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Autore: aleyiah    19/07/2013    4 recensioni
Perchè mi trovo al New Jersey State Lunatic Asylum?
Seconda classificata & premio "miglior stile" al Flash Contest "Incubi Notturni" di ContessaDeWinter
Genere: Dark, Horror, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Asylum
 
 
 
Ronzio.
Un ronzio insopportabile, incessante, invadente, costante, mi vibra nel cranio.
Le tempie sembrano esplodere, ed il mio corpo è incredibilmente pesante.
Cerco di aprire gli occhi, riesco a socchiuderli a fatica, strappando le croste che si sono formate sulle ciglia, tenendo incollate tra loro le palpebre.
Una luce accecante mi costringe a richiuderli: Devo aprirli poco a poco, per permettere alle pupille di abituarsi a quel bagliore che mi ha quasi bruciato la retina.
Il mio corpo è attraversato da un formicolio intenso, tra poco spero di riuscire a muovermi.
Cosa è successo?
Dove sono?
La vista si fa più nitida, ma non mi aiuta a riconoscere il luogo in cui mi trovo: la luce che mi abbaglia proviene da una sgangherata lampada al neon che si trova proprio sopra la mia testa, attorno a me quattro pareti scrostate tinteggiate di un colore che forse, qualche decina di anni fa, doveva essere una specie di azzurro.
Riesco finalmente a muovere il collo, seppure con uno sforzo immane, per sopportare il dolore che attraversa i miei muscoli: a sinistra scorgo una finestra microscopica coperta con delle sbarre arrugginite che si affaccia su un cielo terso.
Un dolore lancinante mi attraversa quando giro la testa verso destra, per trovare una porta chiusa ed un comodino con un bicchiere d’acqua dal colore poco invitante.
Sono forse in una stanza d’ospedale?
Improbabile, c’è troppo silenzio.
Cerco di richiamare l’attenzione di qualcuno con un grido disperato, ma dalla mia bocca esce solo un rauco sibilo.
Devo cercare di alzarmi.
Il mio tentativo di muovere le gambe viene bloccato da qualcosa: riesco a sollevare leggermente la schiena, per rendermi conto di avere le caviglie legate al letto.
Caviglie e polsi.
Il mio cuore inizia a palpitare freneticamente, cerco ancora di urlare e finalmente un misero latrato riesce a sfuggire dalle mie labbra.
Sento dei passi in lontananza.
Passi conosciuti.
 
La serratura scatta rumorosamente e la porta si apre cigolando: “Ben, come ti senti?”
Mi gira la testa, ed ogni istante che passa tutto è  sempre più insensato.
“Amore...io...”
“Non ti affaticare amore, hai sete?”  sussurra premurosa, porgendomi il bicchiere di acqua stragnante.
“Milena, che stai dicendo? Cosa succede?” riesco finalmente a sussurrare.
Mia moglie si sistema il camice candido, mentre si siede sul letto accanto a me e inizia finalmente a slegare le corde che mi impedivano di muovermi.
“Amore, cerca di ricordare l’incendio: Hai cercato di darti fuoco, ricordi?”
“Milena, io non ho cercato di darmi fuoco, che stai dicendo?”
Cerco di alzarmi, approfittando di essere finalmente libero di muovermi, ma appena cerco di sollevarmi dal letto un infermiere mi afferra per i polsi e mi spinge nuovamente sul materasso, mentre mia moglie mi costringe all’immobilità, legandomi.
“Amore, riposati. Tornerò più tardi.”
Con quelle parole si congeda, lasciandomi solo nella mia prigione.
 
Perchè mi trovo al New Jersey State Lunatic Asylum?
Sento la voce di Milena, il suo ufficio dev’essere qui accanto.
Sta parlando del mio caso con qualcuno...
“Deve rassegnarsi Dottoressa Williams, se la terapia con l’elettroshock non ha sortito alcun effetto, l’unica via percorribile per un caso così grave di Sindrome di Cotard, è la lobotomia.”
 “Me ne rendo conto... ma mi permetta di fare un ultimo tentativo prima di procedere, professore.”
“Accordato. Ma si ricordi che l’intervento rimane fissato per domani mattina alle sette.”
“Assolutamente. La ringrazio ancora per avermi dedicato il suo prezioso tempo, professore. Arrivederci.”
“Arrivederci dottoressa.”
Dei passi si allontanano, e di nuovo cala il silenzio nell’ospedale psichiatrico. Le uniche urla che sento sono nella mia testa.
Una voce che mi urla che devo riuscire a fuggire.
Sindrome di Cotard?
Milena è impazzita.
Di nuovo il passo leggero di mia moglie, torna a distogliere l’attenzione dai miei lugubri pensieri.
Devo riuscire a farla ragionare, a farle capire che questo è un grande, enorme, madornale errore.
 
“Amore, se tu non cerchi di ragionare non posso aiutarti...”
La sua voce spezzata mi ferisce più degli strascichi di dolore che l’elettroshock mi ha lasciato.
“Milena ti prego ascoltami...”
“No Ben, abbiamo troppo poco tempo. Sei afflitto da Sindrome di Cotard, questa è la realtà.
Èun raro disturbo delirante di origine neurologica, dovuto al malfunzionamento dei circuiti cerebrali che danno un significato emotivo ai volti.
Ricordi l’incidente, Ben?
L’interruzione patologica delle fibre nervose che connettono il centro delle emozioni alle aree sensoriali, fa si che nulla riesca più ad avere una rilevanza emotiva, al punto che l’unico modo per spiegare razionalmente questa totale assenza di emozioni, rimane quello di credere di essere morto, di credere che il corpo sia pietrificato, trasformato, di non possedere più un’anima, di non essere mai nato, di aver perso gli organi vitali o, nel tuo caