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Autore: DK in a Madow    03/07/2013    3 recensioni
...guardò i suoi piedi, addolorato. Sembravano gigli d’oro, tanto erano martoriati e deformati. Eppure, lei sorrideva, felice nella sua danza, sembrava giocare con ogni sguardo di ogni singolo passante e di lui che era lì, immobile, a perdersi nei suoi gesti, nei suoi passi, nel sole di primavera che lei portava negli occhi.
***
Parigi, 1884 e un'insolita primavera.
Genere: Erotico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Robert Plant
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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La Fille Danse

… quand elle joue avec moi.

La Fille Danse

A singer in a smoky room,
A smell of wine and cheap perfume.
For a smile they can share the night
It goes on, and on, and on, and on!
(Journey – Don’t Stop Believin’)

Look for the girl with the sun in her eyes and she's gone.
(Beatles – Lucy In The Sky With Diamonds)

Oh, did you ever believe that I could leave you standing out in the cold?
(Led Zeppelin – In The Light)











Parigi, 1884, primo giorno di primavera.

Ombre, ghiaia e stridii di carrozze, le strade di Parigi e il suo tramonto malato, lo scorrere delle acque della Senna un lieve sussurro nell’aria. In quelle strade grigie, niente faceva pensare che fosse arrivata la primavera, il profumo dei fiori era scomparso dietro un pensante tanfo di fogna e muffa. Nessuno sembrava preoccuparsene, nei loro completi neri ed eleganti, quando si trattava di nobili signori, o nei loro abiti sporchi di fuliggine e petrolio, quando ai bordi delle strade i poveri operai e spazzacamini tornavano a casa stanchi e affamati. Eppure un barlume di felicità doveva esserci in qualche angolo della città dell’amore, nascosta da qualche parte insieme alla primavera. Lui l’aveva trovata. La sua ombra scivolava indiscreta tra quella delle altre anime disperse simili a fantasmi, muovendosi elegante e spigliata sotto le sue scarpe di vernice nera tirate a lucido e allungandosi tra i ciottoli appuntiti e lerci.
Lo chiamavano l’Anglais, non che fosse il solo nella città, ma perché era unico. Col suo fare garbato e col sorriso sghembo che nascondeva dietro a labbra perfette, sottili ma ben delineate, aveva conquistato la faccia felice e viva di Parigi, quella fatta di prostitute e bevitori di vino o assenzio, quella degli artisti di strada, di giocolieri, maghi e ballerini, di menestrelli innamorati di donne che appartengono a tutti tranne che a loro stesse, di poeti e pittori, mendicanti e ladri. Montmartre, il quartiere del peccato*, era ormai casa sua.
Nelle vene de l’Anglais scorreva nobiltà, buone maniere e i frammenti di tutte le aspettative che il padre aveva costruito su di lui sin dall’infanzia, inculcandogli l’arte del dovere, del denaro e della famiglia; il giovane, però, aveva ereditato il cuore di sua madre, nobile nei sentimenti e poeta, assetato di libertà. Col nome di Robert Anthony Plant arrivò a Parigi e questa lo accolse e lo ribattezzò l’Inglese. Lui non aveva un nome, solo un posto di origine e questo bastava, con quello sguardo blu di malinconia e quel sorriso sempre pronto a spuntare, sempre, perché il cuore leggero di un poeta non può fare a meno del sorriso. E cantava, ma questo non lo sapeva nessuno. La sua voce era solo il mezzo attraverso il quale ciò che gli suggeriva il cuore raggiungeva l’orecchio di qualche giovane donna, come quelle che al Chat Noir si sedevano sulle sue ginocchia e offrivano il seno ai suoi baci, il collo al solletico che i suoi ricci dorati provocavano sulla loro pelle.
Era l’equinozio di primavera e lui camminava lungo il Boulevard Rochechouart, diretto proprio al Chat Noir, immerso nel suo completo porpora, le mani nelle tasche e una cravatta nera d’inchiostro che scendeva lungo la camicia bianca, avvolta in un gilet bordeaux, i capelli raccolti in una coda bassa ed elegante.fille1 Annoiato si aggirava in cerca di qualcosa senza sapere cosa fosse, avvertendo nell’aria il sentore della novità. Quando arrivò al caffè presso il quale era cliente abituale, dovette arrestarsi, il suo orecchio richiamato da una melodia gitana, scaturita dalle mani frenetiche di alcuni zingari e le loro chitarre alle quali si aggiungeva il suono cristallino di un tamburello. Robert si voltò, incantato da quella musica, ma quando si avvicinò incuriosito, rimase letteralmente stregato. Una ninfa dolcissima dalle forme gentili, si muoveva leggera sulla strada, i lunghi capelli color grano intrecciati intorno al volto e una rosa tra di essi, il vestito bianco spezzato solo da una piccola cintura di raso rosso in vita, un tamburello tra le mani e un velo bianco tempestato di sonagli attorno i fianchi. I piedi nudi sfregavano sulla strada a ritmo di musica e vicino ad essi vi era un cappello blu nella quale vi erano pochi spicci.
