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Autore: Elos    03/07/2013    5 recensioni
"Steve aveva aperto gli occhi e aveva scoperto che il mondo era finito mentre lui dormiva. Tutti i giorni che erano venuti poi erano stati giorni dopo, un giorno, due giorni, tre giorni, un mese, undici mesi, trecentosessantacinque giorni che avevano fatto un anno, trecentosessantasei giorni Dopo la Fine del Mondo.
La parte più difficile, ha imparato Steve, non è l'Apocalisse. La parte più difficile è quel che accade dopo [...]
"
Nata per la Settimana tematica #1: SONGFIC indetta da Pseudopolis Yard.
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bruce Banner/Hulk, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Guida pratica al Giorno Dopo

I've got my ticket for long way around
Two bottles of whiskey for the way
And I sure would like some sweet company
Yo I'm leaving tomorrow, what do you say?

You're gonna miss me - Lulu and the Lampshades


1.
25 aprile 2012
335 giorni D.F.M.


La canzone gli rimane incastrata dentro da qualche parte tra Philadelphia e Baltimora.
Si è lasciato New York alle spalle da qualcosa più di tre ore: non saprebbe dire precisamente dove sia finita New York e dove sia cominciata l'I-95, perché la città aveva continuato ad invadere il paesaggio anche dopo che i cartelli ne avevano stabilito il limite, insinuandosi ai lati della strada, riempiendone i margini con un reticolo di fabbricati e insegne.
Philadelphia passa in lontananza. Steve prende in considerazione l'ipotesi di fare una deviazione e fermarsi a pranzare in città – la colazione sembra un evento lontanissimo, vista da questo lato del mezzogiorno – ma è partito da New York che era già mattino inoltrato; conosce la strada, ma non veramente, e non vuole rischiare di arrivare a Washington in nottata. Ha il sospetto che Washington sia rimasta una città costosa. Ha il sospetto, anche, che tutto quel che è riuscito a prelevare dal suo conto in banca – e che gli sembra una cifra favolosa, ma è tutta apparenza, perché era una cifra favolosa, sicuro, ma settant'anni di inflazione prima – non sia abbastanza per coprire le spese del viaggio.
Perciò, Washington. Se procede senza fare deviazioni, può essere lì nel primo pomeriggio. Guardarsi intorno. Avere il tempo di trovare un posto economico per dormire, per mangiare, per fare benzina.
Trovare una mappa sembra essere più complicato di quanto non si fosse aspettato. Stark gli ha spiegato come usare quella del cellulare: Steve l'ha lasciato parlare, l'ha ringraziato, ha aspettato di essere ai confini di New York e poi ha giudiziosamente buttato il cellulare in un secchio, perché, ehi, salve, tecnologia S.H.I.E.L.D.. Non è tanto scemo da credere che non possano seguirlo lo stesso, ma non vede perché dovrebbe rendere loro facili le cose.
Si era aspettato che lo fermassero prima che potesse lasciare la città; prima di Manhattan, prima di Loki e dei Chitauri e dei Vendicatori sull'Elivolo, avevano tenuto il guinzaglio bello stretto, e Steve si era aspettato... non si era aspettato davvero che le cose cambiassero. Dev'essere il modo in cui Fury ringrazia, questo, ehi, grazie per averci salvato collettivamente le chiappe, oh, hai una moto, oh, hai anche i documenti, accidenti, guarda come fingiamo tutti di guardare dall'altra parte mentre galoppi in sella incontro all'orizzonte.
E' una giornata di cielo perfetto, poche nuvole e molto sole. La strada è aperta, lui ha il serbatoio pieno e soldi in tasca sufficienti per fare colazione. Non c'è nessuna Apocalisse in programma nel pomeriggio.
Tutto sommato, considera Steve, ci sono modi peggiori per essere ringraziati.

Perciò si ferma un po' prima di Baltimora, ma molto dopo Philadelphia; la stazione di servizio ha una pompa di benzina – ed è un trauma tutto nuovo scoprire quanto precisamente costi la benzina nel Ventunesimo Secolo – ed una specie di piccola tavola calda che spande un odore magnifico di unto e frittelle. Ordina una colazione completa e compra una cartina: una vera cartina fatta di carta e inchiostro, con una legenda annotata di lato e nessuna voce che ti spiega cortesemente che hai sbagliato strada per la ventitreesima volta, e se potessi solo essere un po' meno imbecille e fare inversione alla prossima curva, grazie.
La canzone gli rimane impressa lì, incastrata nella testa, perché ci sono due bambine sedute al tavolo di fronte al suo che battono i bicchieri sul tavolo e cantano when I'm gone, when I'm gone, you're gonna miss me when I'm gone, e Steve al principio pensa sia una filastrocca. Una specie di filastrocca. Le bambine battono le mani, battono le mani sui bicchieri, spostano i bicchieri, battono ancora le mani, orlo del bicchiere contro il palmo, orlo del bicchiere contro il tavolo, orlo del bicchiere contro il palmo, mani sul tavolo, bicchieri rovesciati. E ancora, ancora, ancora. Spostano i bicchieri così in fretta da dare l'impressione che si annoderanno le mani se vanno solo un po' più svelte.
When I'm gone. I got a ticket for a long way round, ti mancherò, ti mancherò, quando me ne sarò andata, ti mancherò. Ho un biglietto pronto per un lungo viaggio. Steve ha una moto, nessun telefono, nessuno che lo cerchi. La strada aperta. E' così lunga, vista da qui, e se ci pensa sopra troppo a lungo sembra diventare infinita.
When I'm gone, fischietta Steve lasciando la tavola calda. Non sa se sentirsi sollevato, depresso, inquieto, ma il motore parte con un rombo pieno e familiare che sembra tenere la malinconia a bada. C'è troppo sole in cielo, e l'Apocalisse che hanno tutti evitato per un pelo pare ancora questione di cinque minuti prima, vicinissima. E' ancora presto per i pensieri tetri.
When I'm gone, when I'm gone. Ti mancherò, quando me ne sarò andato.



Il problema è: Steve Rogers aveva puntato l'aereo di Schmidt verso il basso e aveva guardato i ghiacciai dell'Artico avvicinarsi con la piena consapevolezza che sarebbero stati l'ultima cosa che avrebbe visto. Non era stata una buona consapevolezza, ma era sempre meglio dell'alternativa. L'impatto l'aveva sbalzato fuori dal sedile e poi c'era stata l'acqua, acqua a fiotti che era entrata da ogni dannata falla apertasi nell'aereo, e i cinque minuti che erano seguiti erano stati cinque minuti maledettamente sgradevoli – specie perché il corpo di Steve non voleva convincersi del fatto che fosse finito, andato, kaputt – ma erano stati cinque minuti, cinque minuti passano in fretta, e alla fine Steve era stato sicurissimo di essere morto.
In effetti, il tutto si può riassumere così.
Steve era stato convinto di essere morto e poi l'avevano scongelato e Steve adesso non è più morto. E, insomma. Se l'avessero scongelato, diciamo, una settantina d'anni prima, non gli sarebbe precisamente dispiaciuto essersi sbagliato, ma settant'anni dopo...
Settant'anni dopo, pensa Steve, be', settant'anni dopo sono settant'anni troppo tardi.

Ha passato l'anno seguito allo scongelamento tenendo il muso a tutti: a Fury, allo S.H.I.E.L.D., alla vita. Si è tenuto occupato sfondando un paio di sacche da palestra alla settimana, leggendo vecchi giornali, imparando a usare il computer. Il computer è stata una scoperta. Anche i giornali sono stati una scoperta: il giornalismo, oggi, sembra consistere nella distribuzione del maggior numero di notizie imbarazzanti e traumatiche che sia possibile tirar fuori nell'arco di una giornata, e Steve pensa che fosse un milione di volte meglio settant'anni prima.
Nick Fury non gli permette di lasciare gli edifici dello S.H.I.E.L.D., e Steve deve sforzarsi di prenderla con garbo, di adattarsi, ma si sente un prigioniero e la cosa non fa nulla per affievolire il senso di nostalgia atroce che sembra mangiargli il cuore.
Gli manca tutto, le cose stupide e le cose serie e gli manca il cibo e l'odore dell'aria e il ricordo del profilo in crescita di New York, più basso e meno aguzzo di com'è oggi. Cerca di non pensare a Peggy. Cerca di non pensare a Bucky. Qualcuno si è offerto di procurargli i fascicoli della sua vecchia squadra – chi è vivo, chi è morto, chi c'è ancora e chi è già stato sepolto – ma Steve si è fatto due calcoli e ha stabilito che forse Morita è ancora vivo, probabilmente Peggy, e, se lo sono, oggi devono avere più di novant'anni. Devono avere dentiere che traballano e camminare appoggiandosi a una stampella e avere nipoti e pronipoti e forse la demenza senile. Steve pensa che vederli anziani non sarebbe poi così male – vorrebbe dire che sono andati avanti, che hanno avuto una vita lunga e piena, che hanno visto il mondo cambiare – ma vederli e riconoscerli e che loro non si ricordino di lui...?
No. No, grazie tante, ma no. Mette da parte i fascicoli senza neanche guardarli.

Steve tiene il muso al mondo per un anno.
E poi c'è Loki e il mondo minaccia di finire da un momento all'altro e tutti cominciano ad agitarsi – tranne Nick Fury, che aveva un piano d'emergenza. All'apparenza, il piano d'emergenza di Fury ha tutte le caratteristiche di un treno che deraglia: le personalità brillanti hanno l'infelice tendenza ad essere scarsamente equilibrate e molto disposte a credere di avere sempre ragione, e metterne sei assieme in una sola stanza e sperare che collaborino è come mettere nitroglicerina in fialette di cristallo e sperare che scrollandole per bene non esplodano.
Tuttavia, il treno che deraglia sembra arrivare in stazione malgrado il buco nel cielo e le balene volanti che ne sono emerse. Il pazzo in costume cornuto viene sbatacchiato un po' dal dottor Banner e tutto sembra finire per il meglio.
Adesso, continuare a tenere il muso sembra un po' un insulto ai morti; un po' come sputare su quelli che non ce l'hanno fatta. Lo S.H.I.E.L.D. fa riemergere dal nulla una moto che, se non è la stessa che Steve guidava settant'anni prima, ne è la sorella minore, e appaiono documenti, una carta di credito, e poi tutti quanti si girano e guardano dall'altra parte...
… e Steve galoppa incontro al tramonto.

2.
18 maggio 2012
359 giorni D.F.M.


Il profilo di New York gli viene nuovamente incontro ventiquattro giorni più tardi. C'è un proliferare di gru e di impalcature ad ogni angolo: stanno ancora cercando di tirar via i detriti dalle strade, e nessuno sembra saper bene cosa fare con la balena gigante in Central Station.
Steve passa con la moto dalle parti della Torre Stark; non ci sono più buchi ai piani superiori, e le strade là attorno sono sgombre e in migliori condizioni del resto di Manhattan, ma nessuno sembra essersi occupato di sostituire le lettere cadute alla scritta. C'è rimasta solo la A, così.
Tutto sommato, considera Steve, in circostanze simili è difficile a credere alle coincidenze.

Tre giorni più tardi, Tony Stark lo rintraccia a Central Park e procede prontamente a sequestrarlo e a portarselo a casa.
“L'ho trovato che vagava,” spiega alla signorina Potts – che è una rossa bellissima, con gambe lunghe un miglio e un mare di lentiggini sotto agli occhi azzurro cielo, circondata da un'aria di competenza, professionalità e intelligenza che riesce ad essere dieci volte più affascinante delle sue gambe infinite. “Smarrito, infreddolito, e stava mangiando un panino. Un panino, Pepp. Aveva intenzione di passare la notte in una scatola di cartone. Possiamo tenerlo?”
La signorina Potts affonda il viso tra le mani.

3.
25 maggio 2012
366 giorni D.F.M.


Stark sembra aver effettivamente iniziato una collezione. Steve incontra il dottor Banner in ascensore il giorno dopo essere arrivato: il buon dottore pare aver preso un po' di molto necessario peso, dall'ultima volta in cui si sono visti, e aver perso un po' di quell'aria da orfano rifugiato di guerra che sembrava trascinarsi dietro. Ha una camicia della taglia giusta e un paio di pantaloni senza toppe; quelli che aveva addosso sull'Elivolo davano l'impressione che sarebbe bastato uno strattone troppo entusiasta per farli sbriciolare come iuta asciutta, ma questi sono di stoffa buona e non troppo lunghi. Sembra comunque che qualunque cosa sia addosso al dottor Banner tenda magicamente a spiegazzarsi e ad assumere un'aria un po' dimessa nel giro di pochi minuti, come per un'inspiegabile proprietà transitiva.
L'agente Romanoff si presenta alla porta della stanza di Steve il pomeriggio stesso, per dargli il benvenuto con un cartoccio di eccellenti biscotti ed un questionario di domande apparentemente innocue; Steve passa una mezz'ora buona rispolverando la sua tecnica di risposta evasiva, perché, ehi, salve di nuovo, agente dello S.H.I.E.L.D.. Steve non crede che dov'è stato, cosa ha visto e che cosa progetta di fare adesso siano giustificabilmente affari del Direttore Fury.
Non vede da nessuna parte l'agente Barton, ma sa che è lì da qualche parte perché glielo ha detto l'agente Romanoff – e perché Steve ha sorpreso Stark che imprecava in cucina, un pomeriggio, con in mano un telecomando che qualcuno aveva infilzato da parte a parte con una freccia. Non c'era stato bisogno di sforzarsi troppo per dedurre di quale qualcuno si trattasse.

La Torre è una sorpresa tutta sua. Innanzitutto, c'è JARVIS. I fascicoli su Stark e sulla sua armatura avevano incluso un trafiletto su JARVIS, e Steve ha l'impressione che si sia trattato di un trafiletto, per l'appunto, cinque righe e poco più, semplicemente perché nessuno ha la più pallida idea di che cosa sia JARVIS precisamente e di che cosa possa fare.
Steve può avere le sue difficoltà a gestire la tecnologia moderna, ma Steve è anche cresciuto nel periodo in cui la fantascienza andava nascendo. Scoprire che nel Ventunesimo Secolo le automobili non volano – ancora – è una delusione che non ha superato del tutto.
Ma JARVIS, be'. JARVIS. Ci sono alcune cose che bisogna sapere su JARVIS.
La prima: JARVIS ha un senso dell'umorismo. Steve ricorda vagamente di aver letto da qualche parte che il senso dell'umorismo è ciò che distingue i primati superiori dagli altri animali; avere un senso dell'umorismo perfettamente sviluppato dev'essere segno di un cervello in funzione, lì da qualche parte, e di un cervello che, se non è umano, ci si avvicina parecchio. La seconda: JARVIS aiuta Stark a guidare l'armatura di Iron Man. La cosa, di per sé, potrebbe non apparire sorprendente: Steve sa che oggi esistono missili guidati da complicati sistemi di puntamento e di lancio, sa che nelle catene di montaggio le macchine fanno quasi tutto il lavoro, sa che ci sono programmi e computer che tengono l'Elivolo in cielo. Non ci sarebbe nulla di strano, perciò – se non fosse per la terza cosa, ossia che JARVIS è autonomo. Steve non sa bene dove finisce l'autonomia di JARVIS e dove cominci la sua programmazione, ma se JARVIS è autonomo – anche solo un po' – e se JARVIS ha una mente tutta sua e se malgrado questo Iron Man, Tony Stark, ostinato, imprevedibile, sospettoso, cauto Tony Stark, gli permette di entrare dritto dritto nella sua armatura e di farla volare, allora... be', allora...
Steve non afferra del tutto le meccaniche che fanno funzionare Stark e JARVIS. Sono meccaniche delicate. Sa che sono lì, e tanto basta.
Comunque, Steve incontra JARVIS e scopre che JARVIS può spiegargli come far funzionare gli elettrodomestici in cucina e in soggiorno e nelle sue stanze, come far salire e scendere l'ascensore e come accendere la televisione. JARVIS è disponibile, discreto e gentile e non fa domande. JARVIS non ride di Steve quando Steve gli chiede che cosa diamine sia il mango e se sia normale trovarne nello yogurt. Nel giro di una settimana Steve adora JARVIS.

Scoprire che Stark gli ha messo da parte non una stanza, o un paio di stanze, o un paio di stanze con un bagno attaccato, ma un intero piano, con più stanze di quante Steve possa occuparne e più spazio di quanto Steve possa utilizzarne, con un'infinita serie di finestre che danno su tutta Manhattan, su tutta New York, e che gli fanno venir voglia di passare la giornata con il naso appiccicato al vetro per poter vedere meglio, non è stata precisamente una sorpresa. Ha l'impressione che Tony Stark sia qualcuno abituato ad esagerare, a spendere e spandere e a soddisfare capricci, fisime e gli impulsi del momento. A Steve viene da chiedersi, certe volte, che cosa succederà quando Stark si stancherà: che cosa accadrà quando quella strana collezione di persone che ha distribuito nella sua torre di New York comincerà a non essere più una novità divertente, quando sarà annoiato, irritato dal trovarseli tra i piedi.
Steve non se ne preoccupa troppo. Credeva di essere morto e invece l'hanno scongelato; credeva che Loki li avrebbe uccisi tutti e invece sono sopravvissuti; preoccuparsi di qualcosa di meno, adesso, sembra uno spreco di energie.
Steve non può permettersi di sprecare energie: gli servono tutte, tutti i giorni, ogni volta che al mattino apre gli occhi e deve ripetersi che questo è il Ventunesimo Secolo, che è ancora vivo, che sono passati settant'anni per tutti tranne che per lui e che, no, non c'è modo di tornare indietro, nessuno ha ancora inventato una macchina del tempo, Steve è bloccato da questo lato degli ultimi settant'anni e non c'è niente che lui possa fare in proposito.
Certe mattine sono peggio di altre. Stamattina, per esempio, si è alzato dal letto intorno alle sei, la luce del sole ancora languida e pigra fuori dalle finestre, ha guardato il calendario ed ha scoperto che è passato precisamente un anno dal giorno in cui ha aperto gli occhi nella finta stanza anni Quaranta dello S.H.I.E.L.D., con una finta infermiera anni Quaranta, una finta radio anni Quaranta ed una caterva di vere brutte notizie ad attenderlo proprio dietro alla parete – finta e anni Quaranta anche quella.
Steve si siede sul bordo del letto e si chiede se non sia il caso di tornare a sdraiarsi, tirarsi le coperte fin sopra la punta delle orecchie e tornare a dormire. Ci sono giorni così, in cui l'opzione migliore sembra essere quella di aspettare che passino.
