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Autore: _Frame_    01/07/2013    6 recensioni
I piccoli difetti che ce li fanno amare diventano delle vere e proprie patologie.
Otto pazienti rinchiusi in un ospedale.
Un ospedale da cui non si potrà più uscire.
Benvenuti alla clinica Welt di Berlino.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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The Madhouse in Berlin

 

PROLOGO

Edificio ovest dell’ospedale psichiatrico Welt, Berlino.
Sezione H.
Zona altamente riservata e protetta.
Solo personale autorizzato.
 
Cella #1
Paziente: Alfred F. Jones
Crisi di identità multipla. Tendenza a compiere atti estremi sotto nome della sua personalità deviata. Il paziente si identifica con più d’uno di noti personaggi di fantascienza comparsi su riviste e in programmi televisivi.
Pericoloso verso la sua incolumità.
Sedare se necessario.
 
Cella #2
Paziente: Arthur Kirkland
Affetto da schizofrenia paranoica accompagnata da allucinazioni uditive e visive. Il paziente è stato precedentemente coinvolto in crimini estremi eseguiti – a suo dire – per ordine di voci provenienti da creature in comunicazione con il suddetto.
Pericoloso per l’incolumità altrui.
Trattare con psicofarmaci.
 
Cella #3
Paziente: Kiku Honda
Affetto da una grave forma di autismo denominata “Sindrome di Asperger”. Il paziente tende all’isolamento più estremo, ciò comporta la mancanza totale di comunicazione da parte di Honda e l’assenza di emotività.
Caso delicato, solo personale esperto.
Non trattare con psicofarmaci.
 
Cella #4
Paziente: Francis Bonnefoy
Grave forma di pansessualismo deviata da un complesso di sadomasochismo. Il paziente è affetto dal “Complesso del Borderline” che gli provoca attrazione sessuale verso qualsiasi persona/oggetto in grado di generargli piacere fisico.
Pericoloso per la sua incolumità e per quella altrui.
Trattare con cautela.
 
Cella #5
Paziente: Antonio Fernandez Carriedo
Affetto da una grave forma di pedofilia. Il paziente riscontra precedenti episodi di violenza fisica e psicologica su minori. È inoltre in atto il processo per la diffusione di materiale pedopornografico da parte di Carriedo.
 
Cella #6
Paziente: Lovino Vargas
Affetto da una pesante forma di isteria. Il paziente riscontra l’uso di atti violenti sia verbali che fisici verso chiunque tenti di stabilire un approccio. Si registra come possibile causa il trauma infantile.
Trattare con sedativi se necessario.
Autorizzato l’uso dell’elettroshock.
 
Cella #7
Paziente: Ivan Braginsky
Grave sindrome della doppia personalità. Il paziente manifesta duplice atteggiamento, può risultare estremamente pericoloso per l’incolumità altrui nonostante l’apparenza innocua. Si registrano gravi precedenti penali.
Massima allerta.
 
Cella #8
Paziente: Natalia Arlovskaya
Pluriomicida. La paziente presenta una grave forma di deviazione mentale tutt’ora sconosciuta che si manifesta con crisi di possessione. Tutti i suoi precedenti penali sono sfociati in brutali omicidi seriali.
Autorizzato l’uso della camicia di forza.
Allerta estrema.
 
Cella #9
Paziente: ? 
 
Un intero edificio solo per otto persone.
Otto persone malate, pericolose per la società. Il lerciume e lo schifo che deve essere tenuto nascosto, non è consentito nemmeno far finta che esistano mostri del genere.
Mostri.
Eppure, inchiostrate tra quei pochi fogli che mi rigiro nervosamente tra le dita sudaticce, io non vedo altro che le vite di otto esseri umani.
Li rileggo ancora una volta, soffermandomi però sui loro nomi e non sulla descrizione della patologia. Non è ciò che mi hanno insegnato. Bah... al diavolo!
Non vi è trascritto nemmeno un nome tedesco. Qui, in un angolo di Berlino dimenticato da Dio come un vecchio e cupo giardino ormai invaso dall’edera selvatica, si è radunato un microcosmo che non è altro che la copia miniaturizzata del mondo in cui vivo.
Rilego con attenzione ogni scheda nella rispettiva cartella clinica, gialla, che riporta il nome del paziente a caratteri neri, scritti a mano con un pennarello indelebile.
Ripongo tutto nel cassetto dell’archivio di metallo, fin troppo grande per quelle sole otto cartelle, ma non si sa mai. Qui, i pazienti sono sempre fin troppo ben accolti.
Guardo l’orologio appeso al muro, tondo e bianco. Ogni cosa è fottutamente bianca in questo edificio! Sono quasi le nove, tra qualche minuto sarà ora di iniziare la solita ispezione mattutina prima della terapia quotidiana.
Mi massaggio le tempie, stanco e avvilito. Forse ho tempo per un altro caffè.
Mi infilo il camice lindo come l’abito di una sposa ed esco dall’ufficio, chiudendolo rigorosamente a chiave.
C’è sempre il tempo per un altro caffè.
Il corridoio è immerso nella luce bianca delle lampade artificiali. Non si bada a spese qui, le lampade al neon sono attive ventiquattro ore su ventiquattro.
Qualche infermiera mi passa di fianco, stringendo cartelline rigide rigonfie di scartoffie appoggiate al petto. Sono sempre molto carine e disponibili, nonostante l’ambiente, infatti mi salutano tutte con un cenno del capo.
“Buongiorno, Dottor Beilschmidt.”
 Io ricambio, ma senza tutto quell’entusiasmo.
Quando sono già sparite dalla mia vista, butto l’occhio alle mie spalle, godendomi il panorama ben meritato delle loro natiche sode fasciate dalle divise bianche. Eh, sì, solo personale altamente qualificato. Se solo quelle gonne fossero un po’ più corte non mi lamenterei sempre così tanto.
 
