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Autore: laragazzachescrivestorie    15/07/2013    0 recensioni
Nelle nostre vite, arriva per tuti il momento di crescere. Per la quindicenne Lona, questo avviene troppo presto, ed in maniera tragica, per un suo errore.
Mentre Nanrho, scopre di essere adulto sulla carta, ma di non essersi mai comportato come tale neanche una volta in tutta la vita.
Quello che uno di loro non sa, è che c'è qualcuno che sta manipolando la loro storia, con importanti conseguenze, sul loro futuro.
Non sempre, quello in cui crediamo è vero. Non sempre è quello in cui crediamo davvero.
in così poco tempo, due giovani impareranno l'uno dall'altra qualcosa della vita, all'ombra di alberi che crescono al contrario, alla luce di tre lune che contengono tre verità alquanto amare.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Lona

Mi avevano trovata.

Sapevo che sarebbe stata una pessima idea tornare in città per parlare con Il Mentore del libro, ma la mia cocciutaggine mi aveva riportata in quell’inferno, quasi senza che me ne accorgessi. Come un piccione viaggiatore che torna sempre a casa.
Non ne potevo più di scappare in quel modo, come se fossi una clandestina. Effettivamente lo ero, ma prima io, ero una cittadina, avevo degli amici. Avevo una famiglia: mamma, papà, fratello. Sono tre nomi che non pronunciavo da un bel po’ e mi mancavano tantissimo.
Mi ricordo che mi facevano tanto male le gambe, sia per la corsa senza sosta nell’erba alta, sia perché quella maledetta, aveva deciso di investirmi proprio quel giorno.
Era da un po’ che succedevano cose strane. Sia a me che in città in generale. All’inizio, gli abitanti di Ganche si limitavano a non rivolgermi la parola e non posso biasimarli per l’odio profondo che devono provare verso di me, dopo tutto quello che ho fatto. Ma dopo alcune settimane, la mia pacifica città, che ancora consideravo come “casa”, cominciò ad inquietarmi.
L’atmosfera era completamente cambiata. Quando camminavo per strada avevo la continua sensazione che qualcuno mi stesse fissando, o peggio, seguendo. Mi sentivo osservata, insomma. Mi seguivano. Ma chi? I poliziotti? No, sapevo bene che quando arrivano si fanno sentire. C’era qualcuno… ma chi maledizione?
Mentre nella mia testa frullavano ragionamenti di ogni sorta, in un vorticoso mare di parole e frasi senza senso, bastarono pochi secondi perché a ogni battito del cuore mi tornasse in mente sempre più forte, il ticchettio della penna del mentore sulla sua nuova scrivania di mogano.
 