Invece si alza in piedi, usa il bagno, la doccia, si rade. Segue la routine, che è come una stampella a cui appoggiarsi nelle brutte mattinate. Piega il pigiama, rifà meticolosamente il letto, tirando le lenzuola finché non sono lisce, e poi prende l'ascensore e sale di un piano per raggiungere la cucina. Ecco: se le stanze colossali e la palestra privata e la piscina – una vera piscina, con l'acqua, un trampolino e tutto il resto – non erano state precisamente una sorpresa, l'area comune lo è stata. Nessuno la chiama così, area comune, ma è il posto dove Steve ha trovato il dottor Banner intento a prepararsi una tazza di camomilla e l'agente Romanoff che leggeva il giornale seduta di fronte a lui, un bel pomeriggio; è dove trova, se non si alza troppo presto, la signorina Potts e Stark – la signorina Potts fresca di doccia e pronta a cominciare la giornata e Stark con l'aria di qualcuno che è appena uscito dall'officina, e ci sarebbe rimasto volentieri, anche, se non fossero venuti a trascinarlo via per un orecchio.
L'area comune ha tavoli e divani e scaffali pieni di libri troppo nuovi. Il frigorifero in cucina è talmente grosso che Steve potrebbe entrarci senza doversi neanche piegare troppo, e probabilmente gli avanzerebbe anche un po' di spazio attorno. E' anche sfortunatamente vuoto, al momento: c'è solo un avanzo di latte in un cartone e alcune foglie d'insalata dall'aspetto tristissimo. Lo stomaco di Steve emette un pietoso verso di disappunto.
“Credo sia avanzato del caffè.”
La voce gli arriva alle spalle, assolutamente inaspettata, e il cuore di Steve si esibisce in un doppio salto carpiato con avvitamento, incastrandoglisi dalle parti della trachea. Quando si gira, trova Clint Barton appollaiato su uno sgabello al tavolo della cucina, i piedi sul piano di legno e i gomiti appoggiati alle ginocchia, in una posizione che pare un'offesa alle leggi della fisica e del buonsenso. Ha le labbra piegate in quello che ad un osservatore estremamente ottimista potrebbe sembrare anche un vaghissimo sorriso di scuse.
“Uh, uhm, agente Barton. Uhm. Buongiorno. Non, uh, non mi ero accorto fossi lì.”
Il forse-sorriso di Clint si allarga impercettibilmente.
“Ma non mi dire.”
Rimangono per un istante a fissarsi, e Steve sente un'aria di disagio imminente scendere come una cappa sulla cucina, oh, Dio, momento d'imbarazzo in arrivo. Si spreme le meningi in cerca di qualcosa di sensato da dire e se ne esce fuori, alla fine, con un:
“Pensavo di fare colazione, ma il frigo è vuoto.”
Le parole non hanno fatto ancora in tempo a scappargli del tutto dalla bocca, che già Steve vorrebbe potersele rimangiare, grazie tante, Capitan Ovvio. Capitan Ovvio è stata la prima cosa che Steve ha scoperto esplorando Nonciclopedia – immediatamente prima di scoprire che c'era effettivamente anche una pagina su Capitan America.
La pagina di Nonciclopedia su Capitan America è la ragione per la quale adesso Steve ha paura ad esplorare il fantastico mondo di Internet.
Clint, tuttavia, annuisce come se quel che è uscito dalla bocca di Steve fosse pieno di senso e molto ragionevole e per nulla scontato:
“Banner ha lasciato una lista a JARVIS.”
“Una lista...?”
“Di cose da ordinare,” spiega Clint. E poi, quando Steve si limita a fissarlo, perplesso: “Sai, la spesa a domicilio?”
“Oh.” Steve si rende conto che lo sportello del frigo è ancora aperto. Lo richiude, con un'ultima occhiata all'inutile cartone del latte. Quando guarda nuovamente Clint, scopre che questi lo sta fissando con un'espressione acuta:
“Non un fan della spesa a domicilio?”
Steve si affretta a scuotere la testa.
“No, no...” E poi, dopo un momento d'esitazione, a disagio: “E' solo che... pensavo, be'. Insomma. Non ha importanza.”
“Non credo che a Banner dispiacerebbe se fossi tu a fare la spesa,” osserva Clint.
Steve prende in considerazione l'ipotesi. In viaggio verso la costa del Pacifico e ritorno, si è fermato a comprare da mangiare alle tavole calde, alle stazioni di servizio, ai chioschi lungo la strada, ovunque lo cogliesse la fame; ma sembra che le drogherie e i forni siano spariti, adesso: al loro posto ci sono questi enormi negozi pieni di luci bianche e scaffali labirintici e commessi che sembrano andare tutti molto di fretta, e l'esperienza di Steve con la nuova Coca Cola – tutti e centotrentamila i gusti della nuova Coca Cola, per la precisione – l'ha lasciato estremamente cauto. Non è certo di voler sapere che cos'è successo alla carne in scatola, al tonno, al latte, alla zuppa in barattolo, nel corso degli ultimi settant'anni, ma prima o poi dovrà uscire, si dice, e dovrà scoprirlo. Solo, forse, non oggi...?
Clint deve leggergli tutto ciò sulla faccia – ehi, lo chiamano Occhio di Falco, ci deve essere una ragione, dietro – perché sembra farsi prendere da un momento di compassione e si offre:
“Potrei accompagnarti, se vuoi.”
Steve gli lancia un'occhiata di patetica gratitudine:
“Davvero?”
Clint pare tentennare, per un momento, e Steve si affretta a dire:
“Non devi sentirti obbligato...”
“No, ehi, no, ho già detto di sì.” Clint salta giù dalla sedia. “Che diamine. Sarà divertente, e non è come se avessi qualcosa di meglio da fare. Sai già cosa vuoi comprare...?”
Steve esita. Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, Clint propone:
“Potremmo stampare la lista di Banner.”
Clint pare funzionare per proposte e ipotesi: le butta lì e aspetta di vedere se Steve le afferra al volo. Probabilmente Clint ha un gusto preferito di Coca Cola, e sa che cos'è successo alla carne in scatola e quale sia la nuova marca del tonno. Visto così, tutto il resto sembra affrontabile.
“E' una buona idea.”

