Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Hi Ban    12/07/2013    0 recensioni
«Cristina, dai! Muoviti!» Lorena la chiamò, chiedendole di sbrigarsi; se si davano una mossa riuscivano anche a prendere il pullman delle sette meno venti e quello voleva dire tornare a casa ad un orario decente.
Cristina annuì e buttò nella borsa tutto quello che le capitava tra le mani, il più velocemente possibile, rischiando anche di strappare il libro di letteratura giapponese. Doveva muoversi!
«Arrivo, arrivo!» borbottò in risposta all’impazienza che si leggeva sul volto dell’amica, mentre si impegnava per farsi largo tra la folla di studenti che evidentemente non avevano fretta di uscire di lì. Perfino il professore se la prendeva comoda a mettere in ordine i fogli, uno per uno. Fu una cosa che notò mentre inciampava goffamente nel cestino della spazzatura. Che cosa imbarazzante.
Appena misero piede fuori dalla classe, le due ragazze si misero praticamente a correre.
«Abbiamo solo più sette minuti, dici che ce la facciamo?»
No, ora erano sei minuti e cinquantotto secondi.
Genere: Comico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Visto che questo disastro ambientale lo hai richiesto tu molto poco gentilmente, te lo dedico augurandoti buon viaggio, Taejan!♥




Cestini d’intralcio e registratori nascosti




«Cristina, dai! Muoviti!» Lorena la chiamò, chiedendole di sbrigarsi; se si davano una mossa riuscivano anche a prendere il pullman delle sette meno venti e quello voleva dire tornare a casa ad un orario decente.
Cristina annuì e buttò nella borsa tutto quello che le capitava tra le mani, il più velocemente possibile, rischiando anche di strappare il libro di letteratura giapponese. Doveva muoversi! «Arrivo, arrivo!» borbottò in risposta all’impazienza che si leggeva sul volto dell’amica, mentre si impegnava per farsi largo tra la folla di studenti che evidentemente non avevano fretta di uscire di lì. Perfino il professore se la prendeva comoda a mettere in ordine i fogli, uno per uno. Fu una cosa che notò mentre inciampava goffamente nel cestino della spazzatura. Che cosa imbarazzante.
Appena misero piede fuori dalla classe, le due ragazze si misero praticamente a correre.
«Abbiamo solo più sette minuti, dici che ce la facciamo?»
No, ora erano sei minuti e cinquantotto secondi.


Intanto, nella classe aleggiava ancora il brusio allegro degli studenti, che tra una chiacchiera e l’altra si dirigevano fuori. Ah, la prospettiva del weekend li metteva parecchio di buon umore.
Tuttavia, secondo il docente che li osservava di sottecchi mentre faceva finta di aggiusta i fogli, sarebbe stato sicuramente meglio se si fossero dati una mossa.
Cielo, era la settima volta che li impilava prima a destra e poi a sinistra: presto si sarebbero disintegrati a forza di toccarli.
Mentre il professore si tratteneva dallo sbuffare sonoramente, poco alla volta i ragazzi uscivano e la sua nevrosi diminuiva in maniera inversamente proporzionale alla presenza di studenti nell’aula.
Erano passati cinque minuti da quando la ragazza di prima si era quasi schiantata contro un muro nella foga di uscire di lì; non potevano essere tutti celeri come lei? Non furbi da prendere in pieno il cestino, ma veloci da uscire e andarsene.
Alle sei e trentaquattro – così diceva il suo Galaxy 3, preciso come al solito – c’erano solo due ragazzi. Parlavano a bassa voce e sorridevano. Lui faceva gli occhi dolci a lei e lei faceva gli occhi dolci a lui.
Un attimo, si stavano davvero facendo gli occhi dolci?
Il professore si schiarì la gola, infastidito.
I due parvero notare. Raccattarono la loro roba e si eclissarono con qualche saluto sommesso.
