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Autore: Lechatvert    04/07/2013    4 recensioni
[ ... ] Si ritrovò ad accarezzare quella figura dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso ed esattamente ingenuo come lo era stato in gioventù.
Quella smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola parola, aveva passato più guerre di un condottiero.

| In qualche modo, Girolamo Riario x OC |
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Girolamo Riario, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Per questo, più o meno, la chiamavano Papavero.'
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Lechatvert
...duuuuuuuuuunque.
Ci siamo. Ho finito. Sono arrivata all'ultimo capitolo, sfidando la maturità, un fidanzato geloso e il sonno. Ho finito, la fanfiction è conclusa. Wow, ancora non ci credo.
Come promesso, quindi, passo ai saluti più o meno ufficiali.
Voglio farvi sapere innanzitutto che siete stati tantissimi a seguirmi, molti più di quelli che mi aspettavo.
Siete stati tanti e tutti gentilissimi, sia con l'aggiunta ai preferiti/seguiti che con le vostre splendide parole nelle recensioni. Senza di voi, non saprei proprio come avrei fatto.
Oggi questa avvenuta in compagnia di Bianca finisce, ma è inutile che vi dica quanto speri possa continuare, un giorno, nelle vesti di un altro personaggio, nei profumi di una nuova storia. Spero di avervi ancora con me, allora ♥
Per ora, mi limito a ringraziare ancora tutti quanti, da Jess alla frugola Eagle, che mi sopportano assieme alle altre ragazze dello Smatto Rinascimentale. Ringrazio anche Giulia, che fidata è sempre corsa a recensire anche dalla sua vacanza. Dove sarei, ora, senza di voi!
Bene, ho davvero finito.
Sono contenta, in un certo senso, di poter dare pace a Bianca dopo aver salutato tutti. Vi auguro quindi una buona lettura e, possibilmente, alla prossima!

Vi mando un bacio grande quanto il mare ♥

Un'ultima cosa, che ritengo importante: nel testo vi sono tre citazioni nascoste, tanto per mettere alla prova chi legge. La prima è un tributo alla magnifica Virginia Woolf, autrice ma soprattutto donna che mi ha ispirata. E' stata citata sia in una particolare frase che in una particolare azione. La seconda citazione è nascosta nel testo di una canzone a mio parere molto azzeccata con la storia e con questo capitolo. La terza e ultima citazione è un po' più fine, dedicata al mio grande maestro, Saba, che, mi dicono, andava pazzo per sua moglie.