Robert si avvicinò ancora di più, fino a quando tra lui e la giovane non rimase che un metro di distanza; guardò i suoi piedi, addolorato. Sembravano gigli d’oro**, tanto erano martoriati e deformati. Eppure, lei sorrideva, felice nella sua danza, sembrava giocare con ogni sguardo di ogni singolo passante e di lui che era lì, immobile, a perdersi nei suoi gesti, nei suoi passi, nel sole di primavera che lei portava negli occhi. Dopo un po’, iniziò a frugare tra le tasche; vi trovò solo sessanta sapeque e li lasciò tintinnare nel cappello. Lei si voltò a guardarlo, raggiante, la gratitudine stampata sul volto.
Potessi io stesso accompagnar la sua danza col canto***, pensò il giovane inglese che fece per andarsene quando una voce piccola e acuta lo fermò.
- Signore?
Sì voltò di nuovo verso la ragazza e la vide togliersi la rosa bianca striata di rosa dai capelli, per poi passarsela leggera sulle labbra carnose. Lei gliela porse col più intenso degli sguardi, con quegl’occhi che sembravano fiordalisi, e quando lui aprì le mani per ricevere il fiore, sfiorò per un attimo la pelle delle sue mani, fresca e liscia come seta.
-Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome? – recitò lui, guardandola negli occhi, il cielo che ammirava il suo riflesso nel mare, prima di baciarle il dorso di una mano, avvertendone il profumo, anch’esso di rosa. Poi si allontanò, sistemandosi la rosa nell’occhiello, per poi buttarsi nel locale che già era pregno dell’odore di tabacco. Le luci soffuse e il fumo, rendevano sfuocate le sagome degli uomini seduti ai tavolini; Robert prese il posto al solito tavolo, quello vicino alla finestra, ricambiando con un gesto della mano i vari saluti che gli arrivavano dai svariati angoli del locale. Sophie, la sua cameriera di fiducia, arrivò con un bicchiere vuoto e una bottiglia di vino rosso, ammiccando e sistemando la lunga chioma rossiccia.
- Desidera altro, monsieur?
- Per questa sera no, Sophie. – rispose lui gentilmente, il mento sopra le mani incrociate e i gomiti poggiati sul tavolo.
- Come desidera! – disse lei, rammaricata e alquanto delusa, scomparendo nella nuvola di fumo che aleggiava nel caffè. Ben presto, anche il fumo della sigaretta di Robert si aggiunse a quello degli altri, mentre nell’altra mano stringeva il calice di vino rosso. Iniziò a bere, gli occhi fissi su qualcosa oltre la finestra. Anzi, qualcuno. La giovine dalla pelle d’avorio continuava a muoversi, a ballare, a regalare sorrisi ai passanti. Ogni tanto qualche monetina si aggiungeva alle altre, ma Robert notò con piacere che nessuno riceveva il regalo più grande. La sua attenzione. Quella era stata rivolta solo a lui e nel preciso momento in cui l’uomo si rese conto di ciò, una strana sensazione s’impossessò del suo petto. Strana, ma piacevole. Continuò a bere, il profumo del vino che si mescolava con quello della sua acqua di colonia, ripensando al calore dei suoi denti che si sporgono tra le labbra, arrivando alla conclusione che quella zingara sconosciuta era la persona che più desiderava al mondo in quel momento. Quell’aria innocente e sensuale allo stesso tempo, quel modo di ballare a metà strada tra il piacere e il dolore erano qualcosa d’irresistibile.
Le ore passarono veloci, si succedevano senza che lui se ne accorgesse, fino a quando lei e i suoi compagni non raccolsero le loro cose per andarsene. Fu allora, che dopo aver rifiutato le attenzioni di tutte le ballerine del Chat Noir, si alzò dal tavolo e uscì in strada, dove l’unica luce oltre quella dei lampioni, era quella delle stelle. La inseguì, scalciando di tanto in tanto una pietra, fin quando lei non si accorse della sua presenza. Si voltò, il rumore della gonna che strisciava sulla ghiaia e quello dei sonagli sui fianchi ruppero il silenzio, e così restò ferma, la sua silhouette che si stagliava contro la luce calda di un lampione. Quando le fu vicino, Robert si mise di fronte a lei, cercando il suo sguardo; lo trovò innocente e infuocato come poche ore prima, attraversato da un alone di mistero, forse quello che accompagna i nomadi, che ormai hanno conosciuto il mondo e ne custodiscono i segreti.
fille2- Buonasera! – sussurrò lei, abbozzando un sorriso.
Robert allungò una mano sui suoi fianchi e lei abbassò la testa per seguirlo con lo sguardo; con un gesto, le slacciò il velo dai fianchi, facendolo tintinnare nel silenzio della strada, e lo passò dietro la sua nuca, tirando le estremità sulle sue guance. Lentamente l’avvicinò, respirando a pieni polmoni il profumo delle sue guance, un misto tra sapone di Marsiglia e rosa, il respiro di lei che si scontrava sul suo collo, appena sopra il colletto della camicia.
- Buonasera. – sussurrò lui, prima di avvicinare le proprie labbra a quelle di lei, sfregandole delicatamente, i loro nasi che si scontravano dolcemente. Ben presto scattò una scintilla e la lingua di Robert superò la barriera delle labbra di lei, prendendo confidenza con la sua bocca, col suo sapore.
Fu lei a interrompere il momento, prendendolo per mano.
- Andiamo.
- Dove?
- Seguitemi.

