From that point
on, we rethought everything.
— Stone Gossard
I didn't know if I wanted to
play music anymore.
— Jeff Ament
I think we kind of
quantify everything that's happened to us as pre "Roskilde" and after
"Roskilde", and...
You know, if early
on there was the birth or the beginning of "No", for us Roskilde was
the beginning of
“What?”,“What are we doing?”,“What
do we do to assist the families?”, and “What have we become?” and “What do
we...
What do we do to survive?”
— Eddie Vedder
Bakvið skýjaból
vaknar sól úr dvala
(Da dietro un vascello di nuvole, il Sole si
sveglia dal letargo)
Gli occhi di Eddie sono persi nel vuoto, persi come
non lo erano da tempo… come forse non lo
sono mai stati.
La tragedia a cui ha appena assistito è qualcosa di
talmente crudele da non poter essere descritta, e l’unica cosa che gli riesce di fare in questo momento è soltanto
starsene piegato su se stesso, le gambe molli e una mano tra i capelli,
scuotendo ogni tanto la testa con incredulità.
Non riesce a far uscire alcuna parola dalle proprie
labbra –non può- e i suoi occhi, che trentasei
anni fa hanno rubato un po’ dell’oceano affinché potesse portarlo sempre con sé,
ora non sono altro che dighe sul punto di straripare.
Piange, Eddie.
Piange perché sa che non potrà mai dimenticare i corpi
ancora caldi sballottati dal fiume di
persone ancora vive, corpi
inconsapevolmente protagonisti di un crowd surfing
che, ne è certo, presto inizierà ad odiare con tutto il cuore.
Piange perché di quei ragazzi non rimarranno altro che
nomi e cognomi, qualche carta d’identità e il biglietto del festival, forse
comprato con qualche sacrificio, e alle loro famiglie torneranno soltanto dei letti
di legno, colmi di rabbia e lacrime, in cui i loro figli saranno costretti a
dormire per l’eternità.
Piange perché forse lui quei nomi non li verrà mai a
sapere.
Ég leita að lífi
– um stund ég stóð í stað
(Cerco la vita per un istante – sto fermo in un posto)
Með von að vin ég vinn
upp smá tíma
(Con la speranza che, come i miei amici, mi serva un po' di tempo)
Leita að ágætis byrjun (Cerco la strada
giusta)
Qualcuno degli addetti alla strumentazione gli appoggia
una mano sulla spalla e Eddie di riflesso sussulta spaventato, scattando in
piedi come una molla e precipitandosi dietro le quinte con il cuore in gola.
Non lo dirà mai a nessuno ma, per un attimo, su uno di
quei volti esangui ha visto riflesso quello di suo padre, e l’idea di dover
affrontare di nuovo tutto quanto, di doversi fare nuovamente carico di un
fardello così grande, il solo pensiero di dover dare delle risposte a genitori
che non potranno più rivedere i propri figli lo sommergono come un’onda
arrivata a tradimento.
Boccheggia, Eddie.
Annaspa e si appoggia ad una parete, in preda ad una
crisi di panico, serrando le palpebre per scacciar via le orribili immagini che
continuano a scorrergli impietose davanti agli occhi.
Quando li riapre, scorge una figura avvicinarglisi
barcollando, e gli ci vogliono giusto un paio di secondi per realizzare che
quella chioma arancione appartiene a Jeff.
Ben presto questi si accorge della sua presenza, lo chiama
per nome e accelera l’andatura, incespica nei propri passi e gli si piazza di
fronte, e nei suoi occhi verdi Eddie intravede la stessa disperazione che lo ha
scosso qualche minuto prima: non c’è bisogno che Jeff glielo dica, lui già sa che
in mezzo a quella bolgia, in mezzo a quel mulinello di morte l’amico ha rivisto
Andy.
È un istante e uno sta già stringendo l’altro, i
capelli di Eddie che quasi s’intrecciano con fare scomposto intorno agli
orecchini di Jeff, i singhiozzi sommessi e le lacrime cocenti che scivolano
lungo le loro mascelle, per poi finire con l’unirsi tacitamente sulle magliette
di entrambi.
I due si aggrappano l’uno all’altro, lasciandosi
scivolare sul pavimento e permettendo alla caterva di emozioni che li sta
opprimendo di fluire liberamente verso l’esterno.
