Zucchero filato
God damn you're
beautiful to me,
You're everything, yeah that's beautiful
Yes to me
Chester See – God damn you’re beautiful
È una sera calda, non molto diversa da tutte le
altre dell’anno, qui in California, ma c’è qualcosa di insolito. Sarà l’aria
leggermente più fresca, l’odore della pioggia ed entrambi i suoi genitori
dietro di lei, silenziosi. Lydia prende un bel respiro e sente l’indescrivibile
peso di quel sorriso grande e splendente che lascia vedere a tutti ogni giorno,
simile a quello di quando fa a vedere a tutti che bel vestito indossa, che voto
alto ha preso in matematica, che Barbie stupenda nasconde nello zaino.
Ma il sorriso che pesa, sì, quella è la cosa di cui
va più orgogliosa.
«C’è qualcosa che vuoi, Lydia?» La voce di sua madre
la fa voltare, la gonnellina di raso azzurra che volteggia con lei. Lydia si
guarda intorno, ci sono giostre e gazebo, barbecue con salsicce fumanti e
chioschi dei gelati, ma la cosa che più vorrebbe è…
«C’è qualcosa
che vuoi, Lydia? E viziala, certo. Siamo qua da nemmeno due minuti e già
apri il portafoglio per realizzare i suoi desideri. Finirà per essere una di
quelle adolescenti con disturbi comportamentali che dovremo portare dalla
psicologa.»
…
Solo un po’ di zucchero filato.
«Albert! Idiota insulso che non sei altro, perché
devi rovinare la serata alla bambina? O no, che stupida che sono, tu rovini
ogni cosa che faccia parte della mia vita e allora devi rovinare anche la sua!»
Vorrebbe solo che il sorriso smetta di pesare così
tanto.
«Stupida, hai detto bene!» Suo padre si passa una
mano fra i capelli neri e si china leggermente verso Lydia. Sua madre si
sistema la borsa sulle spalle voltando la testa, in quel gesto veloce e freddo
che fa sempre per smettere di guardare. Per non guardare lui, non guardare lei,
non guardare nessuno. Non esiste nessuna
famiglia.
Suo padre fa un colpo di tosse. «Che cos’è che
vorresti, Lydia?»
«Zu… zucchero filato!» Lydia sorride, forse ancora
di più, nascondendo quella sensazione che le grida, sempre più forte nella sua
testa, che non c’è nessun motivo per sorridere. «Solo questo.» E forse sorridere farà meno male.
«Va bene, tesoro.» Suo padre estrae un portafoglio
in pelle nera dalla tasca dei pantaloni eleganti che indossa sempre.
«“Tesoro”. Ma se non fai altro che dire che ti ha
rovinato la vita!»
«Chiudi la bocca, Amanda, una volta per tutte! La
bambina vuole lo zucchero filato e glielo comprerò, contenta?» Lydia si sente
prendere per il polso, ma in realtà il cervello le dice – quoziente intellettivo 170 – che suo padre la sta solo strattonando
via. Lydia vede sempre meno bene, come quando c’è la nebbia, come quando c’è
troppa pioggia.
Si sente prendere per le spalle. «Tesoro!» Ora più
dolcemente. «Che… che cosa succede?»
Lydia apre gli occhi. Le lacrime sono ancora lì, nel
suo cuore, dentro se stessa, scorrono insieme al sangue all’interno delle sue
vene, l’ha spiegato l’altro giorno la
maestra a lezione di scienze.
«Niente… niente, papà.»
«Allora sorridi, Lydia.» Suo padre le mette una mano
sulla testa, è un gesto amorevole, Lydia
lo sa, eppure la fa sentire schiacciata. Lydia ha paura che forse un giorno
sarà più bassa degli altri per questo. «Quando piangi sei brutta e tu non vuoi
esserlo. »
«Non voglio esserlo. »
Suo padre le stringe la mano e la accompagna dal
signore che fa lo zucchero filato – Zucchero!
Zucchero! – bianco e spumoso come le nuvole… una specie di schiuma marina,
solo più dolce.
Lydia sorride.
