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Autore: Rey_    11/07/2013    8 recensioni
«Di cosa hai paura, Eileen?» le sussurrò tra i capelli, aprendo gli occhi e sentendola irrigidirsi tra le sue braccia.

«Ho paura delle persone» soffiò infine, il respiro caldo sul collo di Niall che lo fece tremare.
Solo in quel momento Niall si rese conto di quanto realmente fossero vicini, di come sarebbe bastato chinare il viso per perdersi in quel paio di occhi verdi che lo confondevano, di come avrebbe potuto posare un dito sotto al suo mento per alzarle il viso quel tanto per poterla baciare. Ma ovviamente non fece niente di tutto questo, non aveva abbastanza coraggio per sfidare la sorte in quel modo così sfacciato.
Così si limitò a ripetere «Delle persone?» con tono interrogativo, facendole intendere di doversi spiegare meglio.
«Si»
Niall si sforzò di deglutire, le carezzò delicatamente la guancia ,sfiorando la sua pelle accaldata e morbida, e la fissò dritto negli occhi.
Azzurro contro verde.
Stomaco chiuso e mente vuota.
«Anche io ti faccio paura?».
Quella domanda la spiazzò. Niall la vide deglutire con difficoltà e mordersi il labbro inferiore, indecisa.
«No, tu no» disse infine, abbassando lo sguardo e sorridendo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. Ray of sunshine.


 


Raggio di sole. Era quello che significa il suo nome, quello che la colpì dritta negli occhi quella mattina di giugno, la prima mattina dopo la fine della scuola, svegliandola decisamente più presto di quanto avrebbe voluto.
Eileen sbruffò silenziosamente, odiando il suo sonno leggero e detestando il fatto che le bastasse un piccolo rumore o, appunto, un semplice raggio di sole per riportarla nel mondo dei vivi.
Sua madre le aveva messo quel nome perché, aveva imparato la sua risposta a memoria per tutte le volte che gliel’aveva detto, lei era stata come il primo raggio di sole all’alba, come quando le nuvole si spostano per lasciare spazio alla luce del sole, era stato il risvolto che le aveva migliorato la vita. Lei, Eileen, l’aveva resa felice al primo singhiozzo di pianto dopo essere uscita dalla sua pancia.
Quando era piccola e la mamma le ripeteva quelle parole, Eileen faceva una faccia schifata, non sopportando tutta quella dolcezza e pulendosi la guancia con la manica della maglia quando la mamma gliela riempiva di baci dopo quella confessione. Andando avanti con gli anni, Eileen però si era ritrovata ad ascoltare sempre più affascinata quelle parole, pronunciate da una voce così dolce e soave, a volte un po’ da bambina, senza ancora capire quanto potesse essere importante.
A diciannove anni, rimpiangeva tutte le volte che non aveva abbracciato forte sua mamma, tutte le volte che aveva schifato un suo bacio, tutte le volte che non le aveva risposto che anche lei, anche se odiava dirlo, le voleva bene. A diciannove anni, Eileen sarebbe voluta tornare indietro nel tempo per dire alla mamma, prima che se ne andasse via per non tornare più, che doveva resistere perché aveva bisogno di lei.
Ma non l’aveva fatto, e lei se ne era andata lasciandola sola.
La sua mamma era stata sempre una persona dolce, affettuosa e decisamente troppo fragile per sopportare tutto il male che c’era al mondo.
Quindi aveva deciso di andarsene, senza considerare il fatto che in quel mondo Eileen sarebbe rimasta sola e avrebbe dovuto imparare a cavarsela.
Fortunatamente però Eileen aveva lo stesso carattere del padre, cosa che non faceva molto piacere; era forte, fiera e pronta a qualsiasi cosa.
Per questo, quella mattina, ignorando il fatto che sicuramente avrebbe trovato Mark Walsh al piano di sotto, intento già a quell’ora di mattina a cercare una qualche lattina di birra, si alzò dal letto e mise in moto tutta la sua materia grigia.
Era una ragazza intelligente, Eileen, talmente intelligente da uscire dal liceo con il massimo dei voti, così intelligente da passare intere giornate a scuola, iscrivendosi a tutti i corsi pomeridiani esistenti. Tutto, pur di passare il minor tempo possibile a casa.
Stropicciandosi gli occhi con le mani e stiracchiandosi per bene, facendo scricchiolare tutte le sue articolazioni, si costrinse ad alzarsi e a trascinarsi con passo pesante nel bagno della sua camera.
Sedici Giugno, ore 7.30 ed era già sveglia.
Se l’avesse raccontato alle sue compagne di classe non ci avrebbero mai creduto, o meglio, l’avrebbero odiata, considerando il fatto che non c’era un giorno che non arrivasse tardi a lezione, interrompendo ogni volta e costringendo tutti i suoi compagni ad ascoltare di prima mattina la solita ramanzina dei professori.
Ma lei non poteva farci niente, se la sera si dimenticava di fissare la sveglia, ma si accertava che le serrande fossero chiuse abbastanza bene da non lasciar passare neanche uno spiraglio di luce mattutina.
Per quello solitamente si svegliava con i grugniti di Mark che si trascinava in bagno barcollando e sbattendo contro qualche mobile. Lei non lo chiamava più ‘papà’, perché non meritava neanche quell’appellativo, ma sapeva che doveva essergli riconoscente per averla svegliata tutte le mattine ricordandole che doveva alzarsi per andare a scuola.
Quella mattina però ci aveva pensato quel fastidioso raggio di sole a farlo e, ci avrebbe scommesso, non era stato Mark, perché sicuramente era già andato, addormentato su quella sua sudicia poltrona davanti a uno schifoso programma tv.
Lo odiava, con tutta se stessa, perché lui le tappava le ali, le toglieva il sorriso e non le permetteva di sentirsi viva come avrebbe voluto.
Ritrovandosi davanti allo specchio, quasi urlò dallo spavento. La sera prima si era dimenticata di struccarsi, troppo stanca e troppo brilla a causa dei cocktail mandati giù per festeggiare la fine della scuola con le sue amiche, di conseguenza la matita le era colata sotto gli occhi, facendola somigliare ad un panda.
Chiudendo la porta a chiave per evitare inutili assalti o fastidiose sorprese, cominciò a spogliarsi per infilarsi sotto la doccia e risvegliarsi finalmente lasciandosi alle spalle i postumi della serata precedente.
Le sue amiche Sophie e Anne l’avevano convinta ad andare con loro al locale vicino alla scuola e a Riley non gli ci era voluto molto a convincerla a divertirsi. La conosceva bene e sapeva quali metodi usare per costringerla a lasciarsi andare. D’altra parte Eileen si fidava di lui, le era venuto spontaneo farlo da quando, giocando al parco a sette anni, l’aveva difesa da un bulletto precoce che voleva rubarle le bambole per lanciarle nel laghetto per far giocare le paperelle.
Riley aveva scacciato malamente il ragazzino, nonostante avesse solo sette anni e fosse alto a malapena per arrivare a rubare i biscotti che la nonna poggiava sulla credenza.
Da quel giorno, Eileen e Riley erano diventati inseparabili, ritrovandosi a frequentare la stessa scuola , la stessa classe, fino al diploma.
Adesso che il liceo era finito, non gli sarebbe mancato lo stesso perché, se fosse riuscita ad andare al college come voleva, sarebbe stato lo stesso di Riley.
In caso contrario, aveva in programma di andarsene ugualmente da quella città, per rifarsi una nuova vita, migliore, e lasciarsi alle spalle tutto il dolore che aveva provato.
Erano destinati a stare insieme per sempre.
Ma, ovviamente, come in tutte le storie imperfette, loro due erano solo amici, nient’altro.
Non che gli abitanti di Mullingar, dove abitavano, non avessero mai espresso dubbi sul tipo di rapporto che c’era tra Eileen e Riley, ma loro avevano sempre messo in chiaro che non ci sarebbe potuto essere nient’altro che amicizia tra loro due. Si conoscevano troppo bene e sapevano troppe cose l’uno dell’altra per innamorarsi.
E poi, Riley era felicemente fidanzato da tre anni con Heidi, ed Eileen era schifosamente felice per loro, perché erano la dimostrazione che l’amore vero, quello semplice, che nasce tra piccoli sorrisi e sguardi sfuggenti ed è destinato a durare per sempre, esiste.
Asciugandosi velocemente e lasciando i capelli lunghi e biondi leggermente umidi, tanto si sarebbero asciugati con il calore del sole, tornò in camera da letto per infilarsi una semplice t-shirt e un paio di jeans chiari, il tutto accompagnato dalle sue inseparabili converse bianche. O almeno erano così quando le aveva comprate.
Infilò tutto il necessario per sopravvivere fuori casa nella sua borsa e poi si affacciò titubante dalla porta. Il corridoio del secondo piano era deserto, ma quello l’aveva immaginato. Doveva solo sperare che Mark fosse abbastanza distratto da non sentirla uscire o troppo impegnato per porle anche la minima domanda.
Voleva fuggire in silenzio e rientrare la sera tardi quando Mark sarebbe stato già nel mondo dei sogni, anche se sapeva che un confronto con lui prima o poi l’avrebbe avuto. Dopotutto abitavano sotto lo stesso tetto, era impossibile non incontrarsi, per questo stava cercando in tutti i modi di rimediare e l’unico modo in cui poteva farlo era andarsene il più lontano possibile da Mullingar.
Cercando di non fare rumore, scese le scale una per una, attenta a non mettere il piede sul quarto scalino, che sapeva avrebbe scricchiolato anche sotto il suo leggero peso, e poi controllò che Mark non fosse nei paraggi, per poi avanzare per il corridoio a testa alta, senza guardare nelle stanze, sperando che sei lei l’avesse ignorato, allora anche lui avrebbe ignorato lei.
Stava per tirare un sospiro di sollievo, ormai arrivata alla porta, in cerca delle chiavi per aprirla, quando Mark, con il suo passo pesante sbucò fuori dalla cucina con in mano, appunto, una lattina mezza vuota di birra, di sicuro non la prima.
Eileen lo guardò e le venne il voltastomaco: la barba incolta, gli occhi pesti e il solito sorriso sghembo sulle labbra. Quello non era suo padre, non voleva e non poteva credere che un essere del genere fosse causa della sua esistenza, non poteva sopportarlo.
«Dove stai andando? » biascicò, guardandola dall’alto in basso, per poi fare una smorfia e portarsi la lattina di birra alla bocca.
Eileen strinse le labbra e raddrizzò la schiena, sforzandosi di mostrarsi sicura e per niente infastidita da chi aveva davanti, anche se quell’odore di alcool di prima mattina le dava decisamente la nausea.
«A fare un giro». Mark rise di cuore, per poi barcollare leggermente all’indietro. A Eileen scappò un verso disgustato e allora Mark strizzò gli occhi per concentrarsi.
«Tu non vai proprio da nessuna parte, signorina» proclamò, alzando la lattina di birra come se fosse una qualche arma da poter utilizzare contro di lei.
«Come scusa? »
«Ho detto che non vai da nessuna parte» ribadì Mark. Eileen respirò profondamente e strinse i pugni, puntando i suoi occhi verdi su Mark, cercando di mantenere la calma ma allo stesso tempo di fargli capire che non era per niente intimidita dalla sua finta autorità. Non era nessuno per lei e non poteva neanche pensare di poterla comandare.
«Io invece dico che non resto qui dentro per un secondo di più. Non voglio di certo fare la tua fine, vado a cercarmi un lavoro perché ti informo che presto me ne andrò da questa merda, così potrai affogare con tutto l’alcool che ti pare» sibilò, facendo un passo avanti continuando a stringere i pugni talmente forte da sentire le sue unghie smaltate di blu tagliarle i palmi.
Mark strinse gli occhi e aprì la bocca per ribattere, ma Eileen sapeva che quello che aveva appena detto era passato nella sua testa senza essere recepito dal cervello.
Quindi con uno sbuffo si voltò e, ignorando le urla che Mark le lanciò dietro, si chiuse la porta di quella che odiava considerare casa e poi corse via, il più veloce possibile.
 
 
Il parco le era sempre piaciuto, soprattutto quello della sua città. Le piaceva passeggiare per quelle vie affollate contornate da prati infiniti e salutare le persone che passavano, perché nel suo quartiere conosceva di vista più o meno tutti.
Eileen aveva sempre un sorriso a portata di mano, un po’ per tutti, un sorriso che convinceva le persone a ricambiarlo. Non era un sorriso insulso, scemo o fatto tanto per. Era un sorriso che coinvolgeva veramente, che scrutava: lei cercava il buono in ogni persona che incontrava, e si convinceva del fatto che ce ne fosse sempre, anche se non era evidente al primo sguardo.
Voleva credere che il mondo non era così brutto come si diceva, le persone non erano crudeli. Voleva credere che tutto il male che poteva provare era causato solamente dall’uomo che viveva con lei, e  che nessun’altra persona sarebbe stata ingiusta con lei.
Ogni volta che andava al parco le piaceva sedersi su quella panchina sotto la quercia, magari con un buon libro in grembo, o semplicemente ad osservare i bambini che si rincorrevano e ridevano.
Le piaceva pensare di ricordarsi di quando era così piccola anche lei, di quando con Riley giocavano a nascondino o si dondolavano sull’altalena, ridendo senza alcun pensiero. Ma la verità era che da quando sua madre se n’era andata, Eileen aveva cercato di imprimersi a mente ogni singolo istante passato con lei e di conseguenza tutti gli altri ricordi erano sfumati via.
Però le piaceva pensare che anche lei aveva corso per quelle strade, magari era caduta e poi dopo era corsa dalla mamma per farsi consolare.
Ma non se lo ricordava, ed era terribilmente frustrante, come se lei non avesse avuto un’infanzia felice. Ma sapeva dentro di se che lei felice lo era stata, come tutti i bambini, finché all’età di dodici anni era rimasta sola.
Scosse la testa per scacciare quei maligni pensieri e tirò fuori dalla sua borsa la sua copia di Orgoglio e Pregiudizio, sgualcita per quante volte lo aveva letto.
Stava per immergersi in quelle righe conosciute ormai a memoria, per essere trasportata in quei tempi dove l’unica preoccupazione di una ragazza era di essere abbastanza attraente e scaltra per trovare marito in giovane età, quando si sentì tamburellare su un ginocchio.
Alzò lo sguardo e incrociò un paio di vispi occhi azzurri che la guardavano speranzosi.
Piegò un poco la testa di lato, intenerita dal piccolo bambino che le stava davanti, una piccola macchinina rossa stretta tra le mani e i capelli biondo scuro che gli ricadevano scomposti sulla fronte.
«Ehi piccolo, cosa succede? » si ritrovò a mormorare con voce dolce, mentre il piccolo tirava su con il naso e la guardava con quegli occhi in cerca d’aiuto. Si chinò su di lui e gli scostò i capelli dalla fronte, sorridendogli per cercare di tranquillizzarlo. Il bambino tirò su con il naso e due grandi lacrime apparvero ai lati dei suoi occhi, così chiari che sembravano trasparenti.
«Mamma» biascicò, con un singhiozzo. Eileen sentì una fitta al cuore, il respiro che le si bloccò per un secondo in gola.