Su quel suolo gelido, diventato improvvisamente tomba
solo qualche metro più in là, il dolore di tutta Roskilde è anche il dolore di
Ed e Jeff, due amici persi in una cortina di parole non dette e che in un velo
di lacrime si sono finalmente ritrovati.
It's
an art to live with pain, mix the light into grey
Lost nine
friends we'll never know, thirteen years ago
today
Sicuramente fa un certo effetto ritornare lì dopo tutti gli anni passati, e Eddie
non sa spiegarsi bene perché abbiano scelto proprio il 2013 per farlo: forse è
stata una coincidenza, forse sono le tredici lune in più che ognuno di loro ha
sulla groppa… forse è semplicemente
arrivato il momento.
Ciò non toglie il fatto che, dopo i messaggi di
cordoglio, le manifestazioni di solidarietà, gli incontri con le famiglie delle
vittime –per non parlare del circo di accuse, smentite e offese varie in cui sono
stati precedentemente sballottati- era inevitabile che fare ritorno a Roskilde
fosse l’ultima tessera da poggiare per poter completare il mosaico.
Eddie si guarda in giro e ne approfitta per osservare
di nascosto quelli che, da più di vent’anni, sono i suoi compagni d’avventura.
Guarda Matt, quello che tecnicamente è l’ultimo
acquisto della band, e si ritrova a pensare che sia rimasto sempre lo stesso;
certo, qualche rughetta in più c’è e i pargoli che una volta dondolava sulle
ginocchia ora si uniscono a lui per suonare ai concerti dei Soundgarden,
ma in fondo Matt è ancora il ragazzo che, in quel famoso pomeriggio dell’ottobre
1990, poco prima di partire con Hunger Strike gli
sorrise incoraggiante da dietro la batteria.
Mike gli sfila davanti in silenzio e ora Eddie si sta
chiedendo di che colore avesse i capelli durante…
sì, beh, insomma, avete capito. La verità è che Mike ha sempre avuto l’aria di
un ragazzo in pace con l’universo, uno di quelli che si accontentano di poco,
anche soltanto di essere un perfetto eremita dedito solo alla propria chitarra
e alla musica… e all’alcool e alla droga,
ma quelli per fortuna sono vizi di cui è riuscito a sbarazzarsi.
Ancora oggi Eddie si emoziona un sacco quando lo vede
chiudere gli occhi durante uno dei suoi assolo, perché quando Mike suona si può
chiaramente percepire il flusso di energia uscire dalle corde da lui pizzicate
con maestria e scaraventarsi come un uragano lungo tutte le sue ossa.
A Eddie non importa se Mike abbia i capelli bordeaux,
biondi o lunghi –adesso se li è pure tagliati come un sedicenne, tra parentesi-
né quale tatuaggio abbia deciso dovrà essere il prossimo da fare… gli basta
sapere che l’amico non ha mai perso la voglia di continuare a fare sua
qualunque chitarra incroci sul proprio cammino e di poterlo avere ancora
accanto a sé.
Ora lo sguardo è invece andato a finire su Stone, e
Eddie non può fare a meno di sorridere tra sé e sé: tra lui e Mike, esteticamente
parlando, non sa dire chi sia più cambiato.
E quanto stava sul cazzo a Stone, quando era appena
arrivato a Seattle? L’amico non l’aveva mai ammesso –più tardi si era solo
limitato a precisare di non averlo capito da subito, e il gesto era risultato
più che apprezzato- ma Eddie lo aveva percepito dalle frecciatine che il chitarrista
gli aveva scoccato in più di un’occasione.
Col senno di poi, il cantante aveva capito che a Stone
divertiva il fatto di poter punzecchiare liberamente qualcuno più grande di
lui, senza correre il rischio di ricevere qualche cazzotto come replica.
Infatti a quell’epoca Eddie era schifosamente timido:
qualunque cosa era in grado di metterlo a disagio, estremamente in soggezione,
perfino –soprattutto- il sarcasmo di Gossard.
(Poi, quando Ed aveva scoperto il suo secondo nome,
era stato il suo turno di ridere, ma lì si stava decisamente andando fuori
tema.)
Eddie è felice di essere riuscito ad aprirsi di più
con Stone, ed è altrettanto soddisfatto della fiducia che l’amico gli ha
accordato, rivelandosi per il ragazzo –ormai uomo- sensibile e brillante che in
realtà è sempre stato.