«Zucchero filato per la bambina, bello grande.»
«Mi spiace, signore… mi sono finiti tutti gli
ingredienti per oggi. Ma se vuole abbiamo i pop corn.»
Tutto il peso delle grida di suo padre, di sua
madre, i sorridi che le dicono quando piange – se piangi sei brutta –, e lei non vorrebbe altro che nascondersi da
qualche parte e piangere, piangere e piangere ed essere brutta, non importa.
Farlo e sentirsi leggera, almeno per una volta.
«Li vuoi i pop corn, Lydia? »
Sente tutto il peso di questa sera. Gli sguardi di
sua madre, le richieste sussurrate, il lunapark montato vicino al parco, gelati
e carne arrostita, la ruota panoramica e lo zucchero filato… oh… lo zucchero filato. Sua madre che ha
detto: se non la portiamo al lunapark ,
la bambina piangerà. E suo padre
seduto sul divano, con la birra: non fai
altro che dire che è intelligente. Quando piange è brutta. Se non vuole esserlo,
non lo farà.
«No…» Ma adesso vuole piangere. Un piccolo capriccio
da bambina. Piangere.
Solo
questo.
Lydia scappa via in un fruscio di seta e
campanellini, i fermagli luccicanti fra i suoi capelli e gli orecchini
d’argento che indossa da una settimana. Non ha pianto, quando le hanno fatto i
buchi alle orecchie. Se piangi sei
brutta, Lydia. E lei non voleva esserlo.
Si siede su una panchina lontana. Forse suo padre la
sta cercando, forse sta pensando a dove possa essere andata o forse sta
litigando con sua madre per aver accettato dalla cicogna una bambina così
stupida. Lydia voleva solo fare una passeggiata tranquilla, andare al luna park
montato per quel giorno, avere un po’ di zucchero filato, sorridere senza avere
l’impressione di essere punta da un’ape. Non ha avuto niente di tutto questo.
«LYYYYDIAAAA!» Quella che sente è una voce chiara,
squillante, eppure un po’ rauca, che non può che appartenere a quella di un
maschietto, di sicuro con la bocca piena. Forse la sua mamma non deve avergli
insegnato che bisogna ingoiare il boccone, prima di parlare. Sente un rumore
strascicato e poi lo guarda. Il bambino ha i capelli castani e cortissimi, i
suoi jeans sono ormai impolverati e la camicia bianca ormai non più bianca
viene fuori disordinata dai pantaloni. È lei che ha chiamato? Non lo conosce…
ma Lydia non ci pensa. Pensa allo zucchero filato avvolto alla mazzetta di
legno che il bambino tiene sulla testa con due mani, per non farla cadere fra
la polvere come ci è caduto lui.
Il bambino si mette in ginocchio con solo la forza
delle gambe, la mazzetta di legno stretta con entrambe le mani e un sorriso
largo sul suo volto pallido e paffuto, arrossato sulle guance. «Stavo
camminando normalmente in questo sentiero agevolmente addobbato da cose
lunaparkesche quando improvvisamente ho visto te.» Il bambino si siede accanto
a lei e il sorriso resta sul suo viso come se fosse stato stampato. Sembra non
pesargli per niente, quel sorriso. Lydia vorrebbe conoscere il suo segreto…
«Perché usi così tanti avverbi in una frase?»
«Perché sono facili! Basta mettere “mente” alla
fine. La signorina Florence è stata bravissima a spiegarceli.»
«La signorina Florence? »
«Sì… oh, ma tu non puoi conoscerla, la tua classe di
grammatica è diversa dalla mia. Però andiamo nella stessa classe di scienze,
con la signorina Rosie che l’ultima volta ha spiegato le vene e il sangue…
bleah, cose che non servono a niente. Però io dico, secondo te, se io mangio un
po’ di zucchero filato ora mi scorrerà nel sangue visto che proprio tu hai
detto che nel sangue c’è lo zucchero? » Il bambino prende un batuffolo di
zucchero filato e se lo poggia sulla lingua, chiude la bocca ed emette qualche
verso come per dire “quanto è buono”. Lydia si sente lo stomaco che la graffia
da dentro, gli occhi le bruciano, le mani le tremano e non ha niente da
stringere a parte la sua gonna azzurra e splendente… bella e splendente,
splendente e bella, e lei non deve piangere altrimenti sarebbe brutta e lei non
vuole esserlo. Nessuno le vorrebbe bene, se fosse brutta… se piangesse.
«Lydia… perché piangi?»
Oh
no.
Volta la testa, si porta le mani al viso, sulle palpebre ora serrate, sente
l’acqua calda che viene fuori dagli occhi. «Perché voglio piangere! E ora vai
via, lasciami da sola…»
«No, Lydia, non piangere… »
«Io voglio piangere!»
La sua gola si riempie di singhiozzi. Respira forte.
Tutto questo sembra ancora più pesante del sorriso che cerca di fare ogni
giorno, ogni domenica al rinfresco della nonna, ogni pomeriggio, ogni sera,
ogni santissima volta che i suoi genitori litigano e suo padre le dice che è
stupida e lei vuole piangere, anche se fa ancora più male. Perché Lydia sorride
sempre ma non è mai felice e nessuno lo sa. Nemmeno lei lo sapeva e ora le
lacrime sono amare perché fa tutto male. Lydia non è una bambina felice. Lydia
vuole piangere e basta.
«E va bene, piangi.»
Lydia alza il viso, le lacrime continuano a
scendere. Gli occhi del bambino sono grandi e marrone chiaro, con ciglia lunghe
come quelle delle belle bambine, ma lui è un maschietto e si vede da come ora
smette di sorridere e diventa serio. «Continua a piangere, Lydia, ok?»
Lydia cerca di asciugarsi le lacrime con le mani.
«Perché?»
«Per tutte quello cose che dicono gli sp… gli ps…
gli psilo… gli spico… ok, non riesco a dirlo, comunque dicono che il pianto è liberamente liberatorio e ogni tanto fa
bene, quando si è tristi. Io non voglio che tu sia triste, per niente. Sei così
bella quando alzi la mano alle lezioni della signorina Rosie, sei così bella
quando sorridi e prendi sempre A, A, A. AAA, come quando si cerca qualcosa urgentemente. E poi…»
«P-poi? »
«Poi sei bellissima quando piangi, perché sei sempre
Lydia. E se me ne vado sarai un po’ più contenta… lo faccio. Me ne vado. Ciao,
Lydia.» Il bambino fa per andarsene, si liscia la camicia con una mano senza
che riesca a far andare via la polvere e si volta. «Ah, no!» Si volta di nuovo.
«Tieni questo, te lo regalo.» Il bambino le porge il suo zucchero filato e
Lydia vede quella nuvola bianca intorno a quel bastoncino brillare di fronte a
sé, come se fosse fatta di tanti, piccoli diamanti di zucchero. «Mia madre dice
che c’è un modo per leggere le persone come si leggono i libri. Bisogna
guardarle negli occhi. Io ho guardato nei tuoi e ho letto questo, spero di non
aver sbaglio come faccio sempremente.»
Lydia avrebbe voluto un po’ di felicità, quella sera, e per crearla una delle
cose che le servivano era un po’ di zucchero filato.
Adesso ce l’ha.
«Si dice “sempre”.»
Quello di Lydia è un sussurro.
«Va bene, sempre.»
Ma lui l’ha sentita.
Lydia sospira, rumorosa. Ride nel pianto. «Me lo
regali davvero?»
«Non dico le bugie.» Il bambino si stringe nelle
spalle, accenna un sorriso, l’angolo
destro della bocca leggermente più sollevato rispetto a quello sinistro.
Quale sarà il suo nome?
«Te lo giuro in nome di Stiles Stilinski della tua
stessa classe di scienze.»
Stiles corre
via, senza troppa fretta, e si ferma accanto ad un uomo alto e biondo, la
giacca con la stellina sopra. L’uomo stringe la mano di una donna pallida come
Stiles, con i suoi stessi, grandi occhi marrone chiaro e lo stesso sorriso
dolce. I suoi genitori, Lydia
deglutisce e la mamma di Stiles accarezza la testa a suo figlio, sembra fare
qualche domanda. Stiles risponde e poi quella stessa signora guarda verso
Lydia, sorride anche a lei.