«Oh, ti sei perso» mormorò, guardandosi intorno sperando di scorgere una donna disperata alla ricerca del proprio bambino sperduto. Strinse le labbra quando non notò strani movimenti lì intorno. Tornò con gli occhi sul bambino, il viso arrossato e le prime lacrime che scendevano sulle guance e si alzò, tendendogli la mano.
«Vieni, piccolo. Andiamo a cercare la tua mamma» gli disse con un sorriso. Il bambino la guardò dritta negli occhi per qualche secondo, poi guardò la mano tesa verso di lui, e poi di nuovo gli occhi di Eileen, come se stesse decidendo di fidarsi o meno di una completa sconosciuta.
Eileen gli sorrise per fargli coraggio, allora il piccolo tirò di nuovo su con il naso, strinse la sua macchinina rossa in una mano e con l’altra afferrò quella calda e grande di Eileen.
La ragazza gli sorrise di nuovo e cominciò a camminare per il parco, guardandosi intorno attentamente, mentre il bambino le camminava accanto in silenzio, stringendo ogni tanto quella mano che gli stava offrendo aiuto.
Camminarono per un bel po’ di metri, entrambi in un silenzio imbarazzante: Eileen non sapeva che dire per tranquillizzare il bambino, anche perché non aveva mai avuto a che fare con una persona al di sotto dei dieci anni, il piccolo invece si stava fidando ciecamente di lei, e non aveva bisogno di parlare per sapere che quella ragazza con gli occhi così grandi e sinceri l’avrebbe riportato dalla sua mamma.
Quando, svoltando la curva nei pressi di un parco giochi, Eileen vide sul viso del bambino spuntare un sorriso entusiasta, alzò gli occhi e vide una giovane donna con l’espressione terrorizzata.
Sospirò di sollievo mentre quest’ultima, il corpo minuto e le mani tra i capelli biondi, quasi non scoppiò a piangere quando riconobbe il bambino che Eileen teneva per mano.
«Dylan! » urlò, correndo verso di loro con un enorme sorriso. Il bambino lasciò la mano di Eileen e corse verso la sua mamma, per poi buttarsi tra le sue braccia e affondando il visino nel suo collo.
«Oh, sia ringraziato il Signore» esclamò la donna, chiudendo gli occhi e stringendo suo figlio al petto. Eileen sorrise, senza però riuscire ad evitare di provare una piccola fitta di gelosia per quel quadretto di famiglia felice.
Fortunatamente però non ebbe il tempo di rimuginarci troppo a lungo, perché la donna alzò gli occhi verso di lei e le lanciò uno sguardo riconoscente. Si avvicinò e mise il suo bambino a terra, senza però lasciargli la mano.
«Grazie per avermelo riportato» le disse con sguardo pieno di gratitudine e un sorriso smagliante sulle labbra. Eileen si sentì arrossire e fece un gesto secco con la mano.
«Figurati»
La donna le tese la mano, che Eileen strinse prontamente.
«Piacere, Denise. Non so cosa avrei fatto senza di te» le disse, sorridendole calorosamente.
Eileen ricambiò il sorriso e si presentò, prima di accucciarsi e scompigliare i capelli al bambino, che ridacchiò mostrando una tenera fossetta sul mento.
«Può capitare a tutti» mormorò. Denise sospirò esasperata, senza però riuscire a nascondere il sorriso di sollievo.
«Già, ma è la terza volta che questa piccola peste mi scappa. Sento che impazzirò da un momento all’altro, se non trovo qualcuno che mi aiuti» mormorò, carezzando i capelli al bambino.
Eileen a quelle parole si illuminò, Denise se ne accorse e le lanciò un’occhiata curiosa, per poi continuare il suo discorso.
