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Autore: La neve di aprile    05/07/2013    2 recensioni
La vita era tutta una questione di scelte, e Sabbia lo sapeva bene.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Ad Alice,
a cui appartiene la vera Sabbia e che mi ha fatto compagnia in tanti pomeriggi piovosi con la sua incredibile fantasia.
E che non mi perdonerà mai questa sviolinata sentimentale...!







CUORE DI MADRE

 

 

 
La vita era tutta una questione di scelte, e Sabbia lo sapeva bene.

Lo aveva saputo quando era stata una bambina con gli occhi grigi troppo grandi e i lineamenti affilati dal vento del deserto, mentre guardava gli emissari della Setta uccidere la donna che si era rifiutata di cederla quando i tempi – e il suo Sangue – erano stati maturi. Se solo sua madre le avesse mai chiesto se lei volesse andare, se intendesse rinunciare al suo amore in cambio della grandezza che solo la Setta del Caos sapeva risvegliare, se davvero l’avesse fatto allora forse non sarebbe morta perché Sabbia le avrebbe detto si, voglio andare.

Non aveva mai compreso davvero, sua madre. Nei suoi ricordi sbiaditi del tempo la vedeva ancora come una donnicciola insignificante, dal sorriso gentile e la volontà viziata dall’affetto per lei, la figlioletta sopravvissuta alla Guerre dei Feudi che le avevano portato via il marito e la sicurezza di una vita agiata nel cuore di El Hamza. Ricordava la disperazione quando si nascondevano tra le gole degli altipiani del nord, braccate da ombre gonfie di mostri scatenati sulle loro tracce con il solo scopo di stanarle; la vergogna quando elemosinavano l’ospitalità di un pastore nella speranza di poter dormire con le sue bestie in una stalla. Ricordava la stanchezza, le ombre buie stese come acquerelli sulla filigrana brunita della sua pelle, e ricordava il desiderio bruciante che sentiva di strapparle gli occhi dal volto pur di non leggere più tutto l’amore che, nonostante tutto, sapeva riservarle persino nei momenti in cui non era più in grado di trascinarsi con passi martoriati da piaghe sanguinanti. Non che la detestasse, in fondo aveva sempre provveduto a trovarle acqua fresca con cui dissetarsi e un tozzo di pane per zittire i morsi della fame, ma tutto quel sentimento non era mai stata in grado di tollerarlo perché, semplicemente, non sapeva concepirlo. Era sempre stata troppo presa da se stessa per potersi preoccupare di qualcun altro, troppo presa dal fantasticare su quella che sarebbe diventata se gli Dei avessero esaudito la sua preghiera consegnandola agli Stregoni, per potersi aprire al mondo e permettere a qualcosa di estraneo di irrorarle il cuore di nuova linfa.

Aveva accolto con sollievo la loro venuta. Nel turbinio infernale del potere evocato – lo stesso che avrebbe sentito sbocciare sulla punta delle sue dita nel corso degli anni, dando la caccia a fuggitivi senza speranza come lo era stata lei – le urla di sua madre non avevano avuto neppure la forza di sovrastare lo stridio del fuoco che la consumava mentre una donna dalle dita inguantate da bende marce la teneva ferma al suo fianco. Non c’era stato bisogno di costringerla a guardare, avevo scelto da sola di vedere. Non c’era stato bisogno di forzarla ad ascoltare, aveva scelto da sola di sentire. Quella notte si era lasciata alle spalle le ceneri dell’unica persona che aveva mai tentato di insegnarle l’amore, e con il filo di fumo che il vento aveva spazzato via se ne era andata anche l’unica traccia tangibile del suo fallimento.

