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Autore: Dulcamara_KR    05/07/2013    0 recensioni
I passeggeri degli aerei non si libravano in volo. Vibravano nelle atrofie tumefatte di una metropolitana vuota in attesa di un binario che profanasse loro i genitali in una detersione di ruggine -tanto per condividere uno stadio di ossidazione-  e percepire l’accento del convoglio in arrivo per audio-lesionarsi l’apparato digerente e defecare merce genuina  senza controindicazioni. 
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Amnesia in ipotermia -
 

Il congelatore era aperto; avevo vasta scelta, tra le poche ampolle di sedativi torchiati sull’ingresso penzolante. Presi il bicchiere di sakè, ipotermico. L’edificio precipitava progressivamente sul suo piedistallo ricurvo, era un collasso marmoreo che inebriava i vicini; il tempo delle demolizioni era concluso e i loro sguardi pseudo-reminiscenti traducevano un cordoglio caustico in una funzione matematica di involtini festivi. Lo scalpore quotidiano del telegiornale dell’una era uno schianto diretto sull’asfalto. Il sole esortava i sacchi congiuntivali all’inerzia e le auto senza conducente circolavano con il rosso. Non volevano esaudire i semafori di domenica e i titolari venivano investiti. Un investimento meritevole: si costruivano monumenti già demoliti, si erigevano agglomerati di vite urbane già defunte, si masticavano gli arti del nipote limitrofo al concepimento in una discoteca assortita dei più svariati colori che un’onda elettromagnetica poteva offrire. I passeggeri degli aerei non si libravano in volo. Vibravano nelle atrofie tumefatte di una metropolitana vuota in attesa di un binario che profanasse loro i genitali in una detersione di ruggine - tanto per condividere uno stadio di ossidazione -  e percepire l’accento del convoglio in arrivo per audio-lesionarsi l’apparato digerente e defecare merce genuina senza controindicazioni. Io non le volevo le costruzioni, né le diciture sotto le lenzuola sui precipizi disseminati e sputati sui sedativi, che mi ascoltavano in silenzio.
Io il mio silenzio non lo ascoltavo, i muri sproloquiavano lingue di serpente e il materasso estivo l’avevo lasciato in cantina; avevo attuato dalla nascita il cambio stagionale. Faceva freddo in quell’apostrofo di religioni crocefisse al solaio e assolta dai miei alibi e dai miei abiti disabitati avrei raccolto meglio le mie ceneri se fossi tornata indietro. Un rapporto immediato tra produttore e consumatore, tra il tetto cementizio e il pavimento in legno che si ricongiunge al suolo primordiale.
Quel sakè si crogiolava immoto nei suoi bordi distillati, accalcatisi a quel vetro rigato in un atto di deflagrazione interrotta. Una diga di polistirolo in una confezione di anabolizzanti affissi sulle cefalee ischemiche, una camera iperbarica di materia purulenta narcotizzata dall'intonaco avvizzito dell’operaio che ieri mi aveva strappato le dita per il supermercato senza porte dietro l’angolo; l’ingresso era un tombino autostradale e l’accesso richiedeva carne umana nell'esofago. Togliermi le dita, dopotutto, era stata una dannata beatitudine. I fucili che pendevano dagli occhi erano lettere senza gesticolazioni e i grilletti dipingevano i crepuscoli di radiazioni impiccate. Il sakè inglobava il perduto e il “perderai” torchiato sul vetro non era altro che un riflesso di un passato reiterato, ridetto, ri-dissimulato, che indossava le vesti di un futuro mai giunto. La sua riproduzione in provetta mi aspettava sulla soglia, mi comunicava disinibito una carezza d’amore sulla guancia con un rossetto viola, un’arteria di plastica smorzata e un santino in mano. Decisi di iniettarlo nelle falangi e di farla finita con i retroscena della sua presenza. Era irritante. Ed io quel congelatore non lo avrei mai più utilizzato, perché il sakè circolava ormai nel sangue ed io lo avevo sempre saputo.
   
 
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