Non si era esattamente infastidito per il fatto che si stessero facendo le moine, più che altro stavano impedendo a lui di fare gli occhi dolci all’uomo che stava aspettando e che finalmente stava entrando nell’aula.
Ah, come sorrideva lui non sorrideva nessuno.
«Cos’è quella faccia, Emicchan?» chiese l’altro, passando tra le sedie sparse qua e là.
«Non chiamarmi così, se non vuoi che io chiami te Valepyon» disse con tono melenso Emilio – era così che si chiamava il professore.
«Uh, no, ok, credo che possa bastare Emilio» commentò divertito Valerio, rabbrividendo per finta. Emilio prese – per davvero, questa volta – a raccogliere la sua roba e poi poggiò la borsa sulla cattedra. Ora poteva concedere la sua attenzione completamente all’altro professore.
«Questa sera devi andare a quella festa? Mh?» chiese Valerio, sedendosi sulla cattedra. Non poteva nemmeno dire di essere stanco, visto che era stato seduto fino a un quarto d’ora prima al piano di sopra.
«Già. Non che ne abbia poi così voglia, intendiamoci, ma credo mi tocchi proprio. Sarà eternamente noioso, sicuro di non voler venire?» si informò il professore di letteratura giapponese.
L’altro rise aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Sei contraddittorio, sai? Se è noioso cosa dovrei venire a farci io?»
«A tenermi compagnia, credi sia forse giusto che solo io debba annoiarmi?» chiese scandalizzato, appoggiandosi con le mani sulla cattedra.
«Credo tu possa anche soffrire, dai» notando lo sguardo minaccioso dell’altro mise avanti le mani in segno di resa. «Va bene, va bene, non è giusto che tu debba soffrire da solo, ma io non ho voglia di soffrire invece di guardami un drama, stasera» argomentò con calma, prendendo a dondolare i piedi. «Ah, certo, questo si che è amore» borbottò l’altro, mettendo su quello che Valerio trovò essere un adorabile broncio.
«Su, non fare il moccioso, Emilio! Terrò il cellulare acceso, così puoi scrivermi» gli assicurò e quando l’altro gli concesse un’occhiata scettica aggiunse: «Non ti garantisco che ti risponderò, sai, certe love story ti prendono tanto che-»
«Un doppio suicidio d’amore con te sarebbe solo uno spreco di tempo» disse con irritazione, voltandosi completamente dall’altra parte.
Valerio rise di gusto, certo che di lì a pochi minuti il suo mutismo sarebbe cessato e avrebbe detto qualcos’altro di mordace.
«Il romanticismo con te è completamente sprecato, Chikamatsu Monzaemon si starà rivoltando nella tomba» borbottò infatti.
Valerio sbuffò una risata esasperata e, rimanendo seduto, si sporse verso il professore, che si era allontanato di qualche passo, fino a poggiare con poca grazia le mani sulle spalle dell’altro. Emilio era anche leggermente più basso, cosa che rendeva l’operazione più semplice, dal momento che la distanza non aiutava e lui non aveva voglia di alzarsi.
«Ma io infatti non sto con Chikamatsu kun, sto con te, che» e qui batté più forte le mani sulle spalle del professore «ti lamenti sempre» batté di nuovo «anche quando» di nuovo «non ce n’è bisogno» avrebbe battuto un’altra volta se Emilio non gli avesse afferrato una mano e non lo avesse tirato di lato, facendolo cadere sulla scrivania.
«Ehi!» in un attimo Valerio si trovò sdraiato per metà sulla cattedra, il volto premuto sulla superficie fredda e qualcosa che gli puntava in un fianco – la borsa dell’altro, probabilmente. Un attimo dopo si trovò la faccia ghignante di Emilio a due centimetri dalla sua, l’espressione molto divertita.