Capitolo Undicesimo
Di lei era rimasto solo il ritratto


Bianca Maria Ordelaffi lasciò Palazzo Orsini alle prime luci dell’alba, portando con sé soltanto le vesti in cui era avvolta. Nell’intenzione di non dare nell’occhio, aveva abbandonato anche il mantello.
Quella notte non aveva dormito, passando le ore di buio raggomitolata sotto le coperte a realizzare che, per come si erano messe le cose, non vi era più via d’uscita per lei. Certo, avrebbe potuto cercare l’appoggio di uno dei servitori del Conte e affidargli una lettera in cui avrebbe raccontato tutta la verità a suo marito, ma poi? Ammesso che fosse riuscita a convincere qualcuno ad aiutarla, Ezio cos’avrebbe potuto mai fare contro Roma?
Allo stesso modo, non si sentiva in grado di chiedere aiuto ai Medici. Firenze aveva già i suoi problemi, a cui badare, senza che vi si mettesse anche l’ormai caduto casato degli Ordelaffi a complicare la situazione.
Il Conte era stato bravo, a legarle le mani.
Silenziosa e sormontata da tutti quei pensieri, la ragazza scivolò lungo le mura del Palazzo, pregando di non essere vista dagli uomini capaci di fermarla come, per esempio, il Capitano Grunwald. Non le importava invece che la servitù la notasse nel cortile a quell’ora. Voleva che il Conte sapesse dov’era andata, voleva, in un certo senso, che fosse in grado di seguirla fin dove ne sarebbe stato capace.
Arrivata fuori dalle mura del palazzo, si fermò, osservandone le mura scrostate.
Con dita tremanti scavò sul gesso, ricavandone una prima pietra. La guardò, mostrando un piccolo sorriso, e la ripose nella tasca del suo vestito, accarezzandone con affetto la stoffa.
Era lo stesso abito che aveva indossato il giorno prima, quando il Conte era tornato a casa. Era lo stesso che aveva indossato quando il Conte l’aveva picchiata di nuovo. Adesso, sarebbe stato lo stesso abito con il quale avrebbe conquistato la sua libertà.
Si allontanò in fretta da Palazzo Orsini, raccogliendo qua e là sulla strada qualche pietra per arricchire la collezione che si stava lentamente formando nelle sue tasche, e non si fermò finché non le vide strabordare, allorché iniziò a riempire le maniche a sbuffo.
Man mano che la sua prigione rimaneva alle sue spalle, un lieve senso di leggerezza e libertà si infilava nel suo animo, prendendo sempre più spazio, riempiendo sempre di più quel vuoto che gli ultimi mesi erano stati per lei e per la sua felicità.
Si sentiva spensierata come quando, ignara di tutto, aveva lasciato Ezio per partire alla volta di Firenze assieme al Conte di Fontenera, come quando, nella bottega del Verrocchio, artisti come Messer da Vinci l’avevano presa come modello per il colore dei suoi capelli, come quando il Conte l’aveva fatta felice regalandole un libro, come quando aveva scoperto la biblioteca nascosta di Palazzo Orsini.
Di quegli ultimi mesi, ricordava ogni risata, ogni piccolo, effimero momento passato assieme alla felicità. Ricordava l’odore del bosco e la risata di Levi, il freddo del marmo, lo sgradevole odore dell’armadio guardaroba trovato durante la sua prima esplorazione.
Mentre camminava, si perse in quel turbine di memorie, fatto di emozioni, ma anche di odori, di sguardi, di sensazioni fredde che si aggrovigliavano con quelle più calde e insieme formavano in lei una ventata di speranza, di felicità.
Quasi ridendo come un tempo faceva durante le sue passeggiate con suo marito, arrivò fino alle rive del Tevere, che scorreva placido, quasi non dovesse seguire la precisione della corrente che lo muoveva.
Bianca aveva amato i momenti trascorsi in quel luogo assieme al Conte. Le rive del Tevere erano gli unici luoghi di Roma che conosceva, escluso Palazzo Orsini e quel poco che le era stato concesso di vedere del Vaticano. In un certo senso, li aveva fatti suoi, immortalandoli nella sua mente come immagini di pura perfezione, attimi di gioia impossibili da demolire, impossibili da cancellare.
Sorridendo a sé stessa, si immerse nel fiume, rabbrividendo al contatto della sua pelle con le acque fredde che scorrevano verso il mare.
Tremante, si augurò di aver riempito abbastanza le tasche dei sassi che era stata in grado di trovare. Sarebbero dovuti bastare per trascinarla lontano dalla riva se mai avesse deciso di lottare.
Congiunse le mani sul petto, dedicando ai suoi cari un ultima preghiera, includendo anche il Conte Riario, uomo buono che però sembrava aver perso la sua strada. Rivolse il suo pensiero più profondo a suo marito Ezio, che invano la aspettava a Palazzo Rangoni.
A lui, aveva lasciato una lettera, sulla cui busta pregava un qualche servitore di recapitarla il prima possibile.
Verso soltanto una lacrima, ripensando al vortice di emozioni che l’aveva trascinata sempre più in basso, quasi a volerla ancorare per sempre a Palazzo Orsini, quasi ormai ella appartenesse a quelle mura scrostate, a quei giardini perfetti.
Rivolse uno sguardo alla superficie sporca dell’acqua.
Tra i mulinelli, vide il volto di Ezio.
Allora si lasciò andare, abbandonandosi alla corrente, lasciando che le sue pietre la portassero sempre più a fondo. Scomparve senza un lamento, sorridendo, anzi, nel sentire il suo corpo farsi pesante.
Finalmente sentiva le braccia di suo marito stringerla a sé, le risate fresche del Conte di Fontenera intento a consigliare a Messer Rangoni un nuovo piano economico, la voce di Ezio raccontarle una storia nella grande biblioteca del loro palazzo.
Finalmente si sentiva a casa.


