizionali weekend di partite da
rispettare. Sarebbe stata pura e semplice guerra per difendere
l’onore della firm e di un
compagno calpestato senza un “giusto motivo”; e sarebbe stata
decisamente peggiore di tutte le altre volte.
«Ti
do un consiglio da amico, Denton» gli dissi perciò. «Queste
stronzate lasciale a chi ha abbastanza palle per farle... o per
meglio dire, a chi è tanto stupido da farle, tipo quei
simpatici tizi dei Docks a sud.»
Dal
canto suo, perfettamente al corrente di quanto avessi ragione, non
rispose alla mia provocazione né proseguì per la sue intenzioni di
farmi la festa. Contrariamente a lui, fu Peter a sorridermi e a
rispondermi per le rime: «A proposito di quei ‘simpatici tizi’,
com’è che vanno le cose ai Docks, Dunham? Avete deciso
diventare una grande famigliola felice?»
Quell’ultima
domanda mi lasciò spiazzato per un attimo.
Non
ero sicuro di aver sentito bene le sue parole ma, dal modo in cui
presero a sorridere anche tutti gli altri, era più che evidente che
le mie orecchie non avevano fatto cilecca. Per quanto mi sembrasse
completamente assurda, Peter aveva detto proprio quella frase.
«Non
so di cosa tu stia parlando» replicai in tono asciutto,
scandagliando ogni loro movimento. Non erano degli idioti, e se
avevano parlato a quel modo, un motivo doveva pur esserci.
«Corrono
voci di una strana amicizia» si limitò ad accennare lui, e
io non riuscii a trattenere uno sbuffo divertito.
«Non
è che l’unico cervello compromesso qui è il tuo?»
«Siamo
lontani da Londra qui, e detto sinceramente non ce ne frega un cazzo
dei vostri affari, ma fossi in te comincerei a guardarmi le spalle,
soprattutto quando passeggi al porto.»
Scossi
la testa, sospirando esasperato. Quella era davvero la più
apocalittica buffonata che avessi mai sentito dire. Perfino peggiore
delle storielle fantascientifiche di Chris. «Ti rendi conto di star
dicendo un mucchio di stronzate? Fosse per noi, non divideremmo
neanche l’aria che respiriamo.»
«Può
essere. Io ti ho solo detto che girano strane voci a riguardo.»
«A
riguardo di cosa?»
«Te
l’ho appena detto. Simpatie. Forse qualcuno fa il doppio
gioco» spiegò lui, fissandomi dritto negli occhi con decisione,
quasi volesse trasmettermi in quella sua tenacia che non stava
affatto inventando qualcosa, «e girano anche voci sul fatto che sei
un po’ distratto da altri pensieri ultimamente... o sono stronzate
anche queste?»
«Ma
piantala!»
«Non
ne so molto, anzi, diciamo pure che non ne so niente a riguardo... ma
se certe notizie sono state messe in giro, qualcosa di fondo deve pur
esserci. Nessuno altrimenti si sognerebbe di farlo...»
«Be’,
te lo dico io da adesso: sono tutte cazzate, e chi le ha messe in
giro, farà bene a nascondersi» lo interruppi, completamente stufo
di quella ridicola conversazione, e tanto più dell’accenno ad
Elle. Non mi piaceva affatto che girassero voci su di lei. Nonostante
l’avessi portata con me allo
stadio – e continuavo a pentirmi di quella mia scelta – doveva
restare totalmente fuori da quelle faccende.
In
preda alla collera e alla frustrazione, pur di evitare di scaricarmi
sul primo che avrei potuto trovarmi davanti, voltai le spalle ai
simpatici Scousers che avevano fino a quel momento allietato
la mia giornata, e mi allontanai da loro a passi grandi e nervosi.
«Dove
diavolo pensi di andare adesso?!» gridò Peter, evidentemente
infastidito dal mio gesto, pur tenendosi ben lontano dall’idea di
seguirmi.
«A
casa. E ricordati ciò che ho promesso... non vi conviene farmi
seguire» risposi, senza neanche voltarmi, continuando ad avanzare
nella speranza che quell’andatura agguerrita servisse a farmi
sbollire.
Una
volante della polizia passò nelle vicinanze, rallentando
immediatamente nel momento in cui il conducente si rese conto della
nostra presenza. Percorse una parte della via quasi fermandosi in
mezzo, nell’indecisione se
accostare o meno, per scendere a sincerarsi della situazione e fare
qualche domanda.
