4 Aprile 2004 Sadr-City, Baghdad
The moment to live and the moment to die
The moment to fight, the moment to fight,
To fight, to fight, to fight.
(This is War – 30 Seconds To Mars)
Il rumore
degli elicotteri che li osservavano dall’alto distoglieva
l’attenzione dalle
urla e dalle facce sporche, la terra così sporca di sangue
che non ci si faceva
più nemmeno caso; calpestavano il sangue, lo facevano da
più di un anno ormai e
non ci rifletteva più nessuno, non avrebbe avuto alcun senso.
Nonostante
gli scarsi armamenti dell’Esercito del Mahdī*, gli occhi dei
soldati americani
erano colmi di paura e timore, le scelte dei loro superiori non erano
mai
sembrate tanto suicide come in quel momento.
Con un
grido che veniva sovrastato dal fracasso insopportabile dei proiettili,
il Caporale
Sanders crollò a terra affondando le mani nella sabbia scura
quando i suoi
pantaloni si macchiarono indelebilmente.
Teneva gli
occhi serrati, cercava di convogliare tutte le sue forze nel punto in
cui
sentiva più dolore così da riuscire ad andare
avanti mentre il sole cocente gli
graffiava la pelle del viso.
Qualche
istante dopo, senza ancora aver riaperto le palpebre, era riuscito a
mettersi
carponi ma la gamba destra mostrava segni di cedimento anche solo
all’intenzione
di tornare in piedi; per di più la Browing M2** poggiata sul
fianco arrestava i
suoi già precari movimenti.
“Caporale
Sanders!”
Sentì una
presa salda afferrarlo dalle spalle e, dalla voce, non poteva che
essere Turner,
il soldato con cui aveva attraversato il campo di battaglia prima di
essere
ferito, spalla contro spalla.
Un gemito
di dolore lo tradì, quando l’altro
tentò di tirarlo su.
“T-Turner,
la gamba...” mormorò mentre si passava il dorso
della mano destra sul viso,
tentando di cancellarvi stanchezza e sudore.
“Siete
ferito Caporale.” disse il soldato, non appena il ferito si
sdraiò di nuovo a
terra e poté notare il foro di un proiettile sul ginocchio
destro del suo
superiore. A questo punto non poteva far altro che tentare di
trascinarlo fino
alla camionetta Humvee così che potesse poi essere
trasferito all’ospedale da
campo dove avrebbe potuto ricevere cure adeguate.
“Cosa stai
facendo, soldato?” chiese il Caporale, in preda agli spasmi.
Era come se
decine di coltelli tentassero di segargli la gamba
all’altezza del ginocchio.
“La porto
all’Humvee, signore. È ferito, ha bisogno di
cure.”
“I-Idiota...”
mormorò prima di svenire, lasciando quindi scivolare la
testa all’indietro.
Con un
sospiro, Jeffrey Turner promise a se stesso che avrebbe fatto il
possibile per
salvare quell’uomo che ora giaceva incosciente tra le sue
braccia, anche se
farsi strada fino alla camionetta nel bel mezzo di un campo di
battaglia non
era semplice. In momenti come quelli le intere settimane passate ad
addestrarsi
sembravano tempo sprecato, nessuna simulazione poteva essere carica
dello
stesso pathos e della stessa disperazione che aleggiava in
quell’aria fuligginosa.
Decine di
corpi a terra, armi ovunque e lacrime che la sabbia si era
già impegnata ad
assorbire. Strano a dirsi, ma in quel luogo non vi era spazio per il
dolore e
per le urla, per la propria incolumità era strettamente
necessario mantenere
vigili i propri sensi e prepararli al peggio che si poteva immaginare.
A quei
soldati, quel giorno, non era concessa una seconda
possibilità.
“Sbaglia
e muori.” gli aveva
detto l’Addestratore Capo
Smith, una volta.
Appena
arrivato alla camionetta, Turner fu soccorso da Jessica Cleveland,
unica donna
della sua unità, e Thomas Donovan; solo quando il Caporale
Sanders fu al sicuro
all’interno dell’autoveicolo, Turner si decise a
tornare alla battaglia.
L’ospedale
da campo si trovava all’interno della base americana situata
fuori dalla
capitale irachena e Donovan non aveva staccato nemmeno per un secondo i
piedi
dall’acceleratore, durante il tragitto.
Jessica nel
frattempo aveva fasciato la gamba del suo superiore alla
bell’e meglio usando
una garza sterile e del disinfettante. Non si sarebbe mai sognata di
toccare in
altro modo la ferita, il minimo movimento avrebbe potuto complicare
ulteriormente la situazione.