Il caffè è più rovente dell’inferno. Sembra un ferro da stiro acceso, sciolto in tazza per la gioia della mia lingua. Con tre sorsi è già nel mio stomaco.
Mi appoggio alla parete, ricontrollando un altro orologio da muro, sincronizzato al secondo con tutti quelli posizionati in questo edificio. Sono le nove e due minuti, ora dovrei proprio andare.
Appoggio la tazza sul tavolino di fianco alla macchinetta dell’espresso, l’inserviente verrà a recuperarla più tardi per portarla in cucina a lavare.
C’è una porta, proprio di fianco al tavolo del caffè – tazze, cucchiaini, zucchero e anche del latte! - anch’essa è bianca, ma nella parte più alta è stato appiccicato un adesivo triangolare dentro al quale sono disegnate due figure stilizzate. Quella a sinistra indossa una gonnella, l’altra è un semplice omino.
Scuoto la testa, ripetendomi quella domanda che mi sono sempre fatto dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare qui.
Chi cazzo è quell’idiota a cui è saltato in mente di mettere il cesso di fianco all’area del caffè?!
Proprio mentre mi scervello su questo dilemma esistenziale, la porta si spalanca brutalmente, e ne esce una figura altrettanto brutale e cafona. Mi volto di scatto, facendo finta di non averlo notato, ma è troppo tardi.
Gilbert si sistema la cintura dei pantaloni – bianchi – e mi è subito addosso, stringendomi il collo con un braccio come fossimo al raduno dell’Oktoberfest.
“Wahahahah, il Dottor Beilschmidt è uscito dal suo limbo ed è tornato tra i mortali. Siamo proprio mattinieri oggi, eh, Ludwig?”
Lo spingo via, trattenendo a fatica l’impulso di rifilargli un pugno nello stomaco. Mi risistemo il camice che mi ha gentilmente stropicciato e mi avvio verso il cuore dell’edificio.
“Il mio lavoro non ti riguarda, Gilbert. Ero stato chiaro quando ho acconsentito la tua assunzione, qui. Non devi permetterti di intrometterti.”
“Eh?! E chi si intromette? C’è forse una legge che mi vieta di dare il buongiorno al mio caro fratellino?”
Continua a seguirmi come una stupida oca, con quella sua parlata oscenamente fastidiosa ed inadatta ad un ambiente come questo.
“No, ma ce n’è una che ti impone di svolgere il lavoro per il quale sei profumatamente pagato.”
“Facevo una pausa.”
“Alle nove e due minuti? Un po’ precoce.”
“Non venire a farmi i conti in tasca! Merda...” Esclama acido.
“E pensare che qui la guardia sono io. Ripeto, è la grandiosa autorità che ti sta di fianco quello che dovrebbe occuparsi dell’ordine di questa baracca. Quando sei fuori da quella gabbia di matti sono io il capo, Herr Doktor!”
Lo ignoro.
Dopo anni di condivisone forzata ho capito che ormai è questa l’unica strategia.
Cristo, proprio quando credevo di essermi sbarazzato di lui ecco che mi ripiomba tra le braccia come un pacco postale. Proprio qui dentro, poi!
“Maledetta sia la volta in cui ho acconsentito...” Gli ripeto, sperando di cacciarlo dalla mia vista, almeno per ora.
Lui mi batte una pacca sulla spalla.
“Eh, già.” Dice con aria trionfante.
“Nonostante tu prenda il doppio del mio stipendio e nonostante che nel corso degli anni tu sia diventato almeno quattro volte più ricco di me, io resto sempre il più gran figo della famiglia. Vero, Lud?”
Devo mantenere la calma.
Sono in un luogo in cui la calma è sacra. Esercito una professione dove la calma è il primo comandamento.
Devo. Stare. Calmo.
 
Intanto, siamo già di fronte alla porta blindata. Quella porta blindata.
Arresto il passo, bloccando lo sguardo sulla piccola ruota in acciaio inserita sulla parte sinistra. Il meccanismo di apertura è simile a quello di una cassaforte. Solo pochi, però, conoscono la combinazione.
Mi porto il pugno chiuso davanti alla bocca, dando un paio di colpi di tosse, sperando che Gilbert capisca che deve togliersi dalle palle.
Lui mi colpisce nuovamente la spalla.
“Beh, salutami il Paese delle Meraviglie. Io torno ad assicurarmi che il Bianconiglio non scappi di nuovo.”
Se ne va ridendo.
Idiota.
 
La porta è alta quanto tutto il corridoio. È pesantissima da aprire, devi afferrarla con entrambe le mani per aprirti uno spazio.
Inizio a girare meccanicamente la ruota, come tutti i santi giorni, pronto a riaffrontare quell’inferno.
Come. Tutti. I. Santi. Giorni.   
   
 
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