Lidya prende un po’ di zucchero filato fra le mani e
sembra sentirsi meglio, un po’ più leggera. Il bambino si allontana. Lydia
sente il batuffolo bianco che si scioglie sulla lingua, alza il viso al cielo –
blu notte punteggiato da stelle – e pensa che almeno per un secondo, questa
sera, è stata felice.
***
Lydia
Martin non sa di correre. In realtà, se ne accorge solo perché i tacchi fanno
un rumore fastidioso sull’asfalto, qualcosa che fa voltare tutti, alle undici
di sera. E chi può essere ancora in giro in un giorno di scuola alle undici di
sera e voltarsi verso di lei?
Lydia
ancora stenta a crederci eppure, per tutti i suoi diciassette anni, è stata
un’attrice perfetta con quel suo sorriso e la popolarità cucita addosso,
strappata via insieme a tutto il resto.
Ma
quello che indossa adesso è un vestito azzurro, leggermente più ampio sotto la
vita, un azzurro splendente, come in una lontana sera d’estate, insieme a due
bracciali argentati, una frontiera firmata, un profumo Chanel.
Lydia
si è guardata in quel piccolo specchio e si è sentita bella per davvero, forse
per la prima volta.
L’altro
giorno ha pensato a Jackson. L’amore di lui era un palloncino ad elio, si è
gonfiato, è volato il cielo, Lydia pensava che sarebbe arrivato sul sole, e poi
ha cominciato a sgonfiarsi. E allora Lydia si è accorta che tutti portano dei pesi sulle spalle, e il
sorriso che mette sul viso ogni mattina insieme all’ombretto, al mascara, al
lucidalabbra, è il suo.
Anche
Stiles ha un peso: una famiglia spezzata, sua madre che non c’è più. Lydia è
andata a casa sua.
Sulla
scrivania c’erano tutte quelle cose da donna e lui le ha confidato che erano
tutte per il suo compleanno e non sapeva che scegliere. E poi le ha detto che
senza di lei impazzirebbe, se lei morisse impazzirebbe. E Lydia sa quanto fa
male vivere ed essere considerati malati e far finta che vada tutto bene.
Appena tornata a casa è andata in garage e ha aperto quell’enorme pacco dalla
carta rosa e a fiori, pieno di tante altre scatole. Il suo regalo.
Vestiti
su vestiti, tantissimi vestiti, un ricordo, e la voce di Stiles impressa su un
biglietto appiccicato a uno specchietto.
Questo
non l’ho comprato perché ho finito i soldi di tutte le paghette che ho avuto in
vita mia. Lo specchio è per guardarti, ma hai un quoziente intellettivo
altissimo e so che l’hai capito da sola. Gli scontrini sono nelle scatole, se
qualcosa ti fa schifo la puoi cambiare nel modo più tranquillamente
possibile. Sei bellissima sempre, quando sorridi, quando piangi, quando
ridi, quando fai la faccia da snob, quando mi ignori, quando mi parli, quando
mi guardi, quando vai via, con qualunque cosa indossi e sono sicuro che lo
sei anche senza niente, sempre. E sono un disastro, scusa.
Stiles
Lydia
bussa alla porta, poi suona il campanello.
«Signor
Stilinski?»
«LYDIA?!»
La
porta si apre. Sembra che lui sia sempre stato lì ad aspettarla, ma Lydia non
riesce a fermare la sua mente e allora lo immagina: Stiles che lascia la sua
stanza e corre a tutta velocità solo perché ha riconosciuto, e forse pensa
ancora di sognare, la sua voce.
«Ciao.»
Lydia abbassa la testa, le mani lungo i fianchi a stringere la borsetta di
Prada. Quando alza di nuovo il viso, lui è appoggiato allo stipite della porta,
la bocca semi aperta e così simile a quando era ancora bambino...
«C-ciao.