Non appena
la porta della camionetta fu aperta i paramedici si occuparono del
caporale, lo
sistemarono su una barella e, una volta all’interno
dell’ospedale, impiegarono tutti
i mezzi a loro disposizione per risolvere al meglio la situazione.
***
Il Caporale
però decise di sbattere le palpebre più volte
prima di farsi prendere dal
panico e, dopo essersi guardato lentamente intorno, convenne che non
era il
caso di preoccuparsi più del dovuto.
“Caporale
Matthew Charles Sanders.” annunciò il medico
entrando, mentre sfogliava tutti i
documenti che riguardavano quell’uomo disteso che lo guardava
con un
sopracciglio alzato. “Se l’è scampata
con poco.”
L’interlocutore
tentò di mettersi a sedere, ma un dolore lancinante alla
gamba destra lo
bloccò. I suoi ultimi ricordi erano piuttosto nebulosi, gli
impedivano di
capire a pieno cosa stesse realmente succedendo.
“Che cos’ho?
E si sbrighi, devo comunicare con la mia divisione.”
“Mi
dispiace deluderla caporale ma lei non va da nessun a parte,
è stato operato al
ginocchio a causa del proiettile che ha ricevuto e dubito che
riuscirà a stare
in piedi senza l’ausilio di stampelle.”
“Per
quanto?” chiese l’altro, visibilmente allarmato.
Nonostante il suo
temperamento, non era semplice riuscire a contenere le emozioni e le
paure che
in quel momento gli stavano quasi facendo girare la testa. Era la prima
volta
che rimaneva seriamente ferito e non sapeva cosa pensare.
“Per un
paio di mesi, forse tre.” rispose il dottore.
“Sarò schietto con lei Caporale,
il Sergente ha già firmato tutti i documenti per il
rimpatrio, non possiamo
rischiare di perdere un uomo valido come lei.”
Matthew non
rispose limitandosi a fissare il medico nella speranza che dicesse
qualcosa di
positivo, nonostante fosse certo che non sarebbe avvenuto. Il suo
destino era
stato già deciso, controbattere gli avrebbe solo fatto
sprecar fiato.
***
Durante il
lungo tragitto lo sguardo di Matt era fermo e concentrato, gli occhi
spenti
puntati al di fuori del finestrino.
Adesso che
i suoi servigi non erano
più
richiesti date le sue condizioni fisiche, era tremendamente frustrante
tornare
alla vita quotidiana che non aveva mai avuto.
Nessuna
moglie, nessun figlio da cui tornare, solo una madre troppo stanca di
vedere
tutti i suoi cari partire per terre lontane senza sapere se avrebbero
mai fatto
ritorno.
Dopo aver
imparato a parlare e camminare, a Matt era stata messa in mano una
pistola e
gli era stato insegnato a sparare, decine di bersagli erano disseminati
per il
giardino e gli erano bastati pochi allenamenti, per centrarli tutti.
Prima suo
padre, poi suo fratello ed infine lui, quella pistola aveva forgiato il
futuro
di tre uomini e se n’era portato via uno, Christopher Lee
Sanders.
Anche lui
partito per l’Iraq insieme a Matt, aveva fatto parte delle
prime vittime di
quella guerra fulminea quanto sanguinosa.
Ad un uomo
che aveva dedicato l’intera vita all’addestramento
e alle armi, il ritorno a
casa era quasi peggiore del rumore degli elicotteri, dei civili che
chiedevano
pietà, dei sensi di colpa ogni volta che si premeva il
grilletto.
Soldato e
civile.
Martire e
vittima.
Così si
sentiva il Caporale Sanders quando iniziò a scendere le
scalette dell’aereo: martire
coinvolto in una guerra che non era la sua, soldato di una causa che
era stato poi
costretto a sposare.
Questa è la
guerra, tanto nella battaglia quanto nella vita.
Note: *milizia
armata dei seguaci di
Muqtada al-Sadr, leader del Movimento Sadrista
**
Mitragliatrice pesante
Non essendo
esperta di guerra e termini bellici, mi sono documentata per quel poco
che ho
potuto su Wikipedia. La data dell’avvenimento è
reale così come lo scontro, ma
non so se ho commesso altri errori di qualche tipo.
Questa one-shot faceva parte della raccolta “Two Hundred Avenged Sevenfold's pieces” che ho eliminato avendo capito che non potrò mai finirla.