Che la Setta poi non si fosse dimostrata affatto simile a quello che aveva fantasticato nei suoi anni scontati in perenne fuga, l’aveva scoperto sulla sua pelle quando era stata esaudita e si era avventurata lungo una strada lastricata di indicibili sofferenze. Aveva dovuto stringere i denti e tollerare ogni genere di crudeltà, nel buio di notti stellate aveva pianto lacrime rigonfie d’odio e sbranato brandelli di rabbia per poi tornare a fingere, allo scoccare luminoso di ogni nuova aurora, di non disprezzare più di ogni altra cosa la sua maestra e il branco di marmocchi che, come lei, erano stati risvegliati. Estate non era stata paziente nell’insegnarle a scovare il ponte tra il centro di sé e l’energia del mondo e aveva preteso più di quanto una bambina potesse offrire. L’aveva costretta sotto il sole del mezzogiorno, con i piedi scalzi nella sabbia rovente, ad ignorare ogni dolore. L’aveva costretta ad umiliarsi da sola con chi aveva già percorreva una delle strade del Dominio e aveva dato forma, colore, al proprio potere: dove lei annaspava tra i nodi d’energia e sapeva al più evocare una magia grezza e imprecisa, loro manipolavano gli Incubi, svisceravano la Morte, vezzeggiavano il Fuoco.

Con una dedizione che spesso aveva scambiato per odio, Estate aveva frantumato i pilastri del suo essere, riducendo in macerie ogni sua più piccola convinzione, polverizzando sogni e speranze. Quando poi non erano rimasti altro che brandelli scomposti di qualcosa che non sarebbe stato più, allora l’aveva plasmata secondo i profili ben definiti dei suoi desideri. Non aveva perso tempo a insegnarle la disciplina, aveva preferito sottometterla per insegnarle a nutrirsi dell’odio. Sabbia non avrebbe mai dimenticato la forma allungata degli occhi di Estate, il loro colore buio imbevuto di un male a cui non avrebbe saputo dare altro nome che “ambizione”, né il sorriso affilato con cui l’aveva guardata il giorno in cui era sbocciata, agli albori dei suoi quindici anni, in un trionfo di oscurità.

“Sei pronta, figlia mia” le aveva bisbigliato con una carezza, toccandola non per punirla ma per premiarla. Era stata la prima e ultima volta, perché Sabbia aveva reagito evocando qualcosa che non sapeva esistere nei meandri aridi del suo cuore e che aveva inghiottito Estate in un turbinio di tentacoli violacei. Nell’aria, l’odore acre della carne bruciata.


 

*

 

Quando la ragazzina si era presentata al suo cospetto, tanti anni si erano frapposti tra il presente e il giorno in cui era saltato alla gola della Stregona che le aveva insegnato ogni cosa. Nella solitudine imposta dal più tetro dei Domini li aveva guardati scivolare via sull’onda della corruzione che aveva accolto in grembo come un figlio, lasciandosi consumare in cambio di una fame che non trovava pace.

Lei era minuta, un groviglio di linee nervose e occhi troppo grandi per il visetto pallido che la guardava con arroganza; sul capo una criniera di riccioli la incoronava d’oro purissimo. Si era presentata con un nome, le aveva proibito di pronunciarlo di nuovo. Quel nome rappresenta ciò che eri, le aveva detto con freddezza, ne avrai uno nuovo quando sarai diventata ciò che sei nata per essere. E poi si era lasciat sfuggire il principio di un dubbio che voleva la consumasse come un tarlo, un forse appena bisbigliato che minasse le sue sicurezze e la lasciasse esposta alle gelide correnti dell’insicurezza. Nell’attesa l’avrebbe chiamata Polvere, perché ai suoi occhi non era niente di più. Non si era lamentata, ma nello sguardo aveva colto una scintilla di disprezzo che, insolitamente, le aveva riempito il petto di soddisfazione. Non perché effettivamente le piacesse essere disprezzata, era passato troppo tempo dall’ultima volta che aveva dato peso ad un’opinione differente dalla propria, ma perché nel velluto degli occhi di Polvere – straordinariamente simili nel colore ai suoi – aveva scorto un primo barlume di comprensione. Perché esattamente come lei tanti anni prima anche la ragazza aveva creduto che consegnarsi alla Setta fosse l’unico prezzo da pagare per la sua accettazione. Tanto era bastato per sceglierla, per reclamarla come sua agli occhi degli altri Stregoni: fosse stato solo per spezzarla e dimostrare la sua inettitudine, Sabbia l’avrebbe cresciuta esattamente come Estate aveva fatto con lei. Si appartenevano, in un modo o nell’altro, e tanto bastava a giustificare il tempo che le avrebbe portato via la sua educazione.