Uo,uo… Sei bellissima.» Occhi spalancati, piccolo rivolo di saliva all’angolo
destro della bocca, se la toglie via voltando la testa, si porta la manica
della felpa vicino al viso. «Sei… sei un sogno.» Un sogno. «Uo, uo… MIO PADRE…» Tossisce, «… non c’è ma ehm… mi
dispiace ma… vuoi entrare? »
È
magro, Stiles, ma ha le spalle forti, Lydia lo sente sotto le mani; anche lui
gioca a Lacrosse e l’ultima volta oh se
non è stato bravo. Lo guarda negli occhi: le iridi marrone chiaro con un
piccola sfumatura verde, o forse dorata come il whisky nella sua credenza, e il
neo vicino alla bocca, poco più sopra le labbra seguendo una diagonale
immaginaria, ma non troppo lontana.
«Stiles.»
Lydia lo spinge in casa con una spinta.
«Chi,
io? » Si indica come si indicherebbe un cartellone stradale, ancora con gli occhi
sbarrati, la maglietta sul porpora che fa risaltare le guance arrossate e le
labbra rosee.
Lydia
scuote la testa. «Tu, Stiles.» Si avvicina un po’ di più a lui, Stiles
indietreggia, va a sbattere contro un mobiletto, le sue braccia si muovono
all’improvviso, dei fogli cadono a terra. «Ti ricordi che cosa mi hai detto al
ballo? »
Stiles
torna a guardarla, il respiro pesante come se avesse corso, poi stira le
labbra, si gratta la testa. «”Vado a prenderti un po’ di punch?”»
«No,
la cosa più importante che mi hai detto, Stiles.»
Stiles
aggrotta la fronte, il respiro sembra tornare normale, le braccia gli cadono
lungo i fianchi. «Lydia, ti amo dalla terza elementare. E so che da qualche
parte dietro quella ruvida corteccia senza vita c’è un’anima umana. E penso di
essere l’unico a sapere che tu sei molto intelligente e che quando smetterai di
fingerti un’oca, probabilmente scriverai un geniale teorema matematico e
vincerai la medaglia Fields.» La sua voce trema.
«In
realtà hai detto “premio Nobel” invece di medaglia Fields. »
«E
tu mi hai detto che il premio per la matematica non è quello. Ti giuro che non
me lo scorderò mai. »
Lydia
si trattiene dal mordersi le labbra, è come se stesse per piangere, si sente lo
stomaco rivoltarsi da ogni parte ma stranamente sembra… piacevole.
«E
ti ricordi ho cosa ho fatto dopo che me l’hai detto? »
Stiles sorride, e lo fa in un modo che sembra
cantare anche se resta in silenzio. Come se fosse solo mentre si riempie di un
piccolo istante di gioia. «Hai ballato con me.»
«E
ti immagini ora che cosa posso fare?» Lydia fa un altro passo, altri due passi,
e lui non si scosta.
Stiles
ha la stessa espressione di quando il professor Harris lo ha interrogato su un
capitolo che non aveva assegnato.
«Non
ne ho la più pallida idea.»
Lydia
gli si avvicina ancora di più. La stoffa liscia del vestito sfiora le ginocchia
di lui, lei avvicina le mani al suo viso, gli tocca appena le labbra, la
guancia, ferma le mani sulla sua nuca. Poi chiude gli occhi e si alza sulle
punte, Stiles profuma di aghi di pino e caramelle gommose. Lydia lascia che il
buio la guidi verso le sue labbra e lì si ferma, al suono del respiro di lui
che sembra essere stato risucchiato via. Scende a toccarlo sulla schiena e
trova le sue mani, se le posa sulle spalle e lo bacia ancora. Lo bacia. Lo
stomaco continua a rivoltarsi, fa capriole, salti, e lei lo bacia, e lui la
bacia e Lydia può sentirlo tremare. Si stacca da lui per prendere fiato, fronte
contro fronte, lui chino su di lei perché più alto, anche se lei ha i tacchi.
In fondo Lydia ha sempre intuito che sarebbe stata più bassa rispetto al resto
delle ragazze.
Stiles
ha le palpebre socchiuse. «Sei un sogno, Lydia.»