4.
26 maggio 2012
366 giorni D.F.M.


Steve aveva aperto gli occhi e aveva scoperto che il mondo era finito mentre lui dormiva. Tutti i giorni che erano venuti poi erano stati giorni dopo, un giorno, due giorni, tre giorni, un mese, undici mesi, trecentosessantacinque giorni che avevano fatto un anno, trecentosessantasei giorni Dopo la Fine del Mondo.

La parte più difficile, ha imparato Steve, non è l'Apocalisse. La parte più difficile è quel che accade dopo, quando i sopravvissuti si rimettono in piedi e si guardano intorno e tutto ciò che vedono sono rovine, e tutto quello che amavano, tutto quello che li legava al mondo, all'universo, al tempo, è stato tagliato via, distrutto, terra bruciata alle loro spalle. La parte più difficile è imparare a sopravvivere al giorno dopo: e poi a quello dopo, a quello dopo, a quello dopo...

5.
3 giugno 2012
374 giorni D.F.M.



Se c'è una cosa che non è cambiata in Steve, è che una donna capace di mettergli i piedi in testa con grazia continua ad essere la cosa più affascinante al mondo. Aveva pensato che Peggy fosse magnifica perché era bellissima e colta, l'aveva amata per le sue labbra rosse e per la linea aggraziata delle sue caviglie, ma ancora di più perché Peggy era rimasta piantata in mezzo ad una strada mentre una macchina le veniva incontro per investirla, perché era stata veloce con la pistola e aveva avuto una buona mira e una lingua tagliente, perché non aveva avuto paura di niente. Il Siero del dottor Erskine, aveva pensato Steve, sarebbe dovuto andare a Peggy. In un universo migliore, sarebbe andata così.
Perciò, benché Steve sia perfettamente consapevole del fatto che l'agente Romanoff è un'eccellente manipolatrice e una fantastica bugiarda, e che dietro al suo delizioso sorriso si nascondono coltelli affilati e posti bui dove stipare cadaveri, non può fare a meno di esserne innamorato almeno un po'. Non troppo. Un po'.
E' che l'ha vista saltare su un'astronave aliena di passaggio, a Natasha. Non si può non avere una cotta per qualcuno così.
Ecco perché, quando Natasha Romanoff entra in cucina, in una bella domenica di giugno in cui Steve ha deciso che è ora di preparare frittelle, le frittelle sono ciò che serve per cominciare bene la giornata e chiudere felicemente la settimana, Barton gli ha spiegato come affrontare il supermercato e adesso Steve riesce ad andare a fare la spesa senza perdersi tra gli scaffali e farsi placcare dai commessi, ha comprato uova e farina e latte e sciroppo d'acero e tutto quel che serve per delle frittelle perfette – ebbene, quando in questa bella domenica di giugno Natasha Romanoff entra in cucina e lo sorprende con un bicchiere di carta in mano, la frittella intenta a cucinarsi da sé alle sue spalle e la canzone delle bambine alla stazione di servizio tra Philadelphia e Baltimora sparata a tutto volume sugli altoparlanti della cucina, Steve si blocca a metà tra la prima strofa e il ritornello, il bicchiere sollevato a mezz'aria e un when I'm gooooone che gli si strozza in gola, e la fissa con la tipica espressione molto intelligente del coniglio abbagliato dai fari.
Ferma sulla soglia, Natasha gli rivolge un'occhiata assolutamente indecifrabile.
“Interrompo qualcosa?”
“Cosa...? Oh... no! No, no. Assolutamente no.” Nella sua fretta di mettere giù il bicchiere, Steve quasi l'accartoccia sul tavolino.
Natasha inarca un sopracciglio e le orecchie di Steve prendono improvvisamente fuoco. JARVIS deve afferrare che la situazione è delicata, perché il volume della canzone si abbassa improvvisamente, restando come un gentile sottofondo. Natasha ancheggia aggraziata verso il tavolo, sposta lo sgabello con la punta di un piede e si mette a sedere.
“Che cosa stai bruciando?” si informa, interessata.
Steve le fa eco, perplesso:
“Che cosa sto bruciand...” E poi, mentre un delicato odore di frittella carbonizzata si spande nell'aria: “Oh, miseria.”
Cinque minuti più tardi gli infelici resti di quella che avrebbe potuto essere un'eccellente frittella sono stati disposti in un piatto – perché Steve non butta il cibo, grazie tante, non quando è ancora perfettamente commestibile – e Natasha è riuscita a persuaderlo a prepararle la colazione. Steve ha il sospetto che Natasha sappia perfettamente che ha un debole per lei e che sia impietosamente disposta ad approfittarne.
Quando la canzone è finita, Natasha ha chiesto a JARVIS di farla ripartire.
“Non pensavo fosse il tuo genere, Steve.”
Steve rigira le uova e la pancetta nel padellino, facendole saltare, e racconta a Natasha delle bambine alla stazione di servizio.
“JARVIS mi ha aiutato a ritrovare la canzone.” Dopo un momento di silenzio, ammette: “E' divertente.”
Natasha raccoglie il bicchiere di carta e se lo passa per un momento da una mano all'altra. Batte le mani, batte le mani sul bicchiere, sposta il bicchiere, batte ancora le mani, orlo del bicchiere contro il palmo, orlo del bicchiere contro il tavolo, orlo del bicchiere contro il palmo, mano sul tavolo, bicchiere rovesciato. A Steve cade la paletta di mano. Fissa il bicchiere e poi fissa Natasha, la bocca spalancata, e Natasha gli risponde con un sorriso felino.
“E' divertente,” gli fa eco lei. Sembra che ad essere divertente ai suoi occhi sia Steve, più che la canzone dei bicchieri, ma né il suo tono né il suo sorriso hanno nulla di cattivo. “Vuoi che ti insegni?”
Steve raccoglie la paletta e le spadella le uova in un piatto:
“In cambio della colazione?”
“Bisogna sempre lasciare una buona mancia allo chef.” Natasha spinge il bicchiere di carta verso di lui e attira a sé il piatto e una forchetta. “JARVIS? Rimetti la canzone dall'inizio, per cortesia.”



Mezz'ora più tardi in cucina sono in quattro, lui e Natasha e Clint e il dottor Banner. Clint è apparso dal nulla e si è appollaiato su uno sgabello e il dottor Banner è entrato per prendersi una tazza di caffè ed è rimasto a guardarli, affascinato.
I've got my ticket for the long way round, these feet weren't built to stay too long. Steve è vagamente consapevole del fatto che Stark si sia affacciato alla porta della cucina, qualche minuto prima, con quella che aveva tutta l'aria d'essere una macchinetta fotografica tra le mani. Ma, ehi, se l'agente Romanoff non ha dato mostra di preoccuparsene, anche Steve può ignorare la cosa. I've got my ticket for the long way round, these feet weren't built to stay too long.
And I'll go there on my own, but you'll miss me when you're home, it's for you, dear, that I sing this song.


6.
5 giugno 2012
376 giorni D.F.M.



Certe volte Steve ha l'impressione di essere ancora in viaggio. Non si è ancora fermato: è salito sul treno del dottor Zola e da lì è stata tutta una lunga corsa verso la base di Schmidt, sulla macchina guidata dal colonnello Phillips, sull'aereo che puntava verso l'America e poi giù, giù dentro il ghiaccio, anche l'anno trascorso a tenere il muso allo S.H.I.E.L.D. è stato come una sosta ad una stazione di servizio, per fare benzina, comprare ciambelle scadenti, niente che fosse come fermarsi.
Ha l'impressione di essere ancora in viaggio, e che se dovesse fermarsi tutto gli crollerebbe addosso. Il pensiero di Peggy è come una mancanza, una voragine di nostalgia, e si sveglia prima dell'alba con il ricordo delle sue mani gentili e della piega dolce del suo accento da inglese, dei suoi capelli e delle sue labbra e della cadenza lieve dei suoi passi, con il ricordo di Bucky prima della guerra, Baltimora, i cinema nei vicoli, tutte le volte che Steve si è fatto pestare in un parcheggio e c'era Bucky a difenderlo. Bucky è una qualità di dolore diversa, più sporca. Peggy ha potuto avere una vita piena, poi. Peggy è potuta tornare a casa. Bucky, no.

E così tutte le mattine Steve si sveglia prima dell'alba ed i ricordi hanno un sapore agre e dolce insieme. Tiene gli occhi chiusi e si permette di credere per cinque minuti che sia stato tutto un sogno. E' ancora lì, è ancora prima che finisse il mondo. Adesso si alzerà e ci sarà Peggy ad aspettarlo a mensa e Bucky sdraiato solo una branda più in là, e se non riesce a sentire il russare a saltelli di Dugan è solo perché per una volta deve essersi alzato prima di lui. Quando a mancarti è anche l'odore di poco lavato della caserma, il suono della digestione infelice di sette stomaci che affrontano coraggiosamente quella che viene spacciata come la zuppa del campo, si dice Steve, quando la nostalgia arriva a inglobare anche questo genere di ricordi, be', vuol dire che hai veramente un grosso problema, figliolo.
Sono tutti ancora lì, con lui. Il pensiero è un balsamo. Il pensiero è un sollievo. Si dice che sarebbe facile tenere gli occhi chiusi e continuare a crederci: gli mancano, e la mancanza è una gola, è un abisso, è la stramaledetta Fossa delle Marianne, non sembra ci sia niente che basterebbe a riempirla.
Cinque minuti per tenere gli occhi chiusi, tutte le mattine: poi, è ora di alzarsi.

7.
10 giugno 2012
381 giorni D.F.M.