Tre  ore  prima
 
“A volte penso che vorrei essere cieco per vedere ciò che della tua voce mi sfugge, vorrei essere muto per dirti solo con le carezze che ti amo e vorrei essere sordo, per poter percepire i tuoi sentimenti guardandoti negli occhi o addirittura solo pensandoti intensamente come faccio tutti i giorni.”
Erano le ultime righe, del primo paragrafo che Il Mentore leggeva e rileggeva ad alta voce, come un mantra, scrutando ogni parola con i suoi minuscoli occhietti blu.
In realtà, non ero molto interessata alla sua attività.
Dato che conoscevo bene il libro di mia madre, la sua voce, era poco più un sottofondo musicale nella mia esplorazione del dell’ufficio appena riarredato.
Stavo vagando nella stanza come un fantasma e, in nessun modo, riuscivo a spiegarmi dove e come avesse trovato i soldi per l’elegante scrivania e le librerie, un tempo di metallo, ora, anch’esse in mogano.
Non solo. La vernice da quattro soldi giallo piscio, era completamente oscurata da una raffinatissima carta da parati che al tatto sembrava il mantello di una mucca, che, per chi non lo sapesse, sono morbidissime.
L’intera struttura degli uffici aveva subito miglioramenti, tutto sembrava nuovo e anche troppo schic, per un ufficio dove si trovavano genitori temporanei agli orfani.
Non ero lì per quel motivo, almeno quella volta, ero solo venuta per parlare con Il Mentore.
Forse l’ultimo amico rimasto.
Tutto d’un tratto, ecco miss. Jakline che con molta “eleganza” si precipitò sbattendo la porta e annunciando come l’arcangelo si annunciò a Maria: “Signore! In riunione aspettano solo lei ormai!”
Non potei trattenerlo dentro di me: “Hei roscietta, qui stiamo lavorando!”
Tutte le volte la stessa storia! Non ne potevo più di essere calpestata dalla prepotenza di una che aveva appena un paio d’anni più di me, solo perché lei era maggiorenne e io no.
“Segretaria, o, miss. Jakline, preferisco” quel suo stupido faccino da volpe! Quella scollatura inadeguata, ad una “che preferisce essere chiamata segretaria” che lavora in quel posto, tutto odiavo di quella donna.
Ad ogni modo, Il mentore voleva bene a lei quasi più di quanto ne volesse a me, e appena sentiva la sua voce, eseguiva qualunque comando lei gli impartisse.
Così, anche quella volta, lasciò cadere la penna, e, in molosso assai goffo, grasso com’era, cercò di scastrarsi velocemente dalla sedia di pelle nuova. Allora accadde che mi venne impartito il primo segnale. Se solo lo avessi notato… ora le cose sarebbero diverse…
Sempre avvolto da un bozzolo di goffaggine, diede una gomitata ad una delle carte che custodiva gelosamente presso di lui, e la lasciò cadere a terra. Recitava così bene, che non avrei mai intuito fosse fatto apposta.
Da quei fogli, infatti, ne sfuggi uno con la sigla: KIPC.
Dove avevo già visto quella sigla?
Sentivo che era importante, molto importante, molto vicino a me.
“Accidenti, che sbadato”
Rapidamente il Mentore raccolse i fogli, e mi risvegliò, insieme al rumore dei tacchi della cosiddetta segretaria, dalla trans momentanea in cui ero caduta.
Non ricordo bene i dettagli di quello che accadde dopo, ero concentrata su quel logo, distratta da tutti i rumori, lontana da quello che mi era vicino.
Mi risvegliai una seconda volta quando fui investita da un’auto guidata da una pazza che andava a tutta birra in un centro abitato.
Mi girava la testa.
La bionda proprietaria dell’auto era al telefono.
Era accanto a me che giacevo a terra, ma non sentivo la sua voce, era come se nelle mie orecchie ci fossero dei batuffoli di cotone.
Intuii troppo tardi che stava parlando con la polizia.
Le sirene. Sono chiassose.
Volevo farle smettere. Ogni volta che le sento, mi ricordo di come ho sprecato la mia vita. Di come stavo disperatamente cercando di rincollare i pezzi. Di come avevo ucciso la mia famiglia, senza volerlo.
No! Non potevo lasciare che mi trovassero, dovevo scappare, andare a est verso i campi e poi sul primo treno alla stazione, come facevo sempre, quando litigavo con i miei per andare a rifuggiarmi nel mio posto speciale.
Il resto, lo conoscete già.
Purtroppo, il mio deja-vù, mi costò caro. Inciampai e mi dovetti fermare.
Mi avevano quasi raggiunta, il treno stava per accendere gli elettromagneti e partire.
Cosa fare, cosa fare?
Nel panico, mi sembrò di avvertire la stessa presenza che credevo osservarmi in città, ma di solito non succedeva mai vicino alla stazione.
Da una parte la polizia, dall’altra il mio sconosciuto inseguitore.
Stavo per mettermi a piangere, ci capivo ancora meno di quando ero stata investita.
Credevo di essere impazzita, ma da qualche perte intorno a me, sentivo una voce che diceva:“vieni con me!” non ci volle molto perché m i convinsi ad afferrare la mano che si protendeva verso di me dall’erba alta.
Mentre mi rialzavo e continuavo a correre un po’ impacciata, realizzai che a quella mano doveva essere collegato un braccio e poi una persona, ma nel momento del bisogno, non mi ero soffermata a riflettere su chi fose quest’ultima.
Pensai che forse, poteva nascondermi dalla polizia: era un requisito più che sufficiente.
Corremmo ancora così, per un centinaio di metri. Giusto il tempo di osservare che quella mano aveva una stretta forte come quella di mio padre, forse anche per questo mi fidavo.
Una volta terminato il campo,  sbucammo alla luce della luna, dove per la prima volta intravidi i suoi capelli folti neri e lucidi,  le sue spalle, e poco più del mio misterioso salvatore.
MI attirò a sé, e, insieme saltammo sul treno merci poco prima che si sollevasse.
Ricordo di essere caduta in un sonno profondo, dopo essermi sforzata, invano, di pronunciare un “grazie”, davanti a questo sconosciuto a cui ero tanto grata. Prima di chiudere gli occhi, intravidi appena il suo profilo, illuminato dalla fioca luce blu della luna. La stessa, sotto la quale sarei altrimenti stata catturata.
 

 
 
 
  
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