Lydia
lo abbraccia e non sa per quanto tempo resta così, lui è teso come se fosse un
palo ma va bene, è Stiles, è sempre lui. E poi Lydia gli dà un bacio, e poi un
altro, e poi lei apre gli occhi e vede che Stiles è rosso anche sulle labbra, e
sulle guance, ed è bello, Stiles. Con quegli occhi dello stesso colore del
whisky e il sorriso di chi non capisce niente ma capisce lei e legge lei e ama
lei. La sua stanza è vicina. Lydia apre la porta, lo spinge sul letto, si
toglie le scarpe, torna a baciarlo. Lo bacia sulle labbra, sulla guancia, sul
collo, con le mani cerca la sua pelle sotto la maglietta.
«OH
LYDIA, TI AMO. TI AMO SUL SERIO E OH MIO DIO. Aspettavo questo momento da
troppo, troppo tempo, oddio, Lydia, non che aspettassi solo questo… » Stiles
abbassa gli occhi e si morde le labbra, come se non trovasse le parole. «Mi dispiace,
avrei voluto prepararmi, essere pronto… ma non è che deve per forza succedere,
non è che deve per forza…»
«Non
vuoi che succeda, Stiles?» Lydia si toglie la frontiera e la butta sul
pavimento.
«Oh…
oddio, sì che voglio, è solo che io non… io non…»Lydia increspa le labbra, si
sbottona il corpetto. «… Io volevo studiare per tutte quelle cose che servono,
tipo dove si trova il punto G o roba del genere ma non ho avuto per niente il
tempo fra Scott che cercava di uccidermi e poi qualcun altro che cercava di
uccidermi…»
«…
trovare il punto G?»
A
Lydia era arrivata voce che gli interessi di Stiles fossero fuori dal comune,
cose come la circoncisione maschile e le varie fasi lunari e la migrazione dei
lupi in California ma… questo, no, non aveva minimamente sfiorato la sua mente.
Stiles
annuisce.
Lydia
si sdraia accanto a lui e sta tremando. Sta ridendo come non ha mai riso in
vita sua.
«Stiles…»
«Scott
non lo sa… voglio dire, è un segreto.»
Stiles
è così serio.
Non ci credo.
«Lydia?»
«…
un segreto?» Lydia apre le braccia ad accarezzarsi i capelli. «È questo il tuo
segreto?»
Stiles
si mordicchia il labbro, si passa una mano fra i capelli che Lydia ha scoperto
essere morbidi, i suoi occhi sembrano lucidi come se avesse bevuto un po’. «C’è
chi ha il segreto di essere un licantropo…» La sua voce cala di colpo, come se
si vergognasse.
«Stiles.»
Lydia si mette seduta. «Sai qual è il mio segreto? » Lydia gli stringe una mano
nella sua e lui sembra prendere colore tutto in una volta solo perché lei l’ha
toccato.
«Se
vuoi dirmelo…»
Lydia
abbassa leggermente il viso, lascia che i capelli le cadano tutti dalla parte
sinistra, gli accarezza la spalla. «Soffro il solletico.»
«Il
solletico?» Stiles sorride in un modo che sembra abbracciarla.
«Sì,
sui fianchi.»
Stiles
continua a sorridere, arrossisce. «Qua?» La tocca sulla gonna, proprio dove si
trovano i fianchi.
Lydia
sente un brivido anche se sembra fare caldo.
Non ci credo.
«No,
sulla pelle.» Guida la mano di Stiles sotto la gonna e la ferma sul fianco,
quando alza gli occhi lo vede: gli occhi lucidi, le guance rosse sulla pelle
chiara, le labbra umide e piene. «Qui.»
Stiles
sorride, gli suda la fronte. Lydia non l’ha mai visto così nervoso.
«Quindi…
così?» Stiles batte le dita una, due volte, Lydia trattiene un gridolino e
Stiles continua anche dall’altro lato.
«Smettila!»
«Pensavo
che…»
«Non
pensavi niente.»
«Io…»
«No,
davvero, Stiles. Sta’ zitto.»