Non era stata gentile, non era stata paziente. Non aveva rispettato i suoi tempi e l’aveva costretta a forzare se stessa, a immergersi nella melassa putrida della sua insoddisfazione e a nutrirsene, a soggiogare la propria volontà alla necessità di rimanere in vita. Piegata, senza dubbio, ma viva. Il giorno in cui aveva dato prova di saper evocare la forma più grezza del potere, mezza assiderata ma tenacemente immobile con l’acqua del lago alla vita e la neve tra i capelli biondi, aveva deciso di sacrificarla. Non desiderava effettivamente sbarazzarsi di lei, ma non era stata Estate ad insegnarle che uno Stregone morto è uno Stregone inutile? Se Polvere fosse morta, tanto peggio per lei: il tempo che aveva perduto nella sua formazione non le sarebbe mai stato restituito, ma non sarebbe stata lei a fallire. Non del tutto. Non era neppure curiosa di sapere se sarebbe sopravvissuta o meno: quando le era stato chiesta una pedina da immolare sulla scacchiera delle trame del caos, Polvere era stato il primo nome che le era sorto alle labbra. Senza motivi, senza spiegazioni. Si era limitata a ordinarle di andare e di evitare il ritorno senza quello che le era stato richiesto di recuperare. Ora, a ripensare a quei giorni, non avrebbe neppure saputo dire cosa Polvere aveva dovuto recuperare. Non l’aveva aspettata, non aveva sentito la sua mancanza. Se fosse morta davvero non l’avrebbe pianta, non si sarebbe preoccupata di andare in cerca del suo corpo per dargli una degna sepoltura né avrebbe raccomandato la sua anima ai Signori dell’Oltre. Non c’era spazio per gli Dei nella vita di uno stregone – glielo aveva insegnato Estate il giorno in cui l’aveva sorpresa con una bestemmia sulle labbra –, lo Stregone è Dio di se stesso.

Contro ogni sua aspettativa, però, Polvere aveva fatto ritorno. Lacera, vestita di stracci e lividi, sanguinante e cieca di un occhio. Però era tornata e quando si era presentata al suo cospetto non aveva tremato né fatto sfoggio del dolore che invece la consumava nella carne, trasformando in supplizio persino il semplice respirare. Con voce ferma aveva detto quello che aveva da dire, aveva consegnato quello che aveva da consegnare e se ne era andata. Le sue urla, quella notte, avevano tenuto sveglio ogni singolo membro della Setta: i Figli del Fuoco si erano agitati, cuccioli desiderosi di avere una preda da inseguire, mentre i Figli della Notte si erano innervositi e avevano partorito ombre viscide, gravide di incubi e terrori senza nome. Solo i Figli della Morte avevano sorriso, nel buio delle loro aberranti fantasie, e Sabbia con loro. Tuttavia si era presentata al suo capezzale all’alba, facendosi sorprendere da un unico occhio vigile – grigio come il giorno che stava sorgendo, una lama avvelenata che le si era conficcata addosso – intenta a contare tutte le ossa rotte che Polvere si era sistemata da sola, ubriaca di potere e solitudine.

“Non so come fare per l’occhio”, aveva ammesso dopo un attimo di silenzio che era sembrato dilatarsi all’infinito.

“Sai come fare, ma non sei abbastanza forte per farlo”, le aveva spiegato Sabbia tirando su con il naso. Polvere non aveva risposta, fissando il soffitto lercio della baracca che la ospitava, l’aria satura dell’odore dolciastro di erbe ormai passite. Avrebbe potuto chiederle di risistemarglielo, ma non l’aveva fatto. Aveva annuito con la tiepida consapevolezza che fosse solamente questione di tempo prima che il suo sangue le permettesse di rimediare all’inghippo, che i minuti sarebbero scivolati in ore e le ore in giorni, e i giorni in settimane e le settimane in mesi – e ancora avanti, fino a quando non sarebbe stata matura abbastanza, forte abbastanza, per rimediare al suo errore.

“Hai una cera terribile”, si era sentita dire Sabbia.
“Certamente meglio della tua”, aveva ribattuto Polvere con una smorfia, strappandole un ghigno straordinariamente simile ad un sorriso.