La domenica successiva, su tutti i canali sta passando un servizio sugli eventi di Manhattan. Gran parte delle inquadrature è sfocata, sobbalzante – Natasha gli spiega che sono i video dei passanti, quelli, di tutti i civili che invece che girarsi e correre il più in fretta possibile nella direzione opposta a quella della roba che esplodeva, sono rimasti dov'erano ed hanno tirato fuori videocamere e telefonini – ma anche nel mezzo dei palazzi che crollano, della polvere e del fumo e del caos, si vede perfettamente l'armatura di Iron Man schizzare tra i palazzi, qualcuno con un costume rosso e blu che scavalca le macchine saltandole, la schiena curva di Hulk che estirpa un lampione dal selciato e lo usa per prendere a clavate uno dei veicoli alieni. Il cielo è pieno di fulmini.
Probabilmente non hanno pensato ad inquadrare Natasha e Clint perché troppo normali. Troppo poco appariscenti. Steve ha visto Clint tirare frecce senza guardare e centrare comunque un bersaglio in movimento, e Natasha, be', c'è sempre la storia di quando Natasha è saltata su un'astronave aliena. Un'astronave aliena in movimento. Prendendo lo slancio sul suo scudo.
Natasha e Clint possono essere molte cose, ma normali non è la prima parola che salta alla mente di Steve.
E' anche possibile, si dice Steve, che lo S.H.I.E.LD. si sia occupato di censurare i video arrivati al notiziario. Tony gli spiega che nel mondo di Internet la censura è una questione complicata – ma Steve ha l'impressione che in questa occasione sia Tony a non capire. La censura era una questione complicata anche negli anni Quaranta. Ha il sospetto che fosse una questione complicata anche quando le notizie giravano incise su tavolette di pietra e il giornalismo si faceva a colpi di scalpello. Non importa quanti mezzi abbiano quelli che cercano di aggirare la censura, pensa Steve, se i censori sono sufficientemente intelligenti e motivati.
Il servizio su Manhattan e sui suoi Vendicatori è relativamente positivo. Nessuno strilla alla congiura e nessuno tira fuori torce e forconi e il quis custodiet ipsos custodes? passa senza essere stato detto, ma Steve sa che è solo questione di tempo.
Il mattino dopo, Bruce Banner tenta discretamente la fuga, presumibilmente verso una di quelle parti del mondo dal nome francamente impronunciabile che il buon dottore sembra preferire; Stark lo sorprende all'altezza dell'ascensore, con una sacca sulle spalle, un cappellino da baseball calcato sulla fronte e un'espressione colpevole sulla faccia, e si esibisce in un tentativo di placcaggio alle ginocchia che farebbe invidia ad un giocatore di rugby.
Che cosa i due si dicano poi resta un mistero, ma il dottor Banner scompare nella sua stanza e ne riemerge, nel pomeriggio, con un'aria serenissima e astratta che farebbe invidia ad un Maestro Zen. La sacca e il cappellino sembrano essere stati messi temporaneamente da parte.

Stark osserva che tutti quelli che hanno potuto farlo hanno inquadrato il sedere di Capitan America, è bello sapere che New York si sente ancora patriottica. Tra gli intervistati, un quarto pensa che lui sia un clone del primo, vero Capitan America e i tre quarti restanti che sia un soldato tirato fuori dall'Esercito per indossare il costume. Anche questo punge – e Steve cerca di riderci sopra, ma è una risata verde.
Vorrebbe poter andare di fronte alle telecamere e sbattere loro in faccia che è lui, tante grazie, è ancora qui, respira ancora, non l'hanno sostituito mentre... mentre dormiva, non è cambiato. C'è ancora Steve, Steve Rogers dietro al cappuccio.
Si rende conto che sia irragionevole arrabbiarsi per una cosa del genere, ma l'irragionevolezza è meglio della depressione. Perciò, viva l'irragionevolezza.

8.
15 giugno 2012
386 giorni D.F.M.


Quando non è verde e quando non sta cercando di filarsela in Nepal, il dottor Bruce Banner è una persona estremamente gradevole. Ha una vena molto ben nascosta di sarcasmo e l'eccellente capacità di giudicare quali siano i punti di frattura di quelli che ha intorno, e Steve proprio non riesce a capire come si possa dubitare che lui ed Hulk siano... se non proprio la stessa persona, almeno due parti di uno stesso insieme, complementari. Steve non commette mai l'errore di pensare che tra i due, Hulk e Banner, il più pericoloso sia necessariamente il primo. E' solo più grosso. Più verde. Più evidente.
Bruce Banner sembra guardare all'umanità intera con un miscuglio di vago affetto, un pizzico di rimpianto ed infinita tolleranza. Steve pensa che, se fosse lui a dover avere a che fare con Tony Stark tutto il giorno chiuso in un laboratorio, darebbe di matto entro una settimana, gli spezzerebbe l'osso del collo e chiederebbe a Natasha se conosce un buon posto per nascondere il cadavere; il dottor Banner, invece, risponde ai momenti di gloria suprema di Stark con un'espressione tra il rassegnato e il divertito e senza neanche un'ombra di verde sulla pelle.
E' Bruce Banner a introdurre Steve a Guerre Stellari.
Il tutto comincia, in effetti, perché l'ultimo film che Steve ricorda di aver visto è stato Il mistero del falco, con Humphrey Bogart.
“Non Casablanca...?” domanda Bruce.
Steve lo fissa, curioso:
Casablanca?”
“Ah...” Il dottor Banner pare improvvisamente a disagio. “Forse non è il primo film che dovresti vedere, Steve. Casablanca può aspettare.”
Casablanca può aspettare a lungo,” conferma Clint.
Steve aggrotta la fronte:
“Perc...”
“Fidati, Steve. Casablanca assolutamente non è il primo film che tu vuoi mettere sulla tua lista. In effetti, non è neanche il terzo. O il trentesimo.”
Pausa di silenzio.
Alla fine, il dottor Banner si schiarisce la voce:
“Sapete, è un po' che non vedo un film.”
Clint non-sorride. Clint è bravissimo a non-sorridere: ha tutta una gamma di espressioni che sembrano essere state prodotte nell'interesse della maggior economia possibile di movimento facciale, massimo risultato con il minimo sforzo.
“Niente cinema in India, dottore?”
Il sorriso di Banner ha giusto due grammi di stress accumulati agli angoli:
“Gli spazi chiusi e affollati tendono ad offrire un'ampia gamma di vittime collaterali ai miei, ah, sbalzi di umore.”
Nuova pausa di silenzio, questa volta estremamente riflessivo.
Clint si informa, cautamente:
“E qual è l'ultimo film che hai visto tu, dottore?”
“Uhm...” Il dottor Banner si sistema meglio gli occhiali, spingendoli con due dita verso la radice del naso in un gesto che Steve ha imparato ad associare all'imbarazzo. “Be', era il 2002.”
Non sembra ansioso di aggiungere altro. Dopo un momento, Clint lo sprona:
“... e dunque?”
Bruce socchiude gli occhi. Il sorriso di Clint si allarga d'un centimetro abbondante per lato, scoprendo i denti e trasformandosi in un ghigno.
“Era L'attacco dei cloni, non è così?”
Banner si schiarisce la voce, cercando di radunare attorno a sé i malridotti brandelli della sua dignità: “Non c'è niente di male in Guerre Stellari.”
“Non c'è niente di male in Guerre Stellari, se non che è un perfetto cliché da nerd.”
“Non sono certo di voler sentir parlare dei miei stereotipi da parte di qualcuno che sembra aver preso il proprio nome in codice un po' troppo alla lettera.”
“Attento, dottore, avverto un tremito nella tua Forza.”
L'introduzione di Steve alla cinematografia dagli anni Cinquanta in poi avviene più o meno così; perché dopo un breve dibattito su cosa si possa mettere in cima alla sua lista di film da vedere, Clint e Bruce arrivano a stabilire che tutto quel che abbia anche solo un vago sentore di romanticismo è da evitare, i film dell'orrore sono un'incognita da approcciare solo molto, molto cautamente, Apocalypse Now è da rimandarsi fino a quando Steve non sarà in grado di gestirlo e per quanto riguarda i film sui supereroi... ma anche no, grazie. Mai portarsi il lavoro a casa.