«No,
davvero, Lydia, puoi stare qui e raccontarmi qualunque tipo di segreto. Possiamo
stare qui a parlare TUUUUUTTA la notte, no problem, ci chiudiamo a chiave e mio
padre tornerà solo domattina quindi… »
«Stiles!
ZITTO! Non parlare! »
«Non
vuoi parlare? Vuoi ecco… tu vuoi… Scusa, scusa… Non volevo essere invadente…
vuoi andare a casa? Ah no… non ti sto cacciando, non pensare che io ti stia
cacciando…»
«Non
ci credo…»
«A
cosa non credi?»
«Che
mi sono innamorata di te e ti amo, ora, da non so quando e tu sei un
deficiente, Stiles… Mi hai salutato ogni volta che eri nelle vicinanze con
quella voce simile alla sirena dell’auto di tuo padre anche se ti ho sempre
ignorato. Hai passato giorni a dormire in ospedale quando ero ricoverata. Ogni
volta che urlo e vedo cose che non esistono tu mi abbracci e non mi lasci mai
sola. Non so proprio come tu faccia ad essere così deficiente e a parlare
troppo ma io ti amo, Stiles, e mi fa strano ripeterlo. Quindi basta.»
Un
secondo di silenzio.
Non ci credo.
Sorride.
Due
secondi di silenzio.
Non ci credo.
Sorride
ancora di più.
Tre
secondi di silenzio.
Non ci credo.
«ODDIO,
WOW, EVVAI, CIOE’, ODDIO. »
«Ok.»
Lydia fa un respiro profondo, lascia che un altro bottone venga fuori dalla
cucitura. « Puoi fare l’amore con me, poi portarmi sulla ruota panoramica del
lunapark che verrà montato domani e indicarmi la panchina su cui ero seduta
quando ho notato per la prima volta che esistessi perché, Stiles, non
dimenticherò mai il sapore dolce di quella sera. Poi puoi portarmi a fare il
bagno in una piscina possibilmente senza cadaveri intorno e dire a tutti che
stiamo insieme perché era destino.» Lydia torna a respirare. Inclina la testa.
«Da che cosa vuoi cominciare?»
Stiles
prende un respiro profondo, si avvicina sempre di più a lei. Scuote la testa.
«Io vorrei tanto baciarti, Lydia.»
Si dice che gli artefici della
nostra felicità siamo noi stessi. Nasciamo come costruttori e mettiamo insieme
i tasselli per costruire una muraglia alta e resistente. Ma c’è chi è troppo
debole per erigere una muraglia troppo alta, chi è troppo maldestro e la
farebbe crollare con qualche mossa sbagliata. C’è chi non sa come si fa il
cemento e chi ha dimenticato di
occuparsi delle fondamenta. C’è chi, nonostante sbagli tutto, può essere felice
e può essere aiutato ad esserlo. Ci sono dei pezzi di felicità che, sì, sono
completamente nostri, ma provengono dal cuore di qualcun altro.
Lydia
lo tira per la maglietta.
Stiles
rotola su di lei, Lydia rotola su di lui e cadono l’uno sull’altro. Le fa male
la testa mentre accarezza la schiena di Stiles e gli toglie la maglietta, e lui
ci mette due ore a togliere e a maledire quel corpetto che ha comprato proprio
lui. Lydia inarca la schiena, sorride e si rende conto, più con sorpresa che
con altro, che il sorriso che aleggia sulle sue labbra non pesa più.
Questa
volta è Stiles a baciarla, e lo fa in un modo intenso e dolce che sembra
stordirla un po’. Ed è proprio lui, Stiles, una volta bambino dagli occhi del
colore del whisky, ora ragazzo con gli stessi, splendidi occhi, ad essere il
pezzo di felicità che da quel giorno ha fatto parte di lei. Lydia sente una
lacrima che le cade dagli occhi, ma non ha paura di non essere bella mentre
piange, perché nello stesso momento sta anche sorridendo. Sorride mentre si
accorge, gli occhi chiusi e le sue mani e
il suo sorriso, che i baci di Stiles sanno di zucchero filato.