Pur non accarezzandole la fronte impiastricciata di sangue e sudore, si era sentita straordinariamente vicina a quella creatura ancora grezza che, finalmente, sentiva in procinto di sbocciare tra le sue mani putrefatte. Non era orgoglio, come avrebbe potuto essere orgogliosa di un ammasso di ossa rotte che neanche sapeva reggersi in piedi? Era qualcosa di più. Qualcosa di cui aveva già intuito i profili insidiosi, le radici avide di un legame che non sapeva spiegarsi in alcun modo. Non aveva mai compreso sua madre, non avrebbe mai potuto, ma iniziava finalmente a capire Estate. La madre che si era scelta e di cui si era liberata alla prima occasione per un gusto di rivalsa giustificato solo dall’odio e dalla necessità di liberarsi il cammino da ogni possibile rivale. Non aveva saputo trattenere un brivido, e quella notte aveva indugiato sul pensiero di quel che sarebbe stato di lei quando l’ora sarebbe giunta. Poco importa, si era detta, la morte non può essere diversa da quel che sono diventata.

Il giorno in cui Polvere era esplosa in un trionfo scarlatto, reclamata a gran voce nei ranghi dei Figli del Fuoco, Sabbia non aveva sudato freddo né, in fondo, aveva permesso alla paura di prendere il sopravvento. Piuttosto era rassegnata, quasi serena, dinnanzi a qualcosa che aveva iniziato a ritenere inevitabile. Quando però la sua allieva, la sua unica allieva, si era presentata al suo cospetto, le aveva sorriso. Aveva stirato le labbra aride, impolverate, e snudati i denti in qualcosa che non era una smorfia né un ringhio.

“Grazie”, aveva detto, “per aver fatto di me ciò che ero nata per essere”.

Forse avrebbe dovuto capirlo, in quel momento.
Non se l’era mai davvero rimproverato, ma probabilmente se fosse stata un minimo più accorta avrebbe già potuto intuire quello spiraglio luminoso che timidamente affondava le sue prime radici nell’animo di Polvere. Se solo avesse voluto vedere, invece che ringraziare silenziosamente la creatura che aveva rinunciato al primitivo diritto di rivalsa su ogni sofferenza subita – e tanto erano state quelle inflitte, così numerose che se per ognuna avesse acceso un piccolo fuoco il mondo intero sarebbe stato consumato dalle fiamme –, avrebbe saputo quanto perduta fosse in realtà. Quanto lo fossero entrambe.

Polvere aveva tenuto fede ai giuramenti del Sangue, senza dubbio, sbocciando splendida e terribile nel grembo infernale delle fiamme oscure. Aveva combattuto le sue guerre, si era spinta la dove solo pochi Stregoni avevano saputo spingersi, aveva reclamato nel nome della Setta la vita di chiunque osasse minacciarla. E mentre Sabbia aveva ricominciato a dedicarsi al raccolto di giovani creature da corrompere, si era inesorabilmente allontanata lungo sentieri imperscrutabili, inaccessibili, incomprensibili. Non avrebbe saputo dire quanto, né come, si fosse allontanata inesorabilmente dai confini slambricciati e putrescenti della sua ombra, del suo Potere. Il giorno in cui se ne era andata, però, aveva sentito qualcosa spezzarsi definitivamente dentro di sé, nel baratro buio dove un tempo aveva battuto – pulito e innocente – il suo cuore. Era stata l’ultima volta in cui aveva pensato a sua madre, la sua vera madre, chiedendosi se fosse stato quello il dolore che l’aveva piagata il giorno in cui la sua vita si era conclusa; se la sofferenza pungente della perdita si fosse risvegliata in quella donnicciola spaventata come ora si stiracchiava in lei, puntellata dal rigurgito buio di tutte le consapevolezze che aveva abbracciato e, soprattutto, di quelle che aveva preferito ignorare

Quella notte erano stati in molti a gridare. All’alba, la solitudine stava aggrappata alle sue dita, un guanto di sangue ancora tiepido che le aveva striato la faccia mentre cancellava quell’unica lacrima che si era concessa di piangere. La perdita di una figlia, si era detta, non avrebbe mai potuto giustificato la perdita di quella che aveva scelto di essere. Mai più si sarebbe concessa il lusso di amare una creatura così come si era ritrovata ad amare Polvere, senza averne neppure coscienza.