«Ho capito che un doppio suicidio d’amore… non va bene, sì, ma l’assassinio è illegale e… il fianco… credo che si sia rotto qualcosa…»
Emilio rise più forte; «Troverei un ottimo luogo in cui far sparire il tuo cadavere, tranquillo. Comporrò un haiku pieno di sofferenza per il dispiacere che provo per il cane che hai abbandonato» commentò superficialmente, per poi battere due o tre colpi con l’altra mano sulla sua schiena.
Era un tipo vendicativo, sì.
«Mh, e non scrivi niente per l’ameba? L’ameba dai capelli marroni, gli occhi pure, che parla come se dovesse tenere una conferenza stampa sui problemi mondiali del Giappone post moderno anche quando chiede dov’è il latte… lascio anche quella, sì» borbottò, mentre gli occhiali scivolavano leggermente giù per il naso.
Ah, aveva sentito un altro crac. Il problema non era accorgersi quando qualcosa si rompeva, piuttosto provare ad indovinare se fosse una costola, una vertebra o un osso a caso.
Ma, in fondo, lui insegnava giapponese, che ne poteva sapere di ossa?
«Fossi in te non scherzerei troppo» così dicendo Emilio si appoggiò completamente sulla sua schiena con un braccio, mandando a quel paese quel suo tipico decoro che gli dava una certa dignità.
«Ah, alzati! Non hai più l’età per fare questi giochini, senpai!» biascicò Valerio, schiacciato sotto il peso dell’altro professore.
Sicuramente, così com’erano non dimostravano poi una grande maturità, ma separatamente sapevano mantenere la loro serietà. Quando erano insieme diventavano semplicemente due essere affini per quanto riguardava il livello cerebrale.
«Ah, il mio diligente kohai ha già gli acciacchi della vecchiaia?» borbottò divertito Emilio, non accennando minimamente ad alzarsi dalla sua schiena.
Lui la trovava una cosa divertente, perciò perché doveva interromperla?
«Sì, certo, gli acciacchi… oh, cielo, vuoi levarti di dosso?» sbottò alla fine Valerio, sbuffando irritato. Approfittando della distrazione dell’altro professore, intento a ridere dell’irritazione del compagno, con uno scattò si diede una leggera spinta con la mano per voltarsi dall’altro lato. Non era riuscito a togliersi l’uomo di dosso, ma almeno ora erano faccia a faccia e la cassa toracica non rischiava più di venire disintegrata. Aveva anche rischiato di rompersi un braccio e nemmeno lui voleva sapere come avesse fatto a girarsi senza staccarsi completamente l’arto che Emilio non si era minimamente sognato di lasciare.
C’era ancora quella dannata borsa sotto di lui che però, adesso, puntava sotto una scapola. Sarebbe tornato a casa distrutto e nemmeno il migliore dei drama sarebbe riuscito a salvare la sua schiena a pezzi.
A Emilio sarebbe toccato fargli un massaggio shatsu, assolutamente.
«Mh, da qui riesco a vedere quanto sono sporchi i tuoi occhiali. Sono pieni di ditate, non li pulisci mai?» disse con superiorità, come se gli occhiali sporchi fossero il peggior disonore per un uomo di un certo livello. Nello stesso momento in cui Valerio sbuffò alla pignoleria dell’uomo, Emilio glieli tolse e fece per tirarsi su, spostandosi davanti a lui.
Ah, lui e il suo complesso della pulizia maniacale, era snervante. Specialmente se arrivava a togliergli gli occhiali, cosa che faceva anche troppo spesso. Solo quel mattino glieli aveva sfilati dalla faccia mentre si stavano lavando i denti perché «c’è del dentifricio sopra e, conoscendoti, andrai a fare lezione così. Non venire a piangere da me quando quelle bestie assetate di sangue» gli studenti, ovviamente «diranno su di te irripetibili cattiverie.»
Al ché, quel mattino Valerio lo aveva fulminato con lo sguardo e dignitosamente si era ripreso gli occhiali. Lo aveva fatto prendendoli con le dita sporche di dentifricio, avverando la temibile profezia di Emilio.