A
quel punto fui certo che nessuno di loro avrebbe mosso un dito. Non
con quei bastardi in divisa a pochi metri, non con così pochi giorni
a separarli dallo scontro vero e proprio con l’I.C.F.,
ma soprattutto, non con la ghigliottina che pendeva sulle loro
teste, come una promessa di completo marasma se solo avessero osato
fare qualcosa.
«Stammi
bene, Peter.»
Percorsi
parecchie stradine senza neanche vederle, zigzagando a caso tra le
varie svolte, troppo preso dai miei pensieri per concentrarmi su
altro.
Le
parole di quel Peter continuavano a rimbalzarmi fastidiosamente in
testa, facendo nascere strani e assurdi sospetti anche dove non
avevano motivo di essercene.
Non
vi era alcuna possibilità che ai Docks qualcuno facesse il
doppio gioco. Sarebbe stato troppo pericoloso per chiunque e non
avrebbe avuto alcun senso, né avrebbe portato giovamento da una
parte o dall’altra.
C’era
una rivalità che gettava le proprie radici troppo in profondità, a
strisciare tra i due punti estremi di quei cantieri; una rivalità
che perdurava da anni e che, anzi, continuava a rafforzarsi di più
ad ogni scontro. Ogni episodio era buono per aggrapparsi a qualche
imperdonabile affronto per cui quella faida aveva raggiunto il così
detto “punto di non ritorno”. Non c’era
davvero possibilità di tregua e non ci sarebbe mai stata.
Ecco
perché quelle parole continuavano a suonare completamente assurde;
ed ecco perché, prima di uscirne completamente pazzo, realizzai di
aver bisogno di parlarne con qualcuno che potesse darmi la conferma
sulla totale impossibilità della cosa, neanche fossimo stati in un
universo parallelo.
Mi
avviai quindi verso la prima cabina telefonica disponibile sulla mia
strada e frugai nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. Li
inserii nella fessura e composi un numero che avrei potuto fare anche
ad occhi chiusi e di spalle. Infine mi appoggiai con la schiena alla
parete di plexiglas, picchiettandovi con la mano libera, nell’attesa
che quel suono noioso venisse interrotto da qualcuno all’altro
capo, e maledicendomi ogni secondo nel chiedermi se fosse davvero la
cosa giusta da fare. Non avevo prove; non avevo proprio un bel
niente, ma quella conversazione mi aveva innestato un tarlo in testa
ed era un dubbio che dovevo togliermi.
Sbuffai
nervoso e in quello stesso istante la cornetta venne alzata proprio
dalla persona che stavo cercando: Nathan.
«Pronto?»
«Ehi,
sono io» dissi semplicemente, e dal mugugno che percepii dall’altra
parte, capii che non avevo bisogno di altre presentazioni.
«Ah,
ma allora sei vivo!» esclamò lui, senza neanche provare a
nascondere il nervoso sarcasmo che trasudava dalla sua voce. Non
potevo biasimarlo per avercela con me, né avevo scuse plausibili con
cui potermi difendere, ma non riuscii comunque ad arginare la mia
solita insofferenza nel dover rendere conto a qualcuno. Anche se
questo “qualcuno” era il mio migliore amico.
«Possiamo
saltare la parte in cui reciti il padre coscienzioso? C’è già
Brian che adempie fin troppo bene al ruolo.»
«Vaffanculo,
Aaron. Ma seriamente, va’ e restaci!»
Sollevai
gli occhi e sbuffai scocciato. «Ti senti abbandonato, Pollicino?»
«Mi
sento preso per il culo, grazie» replicò secco, per poi ripartire
con una filippica che non avevo la minima voglia di stare a sentire.
«Mi spieghi che cazzo ti ha detto il cervello?! Abbiamo trovato la
tua moto oggi, e non è stato affatto piacevole non vederti nei
dintorni.»
«Non
mi hai visto perché non sono a Londra.»
«E
dove cazzo sei?!»
«A
Lillyverpool, ma non è questo il punto.»
Nathan
restò in silenzio per qualche secondo, probabilmente impegnato a
elaborare le informazioni che gli avevo rifilato fino ad all’ora.
«Che ci fai in mezzo agli Scousers?» se ne uscì infine e
io non riuscii a trattenere uno sbuffo scocciato.
«Mammina,
sono ad un telefono pubblico. Se magari mi dai il tempo di parlare ti
spiego tutto e forse evito di accendere un mutuo in banca per pagare
questa stramaledetta telefonata!»