 

*



La vita era tutta una questione di scelte, e Sabbia lo sapeva bene.
Era stata fedele a quella promessa a lungo, e non una volta aveva permesso a chiunque di insinuarsi oltre le sue difese. Aveva cresciuto altri mostri, e altrettanti ne aveva perduti lungo la via del Caos. Aveva ucciso, si era sporcata di crimini tanto efferati quanto necessari, aveva dato sfogo al male che a stento riusciva a racchiudere nei margini spigolosi del suo corpo non più giovanissimo. Si era spinta oltre i suoi limiti e il Caos l’aveva incoronata sua Prima Signora agli occhi di una corte di stelle tribolanti, nel cuore di una notte senza luna. Ma non aveva mai più rivisto Polvere, se non nei suoi sogni ebbri di Potere dove il presente e l’imminente si mischiavano in un mosaico confuso, né mai una volta aveva pensato di andare a cercarla per le vastità di un mondo prostrato dal suo dominio oscuro.

Non si era concessa di sentirne la mancanza, aveva scacciato con tenacia la tentazione di stanarla per riversale addosso la sua giustizia ruvida e rinfacciarle che non era nessuno per rifiutarla, per rifiutare il suo affetto, per tradire la fiducia che aveva riposto in lei. Sapeva che se mai avesse sguinzagliato qualcuno dei suoi Stregoni per condurla al suo cospetto poi non avrebbe avuto il coraggio di punirla.

C’era stata una volta in cui aveva davvero creduto di averla trovata. Per caso, nel cuore di un paesino che la misericordia degli Dei si era ben guardata dal baciare, tra le bancarelle polverose del cittadino. Aveva scorto una criniera di riccioli biondi e il brillio vivace di occhi troppo simili ai suoi, nel colore, assieme alla linea ben marcata di un sorriso deciso. Si era accorta di trattenere il respiro solo nel momento in cui la donna si era rivolta a lei con una gentilezza troppo riservata per appartenere a Polvere. Così se ne era andata senza degnare la donna della ben che minima attenzione, scomparendo in un sibilo scuro sotto il suo sguardo incredulo.

Quando poi l’aveva trovata davvero, sfrontata e irridente come nei suoi sogni più imperscrutabili, si era data della sciocca per aver potuto credere che sua figlia potesse esser diventata una contadinotta da due soldi: l’aveva imbevuta di troppa ambizione perché una vita semplice potesse soddisfare la fame che entrambe aveva condiviso. Polvere l’aveva guardata con un sorriso, e poi aveva fatto quello che nessuno aveva mai osato: l’aveva abbracciata. E Sabbia aveva saputo che tutto quanto di buono le era mai appartenuto era scivolato dentro sua figlia in quel momento, liberandola dal peso di una coscienza che a lungo aveva soffocato nei suoi silenzi e nelle sue torture. Si era concesso un sorriso lungo un battito di cuore, poi l’aveva scansata bruscamente.

“Fallo di nuovo e sarà l’ultima cosa che farai”, le aveva intimato freddamente. Polvere aveva sorriso e si era stretta nelle spalle magre. Non aveva avuto bisogno di dire niente, né Sabbia aveva avuto bisogno di sentire nulla. Erano rimaste assieme poco, in silenzio, guardando la lenta discesa del sole verso un orizzonte che non avrebbero più condiviso: più vicine di quanto non lo fossero mai stato, più lontane di quanto sarebbero state in futuro.

Si erano salutate senza promettersi di rivedersi presto, entrambe certe che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro: la vita era tutta questione di scelte, e Sabbia sapeva che Polvere non sarebbe tornata sui suoi passi una volta presa la decisione. Era sua figlia, del resto, e quella era stata la prima cosa che le aveva insegnato.

L’aveva guardata allontanarsi e, solo nel momento in cui era scomparsa nelle prime ombre della sera, aveva sorriso piano.  

   
 
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