Quella sera la cosa non sarebbe stata diversamente. Con la mano libera lo afferrò per il colletto della maglia, trascinandolo avanti, e sorrise sardonicamente all’espressione scocciata dell’altro. Odiava che i vestiti gli si sciupassero addosso, specialmente se per colpa di qualcuno. Gli piaceva essere sempre in ordine, altra cosa che non collimava particolarmente con l’indole di Valerio, che non badava molto a quelle cose. Lui ci sarebbe andato veramente all’università con gli occhiali sporchi di dentifricio se non se ne fosse accorto e non si faceva grandi problemi se i suoi capelli erano scompigliati in maniera indecente. Emilio ne sarebbe potuto morire per una cosa del genere.
«Lo sai che-»
Valerio non gli permise di protestare e lo attirò ancora un po’ più avanti.
«Ah, io non so niente, è per questo che ho un sensei come te. Puoi insegnarmi tutto quello che ti pare» disse con fare innocente, ma Emilio lo conosceva abbastanza da poterci leggere una lista infinita di doppi sensi, alcuni ancora mai pensati dal genere umano.
«Gli allievi idioti li boccio al primo anno, tu devi essere una grande eccezione» borbottò, ancora gli occhiali in mano e il naso che ormai sfiorava quello di Valerio. Secondo il suo metro di giudizio basato su una scala che andava semplicemente dal decoroso al non decoroso, starsene sdraiati su una cattedra non arrivava nemmeno ai livelli minimi, ma d’altro canto al momento gli importava poco.
«L’eccezione che rende conforme la regola, sì» confermò sorridendo sornione e alzando le sopracciglia con fare eloquente.
Non, non era l’eccezione che rendeva conforme la regola, ma era solo l’imbecille che al mattino si sporcava anche le mutande di dentifricio e lui era l’altro idiota che andava in giro rincorrendolo perché si era dimenticato il portafoglio con la patente. Tuttavia, se non ci fosse stato Valerio, Emilio non avrebbe potuto fare allenamento quotidiano salendo e scendendo le scale tredici volte di fila perché il ragazzo dimenticava sempre un pezzo da qualche parte e sicuramente non avrebbe trovato una scorta di succo al pompelmo ogni giorno nel frigorifero. In un qualche modo strano Valerio riusciva sempre a procurarselo, non permettendo mai che rimanesse senza.
Forse, poi, Emilio un giorno avrebbe anche scoperto che, uscendo, se prendeva la strada che andava a destra e non a sinistra, proseguendo di poco si sarebbe trovato davanti ad un piccolo supermercato, ma dettagli. Era quasi scontato che se c’era uno dovesse esserci necessariamente l’altro. Attorno a loro due l’akai ito si era attorcigliato così tante volte che anche tagliandolo con le forbici si sarebbe riusciti a fare poco.
«No, con me non esistono le eccezioni, sei semplicemente una vittima della mia cattiveria» disse con fare superiore Emilio, stringendo gli occhi e tentando di usare quello sguardo da carceriere folle che ogni tanto tirava fuori con i suoi studenti. Con loro funzionava.
«Cos’è quello sguardo da carceriere folle? Funziona solo con gli studenti, mi spiace. Che cattiveria poi, scusa? Tu, che non dici parolacce nemmeno se te le faccio leggere per sbaglio e che non oseresti ammazzare un ragno in bagno perché hai paura che si reincarni in- ahia, idiota!» si lamentò alla fine, quando Emilio gli diede un colpo ben piazzato in un fianco.
Sorrise con fare furbo: «Al momento potrei anche decidere che non hai bisogno di uno stomaco, perciò non metterei in dubbio la mia presunta cattiveria» celiò tranquillamente, senza però allentare la spinta che stava esercitando contro il suo stomaco.
