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Autore: Sion    16/07/2013    2 recensioni
Che poi, a ripensarci, Sherlock forse sapeva di stare per morire, perché uno degli ultimi giorni prima dello scandalo di Reichenbach si era voltato verso di lui e l’aveva guardato come se da John dipendesse la morte del Sole, come se fosse un centro di gravità indistruttibile, e quando John se n’era accorto si era sentito morire un po’, perché un sorriso simile negli occhi di Sherlock non l’aveva mai visto, e se significava qualcosa, a lui era sembrato un canto del cigno.

( john, la caduta, e tutto quello che ne consegue. )
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Titolo: The man who lost it all
Serie: Sherlock BBC
Rating: Verde.
Capitolo: 1. Negazione
WARNINGS: SPOILERS.
Pairing: JohnLock per chi volesse vederlo.
Credits: Se questo show fosse mio, probabilmente avrei pianto ancora di più. Sherlock appartiene a BBC, Mark Gatiss e Steven Moffat. Non è intesa violazione di copyright.
Note:
Okay, quindi. Sto cercando di farmi passare l’improvvisa e insaziabile voglia di JohnLock che ho negli ultimi tempi, ma sembra essere persistente, perciò cerco di sfogarla a modo mio. Il titolo è banale, ma credetemi quando dico che non mi è venuto in mente niente di meglio. È basata sulla teoria dell’elaborazione del lutto, perciò buona fortuna con la sopportazione!
Probabilmente sarà composta di cinque parti più un bonus se avrò il tempo e la voglia di scriverlo. I ‘capitoli’, inoltre, saranno abbastanza brevi. Non è un granché, ma spero possa piacere. Angst a secchiate e un po’ di lirismo.
Prima incursione – un po’ malandata – sul fandom, spero di essere all’altezza.
Enjoy!
A.



The man who lost it all





Tornare a Baker Street era stato meno complesso di quanto immaginasse. Lo avevano interrogato per ore – Sherlock Holmes era in quale modo coinvolto col rapimento? Era stato tutta una messinscena? Aveva informazioni utili per capire se quanto era stato dichiarato dalla stampa era vero? Sherlock Holmes era un impostore? - e l’unica risposta, mormorata a denti stretti, che avevano ricevuto, era stata ‘No’. No, non era stata una messinscena, no, non aveva informazioni utili, no, Sherlock non era coinvolto, no, Sherlock non era un impostore. Aveva visto con chiarezza la scintilla di follia negli occhi di Moriarty, aveva avuto prova tangibile del suo intelletto criminale, e no, Sherlock non avrebbe mai commesso omicidi così brutali solo per ottenere attenzioni. John Watson conosceva Sherlock Holmes meglio di chiunque altro, e sapeva benissimo che era un bastardo impenitente, ma non era un assassino. Non era un maledetto omicida.
Aveva aperto la porta in silenzio, e aveva evitato le domande incessanti di Mrs. Hudson col silenzio, e aveva lentamente salito le scale – gli si era stretto un po’ il cuore nel non sentire il secondo scricchiolio del settimo gradino – e si era seduto, immobile, sulla sua poltrona. Non fissava quella di Sherlock. Fissava la porta. In religioso silenzio. Perché Sherlock non poteva essere morto. Sherlock sarebbe tornato.
In qualche modo, Sherlock sarebbe tornato.

Il giorno dopo, Sherlock non varcò la soglia di Baker Street. E neanche quello dopo, o quello dopo ancora. John aspettava, impaziente, seduto in poltrona, alzandosi solo per andare al bagno. Mangiava poco, dormiva ancora meno. Ma di questo era convinto: Sherlock avrebbe varcato quella soglia, avrebbe messo su lo sguardo da sapientone che gli piegava gli occhi in un’espressione soddisfatta, perché sapeva di aver preso in giro tutti, di aver superato ogni limite anche stavolta, perché sapeva che John non aveva creduto ad una parola di quello che Anderson, Donovan, e persino Lestrade gli avevano detto. Il dubbio si insinua in chi non crede: e se c’era qualcosa in cui John Watson credeva, era Sherlock Holmes.
Mrs. Hudson, ogni giorno, bussava alla porta. Mormorava, mortificata, qualche debole scusa per entrare, e faceva capolino. Lo guardava, stringeva le labbra, e, in silenzio, usciva. Perché John Watson aspettava. Perché Sherlock Holmes non era morto. Perché, da quella porta, non sarebbe entrato nessuno.