Stark arriva un'ora più tardi, con la faccia di qualcuno che si sia appena fatto novantanovemila ore di fila in officina, una manata abbondante di olio da motori tra i capelli e una maglietta sbrindellata che deve aver visto giorni migliori, e li trova accampati nell'area comune. C'è Una nuova speranza sullo schermo del televisore, e Steve non riesce a distogliere gli occhi, perché questo era come aveva immaginato che il futuro sarebbe stato, questi sono i mondi della fantascienza, le lune di Burroughs e le macchine di Wells.
“Vedono Guerre Stellari e nessuno mi dice niente,” bofonchia Stark, facendo il giro del divano. “Devo venire a sapere tutto da JARVIS. Fammi posto, traditore.”
Bruce, accondiscendente, si scansa un po' più in là, ma Stark finisce lo stesso per spalmarsi sui cuscini e per buttargli una gamba addosso. Sembra che le più elementari norme della prossemica non gli siano famigliari. Sembra anche, tuttavia, che al dottor Banner non importi.
Steve e Natasha hanno occupato una poltrona a testa, e Clint si è appollaiato sullo schienale di quella di lei. Nella stanza buia, illuminata solo dalla luce dello schermo, Steve vede di tanto in tanto la mano dell'agente Romanoff alzarsi e picchiettare gentilmente un ginocchio di Barton, con un gesto di familiarità che sembra più intimo, in un certo modo, di quanto non lo sarebbe una carezza.

Oggi, decide Steve, oggi è una buona giornata.

9.
30 giugno 2012
401 giorni D.F.M.



Il dottor Banner gli rivela la ricetta di un piatto piccante al curry che a New York si può preparare avendo a disposizione solo una padella e cinque dollari. Clint cerca di insegnargli a sparare – perché dice che a spiegare a Steve come si tiene in mano una pistola dev'essere stato un babbuino, c'è una grossa differenza tra sparare e sventolare un mitra, non si può mai sapere quando potrà tornargli utile. Steve si sveglia un bel mattino e trova Natasha in soggiorno, in tuta e scarpe da ginnastica, che lo aspetta per andare a correre a Central Park. Stark gli ripara i freni della moto – di nascosto, perché Stark sembra funzionare solo in due modalità, tutto acceso e tutto spento, senza niente nel mezzo, come fosse una vergogna fare cose normali. Offrire appartamenti a Manhattan a quattro perfetti sconosciuti, sì. Fare qualcosa di discreto per uno dei suddetti sconosciuti, no.
Steve non crede di riuscire a capirlo bene. Ha l'impressione, però, che questa storia della torre, dei Vendicatori... se è stata un capriccio, è un capriccio di lunga tenuta.
Steve comincia ad imparare la nuova forma di New York. Prende la metro, prende un taxi, va a piedi. Visita i musei, visita i mercati. La signorina Potts sacrifica due ore del suo tempo – e Steve davvero non vuole sapere quanto precisamente valgano due ore del tempo della signorina Potts, imperi finanziari si smontano e si costruiscono in due ore del tempo della signorina Potts, avere una fetta del tempo della signorina Potts è qualcosa di molto simile ad avere una fetta del tempo del Presidente degli Stati Uniti d'America – per accompagnare Steve a comprare un completo per le occasioni speciali, in un posto dove non ci sono vetrine, c'è un divano in camerino e le targhette del prezzo sono clamorosamente assenti.
Steve esce con qualche busta in più di quelle che sarebbero necessarie per una giacca e un paio di pantaloni, e non è certo di voler sapere precisamente con che cosa siano state riempite. Cerca di pagare per sé e la signorina Potts si mette a ridere. La signorina Potts – che insiste per essere chiamata Pepper, ma sorride tutte le volte che Steve si sbaglia e finisce per impappinarsi ed avvampare – ha una risata bellissima, che apre un velo di minuscole rughe felici agli angoli degli occhi e della bocca.
Steve non è invidioso di Stark. Non è invidioso della sua ricchezza, non è invidioso del suo magnifico, complicato cervello, non è invidioso del modo disinvolto, sicuro e brillante che ha di tagliare attraverso la vita. Ma qualcuno come Pepper... Steve potrebbe invidiargli Pepper, questo sì. Potrebbe, se non fosse che li ha visti insieme, parlare con la testa china e vicinissima e punzecchiarsi e ridere, ed una cosa così è una cosa bellissima e limpida, troppo preziosa per poter essere sporcata con l'invidia.

Steve continua a preparare frittelle la domenica mattina. Bruce gli insegna a navigare l'archivio informatico del New York Times, Clint gli insegna a giocare ad Angry Birds, Tony si offre di insegnargli a trovare i migliori siti pornografici. Natasha lo trascina sul ring in palestra e procede metodicamente a smontarlo; Natasha gli arriva allo sterno e Steve potrebbe sollevarla usando una mano sola, ma sembra che le leggi della fisica e dell'ovvio le si pieghino attorno e si flettano per venirle incontro. Natasha picchia duro e gioca sporco e spinge Steve in un angolo. Non gli permette di distrarsi.
Stark gli regala un tablet e Steve lo usa per salvare tutte le cose che trova in Rete e che gli piacciono, fotografie e brani, libri e video. La canzone delle ragazzine alla stazione di servizio è la prima dell'elenco.
When I'm gone, canticchia Steve facendosi la barba, When I'm gone.
Ci sono mattinate in cui si sveglia e il conteggio dei giorni venuti Dopo la Fine del Mondo non gli viene automatico: e allora deve fermarsi, pensarci sopra per un attimo e rifare i conti da capo.



E poi arriva il mattino in cui un esaltato in armatura che si fa chiamare il Dottor Destino si presenta nel bel mezzo di Manhattan tirandosi dietro un'armata di robot che sembrano il prodotto di un incrocio mal riuscito tra il fratello minore di C3PO e un Dalek (e due settimane di programmi televisivi accuratamente selezionati da Clint, Stark e Bruce hanno fatto sì che adesso Steve sappia precisamente chi è il Dottore e abbia cominciato a sviluppare una pavloviana reazione a grosse statue di pietra a forma di angelo) e i telefoni di tutti, nella Torre, squillano contemporaneamente – tranne quello di Steve, che dev'essere ancora in un cestino alla periferia di New York.