A rigore di logica, Valerio avrebbe già dovuto aver digerito la tortillas extra large che si era auto offerto quel giorno, ma sentì l’insalata risalire su.
«Se continuò così potrei vomitare sulla tua preziosa giacca nuova, tesoro, e non credo andrebbe via tanto facilmente. Sai, sento proprio il gusto dell’insalata che sale…» disse con falsa apprensione e afferrando un po’ più saldamente il colletto della maglia. Non doveva scappare.
«Se ti tappo la bocca non esce niente, no?» borbottò sbrigativamente, alzando gli occhi al cielo e ignorando lo sguardo di Valerio, che non aveva capito.
«Cos-»
Non era da Emilio essere particolarmente romantico – lui era quello che passava una buona notte solo se si leggeva un buon libro in cui gli intestini di qualcuno incontravano il pavimento dopo la decisione di infliggersi una morte particolarmente dolorosa –, ma quel giorno era chiaro che poteva pure fare uno strappo alla regola.
Annullò la minima distanza che si era creata tra di loro e baciò il suo kohai, studente, collega, fidanzato o quel che era. Valerio era più sbrigativo.
Il ragazzo lasciò che una risatina gli sfuggisse dalle labbra proprio in quel momento, rovinando il pathos della situazione.
«Idiota» borbottò Emilio e Valerio si sporse un’altra volta, baciandolo ancora.
Fosse stato per loro sarebbero rimasti lì ancora un bel po’, al diavolo i programmi per la serata che avevano e il problema luoghi pubblici uguale niente zozzate. Perché era logico che parlando di qualche bacetto non avrebbe convinto nessuno.
Ad un tratto, però, qualcosa che era un misto tra un colpo di tosse, il singulto che precedeva un infarto ed uno starnuto ruppe il silenzio che si era creato nell’aula – sì, beh, in quel momento avevano poco da dirsi, ecco. I due non si alzarono, benché sarebbe stata una cosa logica da fare e il massimo che fecero fu girarsi quel tanto che bastava – e che gli era concesso, viste la posizione poco ottimale – per vedere cosa fosse successo.
Una donna sulla cinquantina se ne stava sulla soglia della porta, una scopa in mano e il carrello alle sue spalle. Evidentemente quella che puliva.
I tre si fissarono reciprocamente per quello che dovette essere un eternità per lei – che il signore mi aiuti, non passerò la notte, vado a confessarmi, ma perché proprio a me signore!, era più o meno quello che lei stava pensando – e alla fine Emilio si riprese e riafferrò anche la sua dignità, che volava sempre più lontano.
«Ah, sì, deve pulire immagino… mh, professor Giatti si muova, è tardi» disse con fare sostenuto Emilio e Valerio fece una risata nasale che anche volendo sarebbe stato difficile far passare per sinusite cronica. Emilio lo fulminò con lo sguardo e lui si schiarì la gola. Era esilarante quando faceva il docente retto e corretto e lo chiamava professor Giatti; in più lo faceva senza preavviso – un calcio, qualcosa, non poteva mollarglielo? –, un giorno ci sarebbe rimasto secco.
«Ripasso più tardi» fu tutto ciò che gracchiò la donna, prima di spingere nuovamente fuori il carrello, senza staccare gli occhi dai due.
Appena fu uscita finalmente si alzarono, cosa che in teoria avrebbero dovuto fare da un po’, e Valerio si lasciò andare ad una risata poco contenuta.
Emilio alzò gli occhi al cielo: «Con te non faccio altro che-»
«Fare quasi porcate in luoghi pubblici?» propose l’altro e ricevette un’occhiataccia.
«Pensi di fare l’idiota ancora per molto?»
Valerio lo ignorò: «Beh, però di solito le facciamo in luoghi non pubblici, perciò…»
Emilio sbuffò e decise che ignorarlo sarebbe stata la più saggia delle idee.
«Mh, direi che è ora di andare davvero, non vorrei mai arrivare tardi ad un evento mondano di tale portata» disse con falsa apprensione, schiarendosi la voce.