«Ultima
cosa: sei da tua madre?»
«Sì»
risposi con un sospiro e dall’altro capo percepii chiaramente un
mugugno disperato.
«Allora
è peggio di quanto pensavo. Ottimo» borbottò infatti, prima di
prendere un lungo respiro e proseguire: «Allora? Che diavolo
succede?»
«Sono
passato nei pressi dell’Anfield qualche ora fa...»
«Ma
benissimo! Fantastico!» m’interruppe
isterico. «Hai avuto qualche altra bellissima idea, tipo rapinare il
primo negozio che ti capitava a tiro o prendere a calci una
vecchietta? No, sai... te lo chiedo perché nelle ultime
ventiquatt’ore pare che le tue capacità di giudizio facciano un
tantino cilecca!»
«Sono
sempre ad un telefono pubblico, sai? Gli spiccioli stanno finendo.»
«Dimmi
almeno che non hai scatenato una rissa.»
«No,
ma ho incontrato Peter Kelly, e prima che tu mi propini un altro
melodramma, abbiamo solo discusso un po’.»
«A
riguardo di?»
«Stronzate
in realtà. Dice che son circolate strane voci sui Docks.
Qualcosa su un’improbabile accordo o che ci sia qualcuno che tiene
il piede in due scarpe, da l’una o dall’altra parte.»
Altri
secondi di silenzio, poi Nathan mi rispose esattamente come avevo
pensato e sperato: «Dì un po’, ti sei fatto? Ma che stronzate
stai dicendo?»
«È
quello che gli ho detto anch’io. Non esiste né in cielo né in
terra una cosa del genere» mormorai, tirando però un sospiro di
sollievo. «Facciamo che è solo colpa del fatto che ho parecchie ore
di sonno da recuperare.»
«Credi
che esista qualcuno così idiota da mettersi in una posizione tanto
scomoda, col rischio di fare un bel ‘boom’ da un momento
all’altro?»
«No»
replicai più sicuro, aggrottando la fronte nell’udire
il segnale attraverso la cornetta che m’informava
che la telefonata era già agli sgoccioli, «e se esiste deve essere
internato seduta stante.»
«Altre
follie dell’ultimo minuto?»
«Negativo»
ribattei sbrigativo. «Ti richiamo se dovesse esserci altro, anche se
ne dubito fortemente.»
«Non
hai nient’altro da chiedermi?»
«Tipo?»
feci il vago, esultando però dentro di me per essere riuscito a
raccapezzare un’altra
monetina dalle mie tasche, che mi permettesse di allungare ancora un
po’
quella chiamata. In fondo sapevo che alla fine dei conti gli
argomenti avrebbero portato lì e, anche se non l’avrei
mai ammesso neanche con me stesso, una parte di me moriva dalla
voglia di sapere che diavolo stesse succedendo in mia assenza.
«Aaron,
seriamente... non so se sei davvero così idiota o solo stronzo.»
«Magari
entrambe...»
«Quando
pensi di tornare?»
«Non
lo so» sospirai, e un’altra
monetina seguì il corso dell’altra.
Quella conversazione mi sarebbe costata lo spuntino! «Non credo
neanche che sarò presente domenica. Non posso, per mia madre...»
«Lo
so. Non è un problema.»
«Magari
non per te e Chris, ma per gli altri...»
«Diremo
che hai avuto un’emergenza con tua madre e che non puoi rischiare.
Capiranno» mi rassicurò Nathan. «Anche se a Liverpool non sono
tipi da fare carognate del genere, è meglio non metterci la mano sul
fuoco.»
«Ok,
grazie.»
«E
di che... tu datti solo una mossa a tornare.»
«Senti
già la mia mancanza, principessa?»
ghignai divertito e lui mi rispose con un mugolio insofferente.
«Per
quel che mi riguarda puoi buttarti anche nella Mersey, ma forse,
qualcuno che ti aspetta c’è, anche se non te lo meriti.»
«Hai
finito con queste cagate?» replicai, cercando di mantenere un tono
distaccato. Alla fine dei conti, non ero poi così sicuro di voler
davvero sapere cosa stava succedendo nella mia Londra, e l’improvviso
crampo allo stomaco ne era la prova lampante.
«Fa’
un po’ come ti pare.»
«Come
sempre!»
«Fatti
sentire.»
«Ok...
e saluta Chris, prima che gli venga un attacco di gelosia.»
Nathan
ridacchiò e lo immaginai scuotere la testa. «Ciao idiota.»