Carissimo,
la malattia mi ha stroncata di nuovo, impedendomi stamane persino di uscire in giardino a prendere una boccata d’aria fresca. Sento le forze abbandonarmi lentamente, quasi vi fosse per loro un luogo più luminoso e forte verso cui fluire. Non sono più sicura di riuscire a superare questo malore che anziché bruciarmi il respiro sembra volermi bruciare il cuore.
Non posso continuare a gravare sulle vostre spalle come un fantasma, costantemente presente anche se lontana, fonte di sole preoccupazioni. Una moglie dovrebbe essere la forza di suo marito, non la sua debolezza, dovrebbe portare la primavera nella sua anima, non l’inverno. Così faccio la cosa migliore per me e per voi. Siete stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere, e devo a voi tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Avete avuto con me un’infinita pazienza, siete stato incredibilmente buono. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della vostra bontà.  
Restate fedele a quegli ideali di arte e bellezza che mi avete trasmesso e che tanto vi hanno dato negli anni, e non siate triste per la vostra sposa; sto andando in un posto infinitamente più bello, infinitamente più luminoso.
Mio caro marito, non piangete la mia morte. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.


Bianca.



Il Conte Riario arrivò sulle rive del Tevere che Bianca era già sparita.
Di lei, il fiume non aveva lasciato neanche un capello, neanche una misera risata, appena accennata tra l’erba fresca e umida del mattino.
Prima di andarsene, la ragazza aveva lasciato una lettera sulla scrivania del suo ufficio. Non spiegava molto, in realtà, lasciava giusto il tempo di precipitarsi sul fiume e osservare come il lento fluire della corrente avesse cancellato ormai ogni cosa di lei.
Riario non fece molto, in verità.
Si limitò ad osservare la corrente del Tevere, raccogliere l’unico papavero che cresceva su quelle rive erbose e donarlo all’acqua, guardandolo andare via e sparire sotto la forza dei mulinelli.
Immaginò, mentre si sedeva a terra con fare crucciato, che l’esile corpo di Bianca fosse stato inghiottito con la stessa facilità, senza lasciarle il tempo di emettere un solo lamento, una sola richiesta d’aiuto.
Vi avevo chiesto di essere paziente, equilibrato, gentile”, gli aveva scritto, con la calligrafia tremante di chi ha troppo poco tempo per lasciare qualche riga. “E vi avevo promesso che al mattino sarei stata con voi”.
Riario si fece pensieroso, congiungendo le mani sotto al mento. Osservava ancora il fiume rapito, forse, dalla sinuosità dei movimenti dell'acqua.
Se me ne sono andata, versate del sale sulle vostre ferite. Vi aiuterà a dimenticare”.
Mise la mano inguantata nella tasca della giacca, estraendone il ritratto stracciato che Bianca aveva usato come segnalibro mesi prima, nella vana speranza di sentirsi ancora legata a qualche amico che presto si sarebbe dimenticato di lei.
Improvvisamente, si ritrovò ad accarezzare quella figura dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso ed esattamente ingenuo come lo era in gioventù. Quella smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola parola, aveva passato più guerre di un condottiero.
Ma era tardi, perché Bianca Ordelaffi se l’era presa il fiume, inghiottendo, assieme al suo corpo, ciò che era stata e ciò che sarebbe potuta diventare. Era sparita la sua grazia, la sua bellezza, la sua risata colma di dolcezza e fiducia in ciò che la circondava. Il Tevere si era preso ogni cosa.
Di lei, era rimasto solo il ritratto.


   
 
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