***

Il prato sembrava ricoperto d’argento così come la superficie della Senna, entrambi attraversati dal fascio lunare. La giovane guidava Robert nel piccolo giardino abbandonato, dove dominava un profumo di rose, viole e gelsomino. Quando furono vicina alla riva si baciarono di nuovo, le braccia di lei allacciate al suo collo, quelle di lui sotto il suo mento, i pollici sulle guance. Il velo le scivolò dalle spalle, suonando argentino tra l’erba, mentre le lunghe dita di lui scivolavano sulle braccia, provocandole la pelle d’oca, mentre lei iniziava a spogliarlo. Giacca, gilet e camicia raggiunsero il velo di lei, ai loro piedi, lasciando il petto di lui esposto ai raggi lunari, dandogli un che di marmoreo. Lei lo guardò sorpresa e compiaciuta, ammirandolo con un sorriso, prima di portare le dita esili dietro il suo collo per sciogliergli i capelli, i quali ricaddero in avanti, liberando un piacevole profumo di vaniglia.
- Da dove vieni? – chiese lui, iniziando a baciarle il collo e abbassando le spalline del candido vestito di lei.
- Da tutti i posti e nessuno. – rispose lei, buttando il collo indietro, mentre lui accoglieva i suoi seni tra le mani. Sembravano fatti apposta per riempigli i palmi, così piccoli e sodi, ma perfetti, da buttarci la bocca, proprio come stava facendo lui, strappandole qualche piccolo gemito acuto.
- Lei da dove viene, Signore?
- Da Londra. La grigia e fredda Londra. – rispose lui, abbassandole completamente il vestito, lasciandola nuda, avvolta solo dalla brezza di mezzanotte. Gli porse una mano e l’aiutò a scansare il vestito, prima di accompagnarla sotto un albero di gelsomino. Ne colse alcuni steli, per poi intrecciarli perfettamente nei capelli lisci e setosi di lei, prima di spingerla ai piedi del tronco, facendole poggiare delicatamente la schiena sull’erba umida. Poi la sovrastò e lei lo aiutò a liberarsi dei pantaloni, i quali raggiunsero subito gli altri indumenti, prima che si distendesse su lei che sembrava essersi fatta piccolissima rispetto a lui così imponente e virile. Robert affondò il naso tra i capelli di lei, aumentando il proprio piacere inebriandosi le narici del profumo di gelsomino.
- Un profumo e un odore d'eternità – prese a sussurrare, come immerso in una visione, in completa estasi - un odore di vino dorato, bronzeo, un odore soave di rose, di antica felicità. Di ebbra felicità di morire a mezzanotte, felicità che canta: il mondo è profondo e più profondo di quanto il giorno pensasse!
- Che cos’è, mio Signore? – chiese lei, tremando sotto le sue mani che la esploravano avide.
- Nietzsche.
- Un poeta? – domandò ancora.
- No, un sognatore. Forse un folle. – disse lui, baciandole il ventre – Hai mai incontrato un poeta?
- Voi!
- Come fai a saperlo? – sorrise Robert, baciandole le gambe sottili e toniche.
- Me l’hanno detto i vostri occhi. Puliti, sinceri, ma profondi. Baciate come un dio, parlate come un poeta.
- Dammi del tu, piccola dea. Siamo così vicini, a che serve tenersi distanti con le parole? Chiamami Robert, questo è il mio nome. Rendetelo una preghiera! – disse, prima d’insinuarsi tra le pieghe del suo desiderio, assaporandolo, mangiandone e saziandosene. La ragazzina prese a tremare, il piacere la rendeva schiava e padrona allo stesso tempo, poiché Robert non riusciva più staccarsi dalla sua carne così dolce e fresca, avvertendo l’imminente desiderio di farne parte, di congiungersi, incoraggiato dalla voce di lei che lo invocava.
Accolse la sua preghiera, lasciandosi accogliere dalla sua rosa costellata di rugiada, tra gemiti rochi e prolungati. Lei chiuse gli occhi, sospirando pesantemente, stringendo tra le dita sottili i fili d’erba sotto di lei.
- Come ti chiami, mia dolce rosa? – chiese lui, annaspando.
- Aimée.
- Dici sul serio?
- Sì. Mi chiamo così! – sorrise lei, stringendo le spalle di lui con le mani, come per aggrapparsi ad una roccia.
- Mon Aimée. – sussurrò lui, spingendosi sempre di più dentro di lei – La mia dolce amata.
Ormai erano una cosa sola, mentre Robert spingeva in lei con trasporto, il cuore che gli martellava nella gola, mentre sotto di lui Aimée si arcuava contro il suo ventre, la schiena umida di rugiada. Quando raggiunsero l’apice, volsero le loro urla al cielo, le bocche socchiuse e gli occhi serrati, i muscoli tesi e scossi dal piacere.
Robert si accasciò su di lei, le labbra vicine alla sua guancia e gli occhi che cedevano al sonno.
- Aimée – riuscì a dire – La mia primavera…