10.
2 luglio 2012
403 giorni D.F.M.



Il Dottor Destino ha una lunga cappa che forse si è fatto prestare da Loki, perché la sfumatura di Verde Matto Come un Cavallo è la stessa, un'infelice propensione a far saltare in aria i palazzi e una preoccupante tendenza al monologo. Lui, la sua cappa e il suo esercito sono stati visti all'altezza di Hell's Kitchen e stanno puntando verso la Piazza delle Nazioni Unite.
Natasha sta usando una mano per tenere un trasmettitore contro l'orecchio e l'altra per infilarsi uno stivale; la chiamata ha sorpreso lei e Clint appallottolati sul divano davanti ad una puntata di Supertata, che è un programma vagamente inquietante che sembra dare i brividi, per qualche ragione, a Stark. Clint è sparito in direzione del suo arco e Bruce se ne sta in piedi davanti alla porta, l'espressione speranzosa di qualcuno che davvero, davvero, davvero vorrebbe scoprire che non c'è veramente bisogno di lui e che se ne può stare a casa, tranquillo, a coltivare la propria serenità interiore a colpi di meditazione e tè verde.
Steve ha imparato a indossare l'uniforme in trenta secondi netti all'interno di un camerino sovraffollato; e qui ha una camera, non un camerino, e non deve dividerla con nessuno. Steve era già pronto e con lo scudo in mano prima che Bruce si affacciasse in cucina.
“Qualcun altro può condividere con me l'infinito gaudio di una telefonata da parte di Fury o sono l'unico fortuna... ehi, come non detto.” Stark si blocca sulla soglia dell'area comune, l'armatura già addosso, ma l'elmetto sollevato. “Dev'esserci qualcosa, nell'acqua di New York, che attira i matti. Credevo che quella camicia ti piacesse, Bruce.”
Bruce abbassa la testa per guardare la camicia in questione, con l'espressione di qualcuno che scopra solo in quel momento di averne una, ehi, guarda qui, camicia.
“Infatti mi piace.”
Tony inarca le sopracciglia in maniera eloquente:
“E perciò l'hai ancora addosso perché...?”
Bruce aggrotta la fronte. Apre bocca, la richiude, sembra sul punto di riaprila e opta, infine, per tenerla chiusa. Sgattaiola accanto a Stark, che gli posa una mano sulla spalla, e sparisce in direzione dell'ascensore.
Dalla cucina arriva la voce di Natasha, in linea con Maria Hill e l'Elivolo:
“Tre minuti e il Quinjet sarà qui.”
“In tre minuti si fa in tempo a radere al suolo Midtown,” osserva Stark, aggrottando la fronte. Abbassa la visiera dell'elmetto e avanza verso il balcone; prima che possa superarlo e uscire, Steve gli afferra un braccio e lo trattiene.
Per un momento, è come essere di nuovo sull'Elivolo, mentre Stark solleva molto, molto lentamente la testa per guardarlo, gli occhi dietro alla visiera che si spostano evidentemente dalla mano di Steve, stretta attorno alla sua spalla, alla faccia di Steve, solo qualche centimetro più in alto. Steve si trattiene dal ritrarre le dita di scatto, come se se le fosse bruciate. E' consapevole che Natasha li sta osservando attraverso la porta della cucina e che un sacco di cose pesano su quello che gli uscirà dalla bocca nell'arco del minuto successivo.
E' come essere di nuovo sull'Elivolo – ma non veramente. C'è stata Manhattan, di mezzo, Guerre Stellari e un pomeriggio a Central Park e una lettera A lasciata sbilenca dove prima c'era il nome di un uomo solo. Da cose così, tornare indietro è complicato.
E perciò:
“Mi dai un passaggio?” chiede Steve.
La tensione sembra sgonfiarsi come un palloncino forato. Steve non può vedere se Stark sorride, dietro la maschera, ma la voce che emerge dagli amplificatori è leggera e divertita:
“Sicuro, Capitano.”
Il cielo di New York è azzurro e limpido ed è una bellissima giornata di luglio. C'è un altro pazzo in costume a Manhattan – e Steve ha il sospetto che possa trasformarsi in un leitmotiv, questo, come se Loki e i Chitauri e tutto quel che ne è seguito avessero aperto, spalancato un rubinetto – ma Steve ha chi gli copre le spalle, chi lo aiuta a rialzarsi. Occhi in alto sulla città.

Visto così, tutto il resto sembra affrontabile.

11.
un qualche giorno d'agosto, 2012
403 giorni D.F.M.
?


Steve si sveglia, apre gli occhi, si alza. Entra in bagno per farsi la doccia e si accorge che non ha avuto i suoi cinque minuti di balsamo e conforto, niente cinque minuti in cui ha pensato di avere Bucky a tre passi di distanza, Peggy solo nell'altra stanza, il 1943 ad aspettarlo fuori dalle finestre, niente cinque minuti per stare con le palpebre abbassate e credere che sia stato tutto un sogno. Cerca di far ripartire il conteggio dei Giorni Dopo – ma non ricorda che giorno sia oggi, se il tre, il quattro, il cinque agosto. Gli sembra sia martedì.

Aspetta che la malinconia lo assalga a tradimento, il dolore come un buco, una mancanza, il ricordo di loro che gli mancano per tutte le cose per cui gli mancano, ma c'è solo questo senso di nostalgia lievissimo e quieto che ha la consistenza impalpabile dei capelli di Peggy.
E' che New York è ancora in piedi malgrado Loki, malgrado il Dottor Destino, malgrado Fury e le sue bugie e malgrado il lato più terribile della televisione moderna, e se si sbriga forse farà in tempo ad andare a correre con Natasha, a fare colazione con qualcuno, in cucina, Clint sveglio da cinque minuti e Tony che non è ancora andato a dormire. Ha sorpreso Bruce, qualche giorno prima, che faceva un tentativo di imparare la canzone del bicchiere.
When I'm gone, when I'm gone, canticchia Steve sotto la doccia, piano. You're gonna miss me when I'm gone.

You're gonna miss me by my hair, you're gonna miss me everywhere, oh.
You're gonna miss me when I'm gone.






Note: Questa storia nasce per l'iniziativa Settimana tematica #1: SONGFIC indetta su Pseudopolis Yard.
Generalmente io e le songfics non siamo i migliori degli amici... ma mi sono lasciata ossessionare da un mese a questa parte da questa canzone. Cinque punti a chiunque riesce a fare il giochino del bicchiere - mentre canta, ovviamente, altrimenti è troppo facile - prima della fine della giornata. x°°°D

Come sempre, l'ambientazione di questa storia è un allegro composto di elementi del film e del fumetto, e ignora serenamente - per ora - gli eventi di Iron Man 3. Dico per ora perché ho in progetto altre due storie che si ricolleghino a questa, a Segmenti e a Sei variazioni sulla Legge di Murphy.

Un grazie a chi si è fermato a leggere. E dopo, shawarma per tutti.
  
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