Gli dispiace che sia stata proprio una sua canzone, la
tormentata ma altrettanto delicata Daughter, a fungere da marcia funebre per quei nove poveri
sfortunati.
L’ultimo ad essere sbirciato di sottecchi è quello che
forse è riuscito a comprendere Eddie meglio di tutti, e lo ha iniziato a fare
ancor prima d’incontrarlo di persona; la verità è che Eddie non riesce proprio ad
immaginarsi gli ultimi vent’anni senza Jeff, è come se l’amico comparisse
prepotentemente in tutte quelle che sono le polaroid racchiuse nell’archivio
della sua memoria.
In Jeff i contrasti sono sempre riusciti ad albergare
pacificamente: adorava andare sullo skate e giocare a basket ma non era una
testa di cazzo come la maggior parte dei suoi coetanei che si cimentavano in
quelle discipline, il punk era la sua vita ma si poteva dire la stessa cosa
della pittura, e poi non era da tutti non scoppiare a ridere quando il nuovo
cantante della tua band ti si presenta davanti per la prima volta regalandoti
un collage che ha creato per non piombare a casa tua praticamente a mani vuote.
Inoltre quale contrasto migliore può esistere se non
quello tra il suo fisico da atleta temprato e i lineamenti dolci che il suo
volto assume quando si ritrova a sorridere?
(Poi, a volerla dire tutta: mica male per un
neo-cinquantenne, no?)
Anche in questo momento Jeff riesce a percepire il
filo invisibile che lo lega a Eddie e, con un impercettibile sorriso, sembra
quasi riuscire a strattonarlo.
L’amico non può far altro che ricambiarlo e benedire
l’abbraccio lancinante in cui si sono stretti quel maledetto 30 giugno 2000,
gesto capace di farli sentire incredibilmente vivi, nonostante le mani opprimenti della Morte stessero
imperversando fameliche intorno a loro.
Ég þakka þér þá
von sem þú gafst mér (Ti ringrazio per la
speranza che mi hai donato)
Ég þakka þér þá
von (Ti ringrazio per la speranza)
Lo spiazzo è deserto, ma a Eddie sembra ancora di
vedere le impalcature sopra il proprio capo, il fiume senza sosta di persone
esultanti e le loro sagome farsi tremule come fantasmi di morte attraverso il
velo di lacrime, ed è sicuro che anche Jeff, Stone, Mike e Matt stiano vedendo
esattamente quel che i suoi occhi percepiscono in questo momento.
Non si dicono una parola e si abbracciano in silenzio,
formando un cerchio intorno alle nove candele che hanno acceso e che ora stanno
bruciando al vento, e Eddie giura di sentirsi piccolo piccolo
fra le loro braccia, ma non è affatto una brutta sensazione… si sente a casa.
D’altronde, in quest’istante, da dietro un vascello di nuvole il Sole si sta svegliando dal letargo.
I
think even since Roskilde in 2000, I think that made everybody get into a real
unique perspective on where we were at and how fragile life is,
and
I think ever since then, every once in a while, we’ll just say one to another,
like,
“Can
you believe it? Can you believe we’re still doing this?”
– Jeff Ament
Note autrice
Beh, da dove cominciare?
Sono agitatissima, non potete lontanamente immaginare quanto lo sia: amo i
Pearl Jam e scrivere su di loro per me non può che essere un onore ma, allo
stesso tempo, sono profondamente terrorizzata.
Ho una sorta di timore reverenziale nei confronti di questa band: ho paura
di non riuscire a cogliere le dinamiche tra i componenti, le loro personalità…
insomma, tutti gli ingredienti che permettono loro di essere uno dei gruppi più
fantastici e veri di sempre.
C’è inoltre da aggiungere il fatto che, qui su EFP, la sezione a loro
dedicata sia praticamente un tempio sacro: ci sono poche storie, ma sono una
meglio dell’altra… credetemi, io mi sento veramente a disagio nel pubblicare ‘sta
cazzatina x’D
Beh, che altro dire?
Questa fanfiction è ispirata alla tragedia che,
il 30 giugno 2000, si consumò al Roskilde Festival: nove ragazzi morirono
durante l’esibizione dei Pearl Jam, e i componenti della band da quel giorno
cominciarono a chiedersi se fosse giusto o meno continuare a suonare.