***

All’alba, gli occhi di Robert si socchiusero pigramente, le sue labbra vicinissime a quelle di lei. Era bellissima, proprio come la sera prima. Pensò di svegliarla, così avvicinò la bocca al suo orecchio.
- This is the springtime of my loving, the second season I am to know.
Aimée si svegliò, concedendogli quel sorriso che per una notte li aveva uniti sotto un tetto di gelsomino.
- Oh, cantate mio signore. – disse, portandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Sì mia signora. – disse lui, puntellandosi su un gomito - You are the sunlight in my growing. So little warmth I've felt before. Riesci a capirmi, mia amata?
- No mio signore. – disse rammaricata – Ma avete una voce così soave, una così tale dolcezza, che mi sembra impossibile credere che mi stiate offendendo.
- Oh, no mia signora. – disse lui, baciandole dolcemente le labbra – Mio amore. Queste parole le tradurrò, per te.
- E io le porterò tra i miei passi da nomade e in quelli di danzatrice, mio bellissimo signore.
Si sorrisero, le parole erano finite e l’alba stava risvegliando Parigi, illuminandola col tiepido sole di primavera.

















Note:
* sono le parole che in Moulin Rouge pronuncia il padre di Christian.
** i gigli d'oro sono una tradizione delle donne cinesi, ma non ve la spiego perché è davvero cruenta. Se volete sapere di cosa si tratta, cercate Loto d'oro oppure Gigli d'oro.
*** sono parole tratte da Così Parlò Zarathustra.




Angolo della pazza:
Salve! :D
Non riesco a stare lontana da questo fandom, anche perché avevo in mente questa OS da un sacco di tempo.
Niente, ringrazio come sempre Ire, che ha saputo con largo anticipo di questa storiella sgangherata.
Il titolo è ispirato a una canzone di Damien Rice.
Un abbraccio,
Franny

   
 
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