Quella sarebbe stata una di quelle situazioni che andavano tramandate ai posteri, anche se non sapeva esattamente quanti posteri avrebbe avuto che sarebbero stati interessati a sentire una storia in cui un’inserviente lo beccava steso su una cattedra con un altro professore.
«Oh, certo, sono sicuro che farai in modo di arrivare con venti minuti di anticipo» scherzò Valerio, mentre aggirava la cattedra e si portava di fianco a lui. Massaggiandosi una spalla aggiunse: «Ah, certo che potevi essere un po’ più delicato, eh, sono umano.»
Emilio lo ignorò completamente – tranne per un «non sembra» bisbigliato – e prese la borsa con dentro i libri, avviandosi fuori dall’aula.
Proprio mentre stava per uscire – sperava ardentemente non ci fosse la tizia delle pulizie appostata dietro la porta con quello sguardo indagatore –, sentì Valerio imprecare e qualcosa cadere a terra.
Aveva beccato il cestino.
Almeno la ragazza di prima non lo aveva completamente buttato per aria, eh. Probabilmente le avrebbe dato un punto in più all’esame. Invece Valerio doveva accontentarsi di uno sguardo impietosito e di puro biasimo.
«Io non ho parole» biascicò Emilio scuotendo la testa, mentre l’altro borbottava qualcosa che non si capiva troppo bene se fosse italiano, giapponese o austroungarico.
Forse mandarino.
«Ma tu mi ami comunque» e calcò volontariamente la parola ‘ami’ utilizzando un tono di voce più alto; un secondo dopo qualcosa, una paletta probabilmente, cadde a terra.
Ah, allora si era davvero appostata lì dietro per spiarli.
«Certo


«Ah!» Cristina sobbalzò e l’mp3 cadde a terra per lo scatto. Lorena la guardò, come a volerla rimproverare di aver interrotto il suo pisolino, già precario viste tutte le buche che il pullman si ostinava a centrare.
«Cosa?» chiese, notando lo sguardo sconvolto dell’amica. C’era qualche esame il giorno dopo di cui si erano completamente dimenticate? Avevano perso la fermata? Avevano preso il pullman sbagliato?
«Il registratore! L’ho lasciato il classe! Se tu non mi avessi messi fretta…» gracchiò disperata, come se per quello il mondo si sarebbe fermato e sarebbero tutti morti nell’arco di dieci secondi, il tempo per imprecare al suo nome per essersi dimenticata di prenderlo.
Lorena sbuffò, trovando stupida tanta ansia per una cosa del genere: «Lo andrai a chiedere domani in portineria, almeno che Carelli non te l’abbia mangiato. Poi se io non ti avessi messo fretta saresti ancora là al freddo!»
Cristina parve pensarci un attimo. Poi annuì, scrollò le spalle e riappoggiò la testa allo schienale.
Il viaggio riprese, mentre le due erano completamente ignare di ciò che era appena stato registrato nell’aula 33 dal registratore schiacciato sotto la borsa del professore.



… giuro solennemente di non aver alcun genere di problema.
Resta il fatto che questa santa oneshot è venuta fuori, perciò facciamo che appellarci al caso e diciamo che si è scritta per i fatti suoi, usando l’ausilio delle mie dita (: Passatemi la deficienza post maturità e da caldo soffocante, io già ragiono poco quando il clima è mite e temperato, figuratevi adesso che ci saranno cinquanta gradi all’ombra!*esagerando esagerando*
Non la commento nemmeno, non mi viene in mente niente di furbo se non che ho già quasi finito il sequel e ne ho un altro in mente, perciò, mh, sì, fuggite da Emicchan e Valepyon finché siete in tempo *tuoni, lampi, fulmini*
Torno a rotolarmi sul pavimenti nel tentativo di liberarmi dal caldo (:
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Hi Ban