«E’ stata anche una fortuna che si sia fidato di te: di solito non da confidenza a nessuno, devi avergli fatto un bell’effetto» rise, facendo arrossire il bambino. Eileen sorrise e gli fece l’occhiolino, poi Denise sospirò.
«Sto cercando di convincere mio marito a prendere una baby sitter, non posso stare dietro a lui e al lavoro, ma lui ancora non si sente sicuro a lasciare il piccolo in mano ad uno sconosciuto» mormorò sconsolata, «Beh, dopo oggi credo che appoggerà ogni mia richiesta»
«Potrei aiutarti io» azzardò Eileen, cercando di sorridere convincente.
Denise si fermò con una mano a mezz’aria, chiudendo la bocca e guardando Eileen con sguardo sospettoso. Eileen chiuse per un secondo gli occhi, sperando di non essere sembrata troppo affrettata e pregando che l’unica idea decente che le fosse venuta nell’ultimo periodo non le sfuggisse dalle mani per il suo troppo entusiasmo.
«Beh, Eileen, mi sembri una ragazza a posto» mormorò Denise, scrutandola con sguardo deciso. Eileen trattenne il respiro, intuendo che quello fosse il momento del giudizio.
«Ma non ti conosco, non so niente di te» sospirò infine, facendo una piccola smorfia di disappunto.
Eileen però non si perse d’animo, perché vide la piccola smorfia del bambino alle sue parole e soprattutto perché aveva bisogno di quella specie di lavoro. Sapeva che probabilmente stava esagerando e che sicuramente se si fosse data da fare avrebbe trovato qualcos’altro da fare durante l’estate: dopotutto aveva diciannove anni, era intelligente, sveglia e con tanta voglia di fare.
Ma sentiva che voleva ottenere quell’incarico, perché era una cosa nuova e perché Dylan era semplicemente adorabile e sentiva che non sarebbe stato difficile prendersi cura di lui.
«Senti, Denise» cominciò Eileen, assumendo un’aria seria e professionale, «Perché non ti fai offrire un caffè, cosi parliamo un po’?» propose, chiudendo tutto con uno dei suoi migliori sorrisi.
Denise la guardò per qualche secondo in silenzio, pensierosa, poi fu Dylan a prendere la decisione per lei. Senza lasciare la mano della mamma, allungò l’altra piccola manina e afferrò quella di Eileen, stupendo entrambe.
«Gelato» proclamò, scoccando un sorriso alla mamma, mostrando di nuovo quella tenera fossetta sul mento. Denise alzò gli occhi al cielo esasperata ed Eileen sorrise.
«Va bene, andiamo Eileen, prima che si metta ad urlare e a sbattere i piedi» borbottò Denise, cominciando ad avviarsi verso la caffetteria più vicina con gli altri due al seguito.












 










BAAAM! Ciao a tutte!
Okay, lo so che avevo detto che sarei stata lontana da questo sito per un bel po', so che avrei un progetto più grande a cui lavorare e so che mi sto mettendo nei casini da sola cominciando questa storia ma...è stato più forte di me, non ho  potuto resistere.
Non posso stare senza pubblicare una long. Il fatto è che fa caldo, passo le giornate a casa senza fare niente, quando voglio uscire piove e quindi mi sento totalmente inutile al mondo.
Ecco, è in questi momenti che mi prendono le idee fulminanti e da un piccolo sogno senza senso è nata un'itera fanfiction.
Bene, è solo il primo capitolo, ma spero vi abbia incuriosito. 
Beh, in questo caso mi farebbe piacere saperlo, quindi lasciate una piccola recensione :3
In caso contario, fatelo lo stesso, lol.
Okay, dopo questa me ne vado.
Hope u like it.
Sara.


Ps. Giorni fa ho pubblicato un'os su Louis. Beh, è lì tutta sola, quindi se ne avete voglia, andatele a fare compagnia ;)
When I was your man.

CIAAAAO :D

  
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