Quando Lestrade aveva chiamato, ottantaquattro ore e sedici minuti e otto secondi dopo la caduta di Sherlock, John aveva risposto a monosillabi che non voleva andare al pub a bere una birra, che stava aspettando qualcuno. Lestrade, in qualche modo, capì. Si salutarono, e John riattaccò. Poi si alzò, andò alla finestra, e guardò di sotto, in cerca della figura allampanata di Sherlock. E non vedendolo, tornò a sedersi. Sarebbe tornato. Doveva tornare.


Sherlock, smettila di... fare tutto questo. J

Lo sai, è crudele. J

Io ti sto aspettando, Sherlock. J

Rispondimi, Sherlock. J

Ti prego. J

Ogni tanto, nei giorni seguenti, inviò diversi messaggi a Sherlock. Seduto in poltrona, scalzo, col cellulare tra le mani, e le lacrime che, pungenti, premevano per cadere. Ma se Sherlock fosse entrato da quella porta e l’avesse visto piangere... non poteva. Semplicemente, non poteva. Perciò, tratteneva in gola l’urlo che premeva per uscire, e aspettava. Stanco, provato. Ma non disposto a lasciare andare.

Quando Mycroft andò a trovarlo, per informarlo che i funerali avevano avuto luogo quel pomeriggio, e che tutti, tutti avevano notato la sua assenza, John arricciò appena il naso. Lui non avrebbe presenziato al funerale di un uomo che non era morto, tanto meno se quell’uomo era Sherlock. Mycroft lo guardò a lungo, in piedi, vicino alla poltrona di Sherlock – troppo vicino, a Sherlock non sarebbe piaciuto che Mycroft stesse tanto vicino alla sua poltrona, pensava John – e per un attimo, nei suoi occhi John lesse la compassione. Quando gli chiese di andarsene, la voce gli tremava appena.

Nell’attesa, John iniziò a leggere gli appunti di Sherlock. Erano scritti in una grafia chiara, lineare, eppure frettolosa, priva di fronzoli, inchiostro blu, carta e puro pensiero. Erano appunti incomprensibili, ma Sherlock avrebbe saputo spiegarglieli. John tentava, comunque. Se fosse tornato, e lui avesse avuto il tempo, la possibilità di dirgli che aveva letto i suoi scritti e li aveva capiti – forse in modo un po’ elementare, senza il rigore logico che Sherlock avrebbe ritenuto indispensabile – sul viso di Sherlock si sarebbe dipinta quell’espressione leggermente stupita, quasi sorpresa, che aveva quando John faceva un intervento che lui reputava intelligente. E a John, anche se non lo avrebbe mai ammesso, quell’espressione piaceva da morire.

Sette giorni dopo la caduta, Lestrade aveva fatto irruzione nell’appartamento, cercando ogni tipo di prova che potesse sostenere la tesi che Sherlock fosse un impostore. Lo fece con scarsa convinzione, John lo vedeva, perché il dubbio, in lui, era vago. Ma Donovan e Anderson furono meticolosi, rovesciarono i cassetti nella camera di Sherlock – sbagliato – portarono via tutta la sua attrezzatura chimica – era sbagliato – sequestrarono i suoi taccuini e il suo computer – tutto sbagliato – e rovistarono ovunque fosse possibile farlo. Sbagliavano in partenza. John sentiva qualcosa di simile alla rabbia – era difficile da decifrare, perché John non riusciva a sentire nulla. Tutto quello che avrebbe potuto in qualche modo compromettere Sherlock era nella sua mente, in quella rete sovraccarica di sinapsi e pensieri e intuizione, e quella mente non era a 221B Baker Street. Anche quello era sbagliato. Profondamente sbagliato.

Sarah lo chiamò la sera della perquisizione. Gli chiese se avesse voglia di parlare. John declinò. Lei si presentò alla porta pochi minuti dopo, ed entrò senza chiedere permesso. Si sedette sul pavimento, accanto a lui, e lo guardò. John abbassò gli occhi, e nei suoi non vide compassione, non vide pena. Vide qualcosa di simile alla risposta ad una richiesta disperata di aiuto, soffocata sino a diventare un sussurro. John abbassò gli occhi, e pianse. Perché era stanco, e aveva paura. Perché Sherlock Holmes era morto, e lui avrebbe aspettato per sempre.


  
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