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Autore: Neko no Yume    09/07/2013    3 recensioni
Fronte occidentale, la Marna a pochi chilometri e il frastuono degli eserciti che rimbomba ovunque.
Un respiro appena accennato e tremolante sotto una divisa tedesca, nemica.
Probabilmente i militari che presidiavano il suo ospedale l'avrebbero finito seduta stante, ma Sharon non era arrivata fin lì per mietere vite.

Poi, la mattina.
(wwi storical au; il titolo potrebbe o no essere una semi-citazione letteraria)
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Sharon Ransworth, Xerxes Break
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Si svegliò di soprassalto, le labbra spalancate nel grido che aveva represso per tutti gli anni passati al fronte.
Qualcuno le stava tenendo una mano sulla spalla per impedirle di fare movimenti bruschi, ma Sharon sentiva ugualmente il cuore dibattersi come un'uccellino in gabbia.
L'ultima cosa che ricordava era di aver visto il suo volto, il volto che l'aveva tenuta sveglia per mesi.
E che ora la stava fissando con aria preoccupata da una debita distanza, impacciatamente seduto sul bordo del divano di quello che la donna riconobbe come il suo salotto.
"Come ti senti?"
La voce di Reim, decisa e rassicurante come ogni volta che si rivolgeva a un paziente, completamente priva di qualsiasi nota di panico, la riscosse del tutto dal torpore dello svenimento e Sharon voltò con lentezza la testa verso di lui.
"Ho conosciuto tempi migliori..." biascicò dopo un istante, per poi scostare la sua mano dalla spalla con l'intenzione di mettersi a sedere.
Riuscì a puntellarsi sui gomiti senza che nessuno provasse a fermarla e appoggiò la schiena contro la poltrona preferita dal suo coinquilino, lo sguardo fisso sull'unico occhio di Xerxes.
"È bello rivederti, fräulein," azzardò il tedesco stirando le labbra in un sorrisetto che di allegro non aveva nulla.
"Xerxes Break," soffiò lei in risposta, senza prestare attenzione a quanto ascoltare di nuovo l'accento tedesco dell'altro le annodasse lo stomaco. "Tu mi devi delle spiegazioni."
Il sorrisetto di Break si affievolì sino a scomparire in una linea esangue.
"Kevin, prego," la corresse con un filo di voce. "Kevin Regnard, soldato del quarantatreesimo reggimento di fanteria dell'esercito tedesco."
Il cervello di Sharon impiegò una manciata di secondi a elaborare quell'accozzaglia di dati mormorati in tono colpevole e ricollegarli a tutti i suoi inutili tentativi di ottenere informazioni su qualcuno che non era mai esistito.
O almeno, mai al di fuori di un ospedale da campo vicino alla Marna nel quale lei aveva perso la giovinezza.
Aprì la bocca per dire qualcosa, anche un semplice insulto, ma i ricordi di quei giorni le avevano seccato la gola, che bruciava nei punti in cui si era lasciata aggredire dalle labbra di Vincent.
Tutto per salvare la vita di un uomo di cui non conosceva neanche il nome.
Un uomo che la chiamava fräulein strascicando le erre, un uomo che lei aveva raccolto da una pozza di sangue.
Reim si schiarì la voce e Sharon avvertì il suo sguardo preoccupato vagare da un capo all'altro della stanza, sino a fermarsi sul tedesco.
"Ero spaventato!" sbottò lui, l'iride rossastra improvvisamente segnata dallo stesso smarrimento di chiunque fosse tornato vivo dalla guerra.
La lunga cicatrice che lei stessa aveva cucito sussultò sotto un disordinato ciuffo di capelli ancora più chiari di quanto ricordasse, quegli stessi capelli che lui le aveva chiesto di tagliare anni prima.
Quegli stessi capelli tra i quali aveva lasciato scorrere le dita come nell'acqua della Marna, convinta di potersi rifugiare lontano dai colpi di artiglieria pesante che straziavano l'aria e l'anima.
"Sei sempre così spettinato," mormorò con lo sguardo altrove, lontano migliaia di chilometri, perso tra illusioni ormai andate in frantumi.
Accanto a lei Reim si schiarì la gola, visibilmente a disagio.
"Quindi ci hai dato un nome falso perché non ti fidavi di noi," commentò dopo un colpo di tosse. "Ho capito bene?"
Il tedesco si limitò ad annuire, le dita strette attorno alla stoffa del divano come se fosse stato sull'orlo di precipitare in un baratro che solo lui riusciva a vedere e che Sharon avrebbe solo potuto intuire.
Del resto neanche lui avrebbe mai potuto perdersi nell'abisso dei ricordi della donna, neanche se fosse stata lei stessa a guidarlo; potevano solo trattenersi a vicenda dal fare un altro passo.
La stanza restò immersa nel silenzio per qualche attimo ancora, poi il medico si alzò e si avviò verso la porta di casa a passi lenti, voltandosi verso Kevin prima di uscire.
"Lei ti ha salvato la vita, straniero," sentenziò gelido. "Io potrei non essere altrettanto clemente."
I due uomini si scambiarono uno sguardo eloquente, dopodiché Reim si decise a lasciarli soli.
"Fräulein Rainsworth," azzardò il tedesco "ho provato a dirtelo il giorno dell'evaquazione."
Improvvisamente le tornarono in mente il cortile dell'ospedale, assediato dalle ambulanze e dagli spari, e le labbra del soldato che si muovevano senza che lei riuscisse a carpire alcun suono.
"Vuoi che me ne vada?" lo sentì chiedere con un filo di voce.
Voleva che se andasse?
Una parte di lei l'avrebbe cacciato a calci via dalla città, via dalla Svizzera, in qualche posto dove non potesse più riaprire le ferite che si era sforzata di dimenticare, ma allo stesso tempo l'idea di perderlo di nuovo la terrorizzava.
Ora che lui era lì, al riparo dai loro orrori quotidiani.
"Sharon, prego," lo scimmiottò con un sorriso raddolcito, per poi alzarsi (era normale che la testa le girasse così tanto?) e percorrere a piccoli passi la distanza che li separava.
"Voglio chiamarti col tuo vero nome e voglio che tu faccia lo stesso."
Lo disse tutto d'un fiato, riuscendo chissà come a sostenere il suo sguardo senza lasciar tremare la voce, osservando immobile le braccia dell'altro protendersi verso di lei e attirarla verso il basso, contro il petto di un uomo scosso da tremiti che sembravano singhiozzi.
Le mani di Kevin erano esili, eppure la stringevano sino a farle mancare il fiato, mentre la sua bocca biascicava senza riuscire a fermarsi il nome di colei che l'aveva salvato.
Reim avrebbe raccontato più volte di essere tornato a casa a notte fonda e di averli trovati addormentati in quella posizione, raggomitolati l'uno nell'abbraccio dell'altra.