Credo che le scene che il documentario Pearl
Jam Twenty dedica a quest’avvenimento siano tra
le più toccanti dell’intera pellicola: fate conto che pure mia madre s’è
commossa nel vederle, e lei dei Pearl Jam non sa quasi nulla…
Coomunque!
-
Il titolo della mia fanfiction (v’ho pure messo
sotto la traduzione, suvvia!) è un verso tratto da Hafssól, brano dei Sigur Rós.
-
La prima citazione (“Ég leita að lífi...”) è tratta da Hjartað
hamast (bamm bamm bamm), un’altra canzone
della band islandese, così come sempre loro è il brano Svo Hljótt, che ho citato
verso la fine della storia (“Ég þakka
þér þá von sem þú gafst
mér...”)
-
“It's an art to live with pain,
mix the light into grey/Lost
nine friends we'll never know, thirteen
years ago today”: versi
tratti da Love Boat Captain
dei Pearl Jam; scrissero questa canzone (assieme ad Arc e I Am
Mine) riferendosi alla tragedia di Roskilde… credo che un po’ tutto Riot Act sia
dedicato alle vittime di quel festival.
p.s. I versi originali erano “… lost nine friends we’ll never know,
two years ago today”: quando
viene eseguita ai concerti, Eddie cambia il numero degli anni trascorsi da quel
maledetto giorno
Osservazioni sparse sulla fanfiction
-
Se non ricordo male, all’epoca dei fatti Jeff aveva quell’improbabile
chioma arancione fluo (che però, ammettiamolo, a lui stava davvero bene!)
-
Andy è, ovviamente, il fantastico Andy Wood dei Mother
Love Bone
-
“due amici persi in una cortina di parole non dette e che in un velo di
lacrime si sono finalmente ritrovati.”: Se non ricordo male, il periodo in cui
Eddie viaggiava separato dagli altri ragazzi e in cui c’era scarsa
comunicazione tra i membri della band deve essere stato intorno al 1996-1997… l’ho
posticipato un pochino, giusto per farlo combaciare con la trama della fanfiction :3
-
Il figlio di Matt Cameron ha veramente suonato con il padre durante qualche
live dei Soundgarden
-
Il secondo nome di Stone è, per chi non lo sapesse, l’epico Carpenter :D
-
Gli stessi Eddie e Jeff in Pearl Jam Twenty ammettono di aver sviluppato una certa
complicità sin dalle prime telefonate
-
La prima volta che Eddie è volato a Seattle aveva veramente composto un
collage in aereo :’)
-
Le citazioni di Eddie, Stone e Jeff sono sempre tratte da Pearl Jam Twenty
Ho quasi finito i miei sproloqui, giuro! Volevo solo fare un’ultima cosa,
ovvero lasciare spazio ad un piccolo angolo
ringraziamenti:
-
Ringrazio mio fratello Daniel
per l’avermi spinto ad ascoltare i Pearl Jam: se oggi conosco un sacco di
musica è anche merito suo e dell’entusiasmo con cui riesce sempre a contagiarmi…
Non è da tutti condividere certe chicche con la propria sorella rompiballe,
quindi direi che il ringraziamento sia più che doveroso :’)
-
Ringrazio quella buon’anima di Selina che, da un bel po’ di mesetti a questa parte,
sopporta i miei scleri vari sulle allegre band capellone di Seattle… e supporta
i miei tentativi insani di scrivere su di loro, obviously
:D Tanti Sean Kinney a te, dolcezza!
-
Ringrazio anche Lisa_Pan
per essere stata gentilissima nei miei confronti e avermi spronato a mettermi
in gioco in questa sezione: sono anche le tue storie ad avermi avvicinato ancor
di più all’universo dei Pearl Jam, grazie!
-
Infine devo assolutamente ringraziare il mio guru, ovvero Angeline Farewell:
sono sicura al 99% che lei non leggerà mai ‘sta cavolata, ma ci tenevo a dire
che è lei l’autrice a cui m’ispiro di più. Già dal lontano giorno in cui ho
letto la sua Buchi Neri ho capito che
la mia vita non sarebbe più stata la stessa… grazie per averci regalato dei
capolavori, questo sito non ne avrà mai abbastanza. E grazie per essere sempre
riuscita a farmi emozionare… i tuoi scritti sono vita vera e propria.
YUP, CE L’HO FATTA.
Adesso vado a ritirarmi in un angolino, statemi bene e abbiate pietà! :’3
Bacioni,
Dazed;