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Autore: Ladies in blue    08/07/2013    2 recensioni
Raccolta di storie autoconclusive che raccontano momenti della vita di Dio prima, durante e dopo la sua morte in compagnia di tutti i personaggi presenti nel videogioco.
First - E un’altra anima innocente salì in cielo. [ Dio/Coron ]
{ Storie scritte a quattro mani da Nivees e Calciatrice_ }
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Aya Drevis, Coron, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Ma salve gente! *balla di fieno* io e la mia mammina abbiamo avuto un’altra delle nostre splendide(?) idee. Una raccolta su Mad Father, più precisamente su Dio e i mille pairing con cui possiamo shipparlo Vi faremo     amare coppie che non avreste mai pensato!
Questa prima shot l’ha scritta Calciatrice, ed è sulla DioxCoron, e ci tiene molto a sapere la vostra opinione <3
Regaliamo mini-motoseghe elettriche a chi recensisce!

The Ladies In Blue




«Coron, ci vediamo dopo!» erano state le sue ultime parole rivolte alla ragazzina, mentre veniva trascinato via per un braccio dall’infermiera, verso il laboratorio del bugiardo.
Coron lo definiva così, colui che l’aveva trascinata in quella casa con l’inganno, solo per raggiungere i suoi loschi scopi. E poi solo le urla, e il rumore di una motosega in funzione; la ragazzina non aveva resistito, era uscita dalla loro cella, che Maria aveva lasciato accidentalmente aperta, ed era entrata in quella stanza maledetta, appena il mostro se ne era andato. E ciò che aveva visto la aveva lasciata senza fiato: Dio, il suo unico amico, colui che considerava alla stregua di un fratello, che le aveva promesso che un giorno sarebbero stati una famiglia, era steso privo di sensi sul tavolino per gli esperimenti. Stava per urlare quando la mano di lui, debole e fredda, si posò sulla sua bocca, impedendoglielo. 
«Shh, ci sentiranno. Coron, promettimi che scapperai da questo luogo, troverai una famiglia e non tornerai mai più. Non voglio facciano del male anche a te.» le sussurrò. Dal suo unico occhio color nocciola, la ragazzina poteva giurare di aver visto scendere una lacrima. Il respiro di Dio si fece sempre più debole, le forze ormai lo stavano abbandonando del tutto. Coron iniziò a singhiozzare, incurante del fatto che il mostro la potesse sentire, a pregarlo di rimanere con lei, di non lasciarla in quel luogo tutta sola.
«Dio, Dio, alzati! Presto, andiamo via insieme! Dovevamo essere una famiglia, non ricordi? Me lo avevi promesso,  e le promesse vanno mantenute! T-ti prego, Dio, alzati, portami via di qui…» le parole della ragazza erano sconnesse, interrotte dai singhiozzi, era troppo scioccata per rendersi conto di quello che dicesse.
All’improvviso l’altra porta del laboratorio, quella che conduceva alle stanze private del mostro, si aprì: non era lui, come Coron aveva sperato, ma Maria, l’infermiera. In un moto di pietà, staccò con poca fatica il fragile corpicino della ragazzina, abbracciato a quello dell’ormai defunto Dio, e la trascinò via, rinchiudendola di nuovo nella prigione, dove, d’ora in poi, avrebbe dovuto vivere da sola.

*


Non passò molto tempo, prima che presero anche lei: in fondo, lo shock aveva reso Coron un’automa, un robot, che eseguiva gli ordini senza emozione. Ogni tanto parlava, anzi, urlava, parole sconnesse, finchè Maria non era costretta a sedarla per farla calmare. E il mostro alla fine si era stufato, di avere una bambina matta che con le sue urla rischiava di farsi sentire anche dalla sua figlioletta, della sua età, ignara di tutto ciò che accadesse nei sotterranei della sua casa.
Così, Maria, un giorno la prese per un braccio, con un espressione quasi dispiaciuta – in fondo, si era affezionata a quella ragazzina, impazzita per “amore” – e la portò nel laboratorio, dove le lego mani e piedi e la imbavagliò.
E l’ultima cosa che vide furono gli occhi di colui che le aveva tolto l’unica persona a cui avesse voluto bene in vita sua.

*


Quando si risvegliò, Coron si ritrovò di nuovo nella sua cella, di nuovo sola. Che fosse stato un incubo? Ma quella cicatrice, nello stesso punto in cui il mostro aveva piantato il coltello, le fece capire che non era stato tutto un sogno. Eppure aveva colpito un punto vitale, era impossibile che fosse sopravvissuta…
La porta della cella era aperta, e non c’era nessuno in circolazione, così Coron decise di andarsi a fare un giretto per i sotterranei, forse nella remota speranza di trovare Dio. Esplorò in lungo e largo, ma, salvo un ragazzino più magro di lei che le chiese del cibo, non trovò nessuno.
Fu allora che la vide: una ragazzina della sua età, dai lunghissimi capelli neri, con un bellissimo vestito blu e un fiocco rosso in testa. Aveva l’aria nobile, anche se spaventata, nulla a che vedere con lei e lo straccio bianco che le avevano dato come vestito. Coron la riconobbe come la figlia del “mostro”; aveva sentito parlare di lei da Maria, origliando qualche straccio di conversazione tra lei e il dottore. Le pareva si chiamasse Aka, o Aya… l’amata e innocente figlia del dottor Drevis, mai uscita fuori di quella casa, e ignara di tutto quello che ne succedesse all’interno. Coron provò un moto di invidia per lei, che non aveva mai dovuto patire la fame, che aveva una famiglia che le volesse bene… chissà se l’avesse accettata come sua sorella…
Decise di seguirla silenziosamente, risalendo i sotterranei ed entrando nella villa del mostro vera e propria. Si mostrò a lei varie volte, in una le rubò persino un profumo! Ma solo per vedere se agli animali piacesse, e invece quella se l’era presa così tanto! Aveva persino osato darle uno schiaffo, al quale Coron aveva reagito con una risatina: in fondo, con quella mini-sega a motore, che brandiva con insolita maestria, era uguale al padre.
Decise di lasciare un po’ in pace Aya, e di starsene un po’ per conto suo. Stava esplorando una stanza piena di bambole, quando finalmente ritrovò colui che aveva perso: Dio era lì, con la faccia aggrottata e confusa, ma appena vide Coron i suoi lineamenti si addolcirono e gli tornò il sorriso. La ragazzina gli gettò subito le braccia al collo, lieta di averlo ritrovato, quasi mettendosi a piangere dalla felicità.
«Ehi, Dio, mi sei mancato tanto! Andiamocene via, su, è la nostra occasione! Non capisci? Ci hanno dato un’altra possibilità, fuggendo da qui troveremo sicuramente una famiglia per noi!» esclamò la ragazzina, tutta contenta di poter finalmente uscire da quell’inferno.
«Coron, io non posso, mi dispiace» le  parole del ragazzo lasciarono  Coron completamente spiazzata. Com’era possibile che lui “non poteva”? Glielo aveva promesso, e già una volta la aveva infranta… cosa c’era di più importante da fare, in quella casa maledetta, ora che si erano finalmente riunita?
«N-non posso… ho promesso a Monika, la moglie morta del dottore, che avrei protetto Aya, e non posso infrangere questo patto…» provò a spiegarle tristemente lui.
«Oh, ora capisco. La figlia del mostro è molto più importante di me, Aya di qua, Aya di là! E ti ricordo che avevi fatto anche a me una promessa, eppure non te ne importa nulla di mantenerla!» Coron era ormai scoppiata in lacrime, ma era sempre rimasta attaccata alla camicia di Dio.
«Coron, ascoltami: questa è la tua occasione per scappare, vattene prima che la maledizione finisca e trova una famiglia! Io devo restare qui fino alla fine, ormai… Sai quanto mi piacerebbe venire con te, e quanto mi dispiaccia dirti di no, ma è così… Ti prego, trova una famiglia e non dimenticarti mai di me.» il ragazzo provò a calmarla, accarezzandole lievemente i capelli biondi, ma con scarsi risultati.
«Non lo accetto, no che non lo accetto! Non è giusto, c’ero prima io! Sai che ti dico? Ti odio, Dio, ti odio con tutta me stessa!» E Coron lasciò la camicia di Dio e scappò prima. Lui provò a chiamarla più volte, ma ormai lei era già lontana, e non aveva intenzione di parlargli per molto

*


Coron non faceva attenzione a dove correva, l’unica cosa che le importava era andarsene da quel traditore il prima possibile. Come aveva potuto, lui, l’unico di cui si fidasse? Per chi, poi! Una stupida e viziata ragazzina che voleva salvare il padre, anche sapendo fosse un mostro e che quella fosse la sua punizione per aver inflitto così tanto dolore agli altri.
All’improvviso sentì una voce ormai famigliare provenire da una porta socchiusa: Aya  aveva bisogno di nuovo di aiuto. E Coron pensò che, forse, dopo aver salvato la ragazzina, Dio sarebbe stato finalmente libero di scappare con lei. Allora, magari aiutando la ragazzina, gli avrebbe agevolato il lavoro, diminuendo l’attesa; poi ricordò all’improvviso quello che gli aveva detto, in preda all’ira. Era fuori di sé, e gli aveva detto cose che non pensava realmente, ma quello non era il tempo per scusarsi.
Spiò Aya, alle prese con una bambola che si rifiutava di farla passare e che aveva lanciato una maledizione sul portone, che non si apriva. Solo bruciando quella dannata bambola si sarebbe sciolta, e Coron si affrettò a dirglielo. La piccola Drevis sembrava abbastanza stupita – o forse spaventata – dalla dritta che le aveva dato la coetanea, ma  prese comunque la bambola e si diresse verso l’inceneritore.
Ora che il suo dovere lo aveva fatto, Coron decise di tornare da Dio, per scusarsi. Ma all’improvviso sentì delle voci da una porta grigia, che la chiamavano incessantemente. Appena entrò, vide cinque bamboline, armate di piccoli coltellini da lancio, che la fissavano arrabbiate. Erano una strana visione, sembravano così piccole, tenere e delicate, e invece subito una le lanciò un coltellino.
«Perché stai cercando di aiutare quella marmocchia? La maledizione se la merita, il padre, per quello che ci ha fatto, e lei cerca pure di difenderlo! Rimani con noi, ci divertiremo un sacco! Ehehe, dai lasciala stare!» esclamarono quelle tutte insieme. Coron provò a spiegare loro che lei lo faceva solo per Dio, per potersene finalmente andare insieme a lui, ma il coltellino lanciatole nello stomaco le fece mancare il fiato.
«Allora, perché non rispondi, eh? Se la salverai, non saremo più in grado di tornare in vita! È questo per caso quello che vuoi?» cantilenarono le bamboline.
«Ehi, ferme! Ferme!» Coron implorò pietà, ma non le fu concessa. Le bamboline continuarono, con quei piccoli coltellini, a tormentarla incessantemente. Cadde a terra, le forze che la abbandonavano lentamente e il sangue che le colava copioso dal viso e dalle braccia piene di tagli. Chiuse gli occhi, triste per aver fallito nel suo intento, pensando che la fortuna, ancora una volta, non era stata in suo favore.
Ma, nonostante tutto, ancora non era morta: probabilmente era solo questione di tempo, perché non sapeva fermare l’emorragia, ma i coltellini non avevano colpito punti vitali. Però soffriva, eccome se soffriva, sentendo quelle mille lame che la pungevano. Sperava vivamente che l’agonia finisse presto, non ne poteva davvero più. Vide uno scalpellino, di quelli che venivano usati per scolpire le statue, lì sul tavolo, provò ad allungare la mano ma non riuscì a prenderlo per farla finita.
In quel momento, entrò Dio, ansimante. Appena la vide la sua espressione divenne piena di sofferenza, nel trovare la sua migliore amica – e forse anche di più – stesa a terra, con piccoli coltelli infilzati dappertutto e circondata da un’aureola di sangue attorno a sé. Le bambole, intanto, si erano immobilizzate, tornando ad  essere normali.
All’inizio la avrebbe voluta rimproverare, chiederle perché non lo avesse ascoltato e non se ne fosse andata via, ma appena le fu più vicino gli venne istintivo abbracciarla forte, in lacrime anche lui.
«E-ehi, Coron… I-io, mi dispiace, non volevo ti succedesse, io… io…» le parole di Dio erano sconnesse, di solito era lui quello calmo, e invece…
«D-dio…» lei lo fissò, i grandi occhioni verdi pieni di dolore «N-non preoccuparti, è colpa mia. Ho agito di impulso, come al solito, e ho sprecato l’ultima opportunità che mi avevano dato. E ti ho detto quelle parole orribili, giuro che non le pensavo davvero…»
«Non preoccuparti, io ti ho perdonato, quindi dovresti farlo anche tu con quella storia dello scappare insieme… Se io non avessi giurato di proteggere Aya, nessuno di voi sarebbe potuto tornare in vita. L’ho fatto per darvi una possibilità a tutti…»
«Che io ho sprecato così…» concluse lei, sentendosi improvvisamente stupida e insensata. Il  dolore che provava dentro di sé, anche se non aveva un’anima vera e propria, si aggiunse a quello fisico. Dio, a questo punto, non sapeva più cosa dire. Si sedette al suo fianco e  iniziò a giocherellare con i suoi capelli, come faceva sempre quando erano prigionieri.
«D-dio, fa male…» si lamentò piano. Stava soffrendo troppo, e, anche se non voleva ammetterlo, era arrivata ormai l’ora di dire addio a tutto: a Dio, alle speranze e ai suoi sogni di avere una famiglia. Improvvisamente si ricordò dello scalpellino sul tavolo, che avrebbe potuto far terminare in un attimo tutte le sue sofferenze. Dovette implorare il ragazzo per convincerlo a finirla; quando lui le si avvicinò con lo scalpello in mano, a Coron sfuggì una lacrima solitaria.
«Non volevo finisse così…» sussurrò Dio, affondando l’arma dentro lo stomaco della sua migliore amica e tenendole stretta la mano finchè finalmente spirò.

E un’altra anima innocente salì in cielo.

  
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