"Emily Regnard, scendi subito da lì!"
Un microbo di cinque anni appena compiuti corredato di sorriso macchiato di marmellata al lampone si affrettò a saltar giù dalla sedia che stava usando per arrivare alla credenza, per poi correre verso il padre, sicura che lui non l'avrebbe mai sgridata.
Le bastava uno sguardo, lo sguardo di sua madre nel rosso degli occhi del padre, per farlo sciogliere come neve al sole.
"E non nasconderti dietro di lui!"
Con sua madre era diverso, ovviamente.
La bambina si pulì in fretta e furia la marmellata dal viso col dorso della mano, per poi fare qualche passo incerto verso la donna.
"Scusa..." farfugliò in un bisbiglio che di contrito aveva solo l'apparenza.
Sharon si portò le mani sui fianchi con un sospiro, le labbra piegate nella smorfia rassegnata che Emily riusciva sempre a strapparle, in un modo o nell'altro.
La bambina sapeva di aver vinto ogni volta che le vedeva quell'espressione e si precipitò di corsa verso di lei, venendo presa in braccio al volo.
"Piccola peste," ridacchiò sua madre mentre le mordicchiava scherzosamente una guancia.
"Ma guardatele," commentò Kevin, per poi avvicinarsi alle due con l'andatura titubante ed estatica al tempo stesso che caratterizzava ogni suo atteggiamento nei confronti della figlia. "Mamma gatta e la sua prole."
Emily emise un miagolio in falsetto e Sharon si concesse un istante per sbilanciarsi sulle punte dei piedi e rubare un bacio frettoloso al marito.
I due si scambiarono un sorriso al di sopra della chioma bionda della bambina, bionda come quella di una Rainsworth ma perennemente arruffata come quella del padre.
L'unica cosa che non le avevano trasmesso era l'incubo ricorrente che li teneva svegli nelle notti più buie e li faceva sobbalzare a ogni rumore improvviso.
E andava bene così.
La piccola cresceva nel multietnico abbraccio di Ginevra e andava bene così.
Sharon aveva dovuto aspettare anni prima di riuscire a lasciarsi alle spalle il ricordo delle mani di Vincent e permettere a Kevin di toccarla, stringerla a sé sotto le lenzuola, solleticarle le orecchie col fiato affannato che l'aveva cullata nei tempi della guerra, ma anche quello andava bene così.
Alla fine avevano avuto Emily, coi suoi occhioni carichi della luce che credevano di aver perso.
Era talmente luminosa, totalizzante e inaspettata che entrambi avevano finito per alzare lo sguardo dai loro abissi personali, guidati da una risata mille volte più fragorosa dei colpi delle mitragliatrici.
Le guance della bambina sapevano di marmellata al lampone e le mattine sapevano di vita.
















Yu's corner.
Ommioddio, sono viva!
Sono sopravvissuta alla maturità!
E sono anche riuscita a scrivere l'ultimo capitolo di questa storia!
Okay, con calma.
Aaaaaaahjsfdgaldgl non riesco a crederci, ho davvero concluso tutto--
Direi che è d'obbligo un ringraziamento stratosferico a tutti gli adorabili lettori che mi hanno seguita in Daylight e che hanno saputo dimostrarmi un affetto e un coinvolgimento commoventi.
Vi voglio tanto bene, sappiatelo.
Questo capitolo è dedicato a voi, con la speranza che sia risultato all'altezza dei precedenti nonostante sia così corto.
Bene, ora direi che posso anche rintanarmi da qualche parte, tipo dall'altra parte del mondo magari.
Ancora un grazie grande quanto la pazienza di Reim a tutti voi, miei cari!
Bye bye,
Yu.

PS: Se tra di voi c'è qualcuno che segue Shingeki no Kyojin, sappiate che è in cantiere qualcosa. Sshhhh.
  
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