«Ciao»
dissi semplicemente e riagganciai con una lieve scia di amara
malinconia a scendermi giù per la gola. Meno di un giorno senza i
miei più cari amici e la mia Londra, e già mi ero ridotto ad un
povero sentimentale.
Davvero
un gran bell’affare.
***
*NB: "Lillyverpool" è un soprannome dispregiativo con cui i londinesi chiamano Liverpool - unendo il nome della città a quello del paese immaginario Lilliput, de "I viaggi di Gulliver" - per una vecchia diceria che riguarda i suoi abitanti, secondo cui vengono definiti persone particolarmente basse nella media. Non so sinceramente da dove venga questa cosa, ma è questo il motivo per cui Aaron li chiama appunto "quei nani". "Mangiagallette" e "Scouse" - o "Scousers" al plurale - sono altri soprannomi che sono stati affibbiati agli abitanti di Liverpool. Sono collegati l'uno all'altro, difatti il primo riguarda ovviamente una tradizione "culinaria" di Liverpool e il fatto che, soprattutto tra i lavoratori del porto e marinai in sé, fosse molto diffusa la tradizione di mangiare appunto gallette, soprattutto nei lunghi viaggi in mare; il secondo invece viene proprio dal nome con cui si identifica il dialetto parlato a Liverpool. Come a Londra esiste il "Cockney" a Liverpool esiste lo "Scouse". Da questo proviene la tradizione di identificarli come "Scouse" o "Scousers". Il fatto che poi "Scouse" significhi letteralmente "galletta", spiega da sé la correlazione tra le due cose!
Qualcuno di voi mi odia, altri vorrebbero vedermi appesa ad una forca,
altri ancora probabilmente si saranno scocciati di aspettare e
decisamente non posso biasimarli! So che è più di un anno
che attendete il diciannovesimo capitolo - sono una persona orribile,
sì - e che la misera prima parte di un'OS - benché sia
strettamente collegata e funzionale al resto della storia - significa
poco o niente, ma purtroppo questo è il massimo che sono
riuscita a fare.
C'è già una
seconda parte pressoché completa e il diciannovesimo capitolo
che è scritto a pezzi random qua e là e che aspetta di
essere risistemato e magari anche collegato con un senso, oltre che
scritto in un italiano più o meno comprensibile ma, nonostante
questo, proprio non so darvi un'idea di quando riuscirò a postarlo.
Mi rendo perfettamente conto che questa non è la notizia che vi
sareste aspettati, e mi rendo anche perfettamente conto di quanto sia
odioso tutto questo. Come dico sempre, sono una lettrice anch'io e impazzisco nell'attesa degli aggiornamenti di storie che amo, ma
per svariati motivi che non posso stare a spiegarvi in questa sede e in
questo momento - oltre ai soliti impegni universitari, di vita sociale
ecc - per adesso non riesco a garantirvi una data o un periodo sicuro
in cui riuscirò ad aggiornare.
Non è piacevole neanche per me. Preferirei di gran lunga avere
tutto il tempo del mondo per dargli finalmente una fine e chiudere
questa storia, perché in parte sta diventando una specie di
maledizione e un incubo questo mio continuo ritardo, ma ora come ora
non posso fare altrimenti.
Vi chiedo quindi per l'ennesima volta scusa - anche se non so quanto possa valere - e, se ne avete voglia, di pazientare ancora un po'. Prima o poi, in un modo o nell'altro, Blowing Bubbles avrà una fine. Promesso.
Detto questo, spero che questa "piccola" prima parte vi sia piaciuta,
benché vi siate dovuti sorbire gli infiniti pipponi mentali di
Aaron. Spero anche che siano chiari i pochi appuntini che vi ho
lasciato qua sopra in merito ai vari soprannomi che si scambiano
londinesi e "Liverpudlians" - altro nomignolo che, come avrete capito,
ha a che fare con questo presunto "nanismo" su cui ho dei serissimi
dubbi, ma tant'é! - con tanto amore.
E quindi niente, non ho molto altro da aggiungere, se non infilarmi in un angolino a vergognarmi, perché davvero non ho delle vere e proprie scusanti. Mi auguro di aver placato almeno un poco la vostra "voglia di sapere" per come andrà a finire tra questi due disagiati mentali e anche qualche curiosità su quel disastro ambulante di Aaron.
Conto di darvi qualche altra notizia al più presto, per quel che mi è possibile.
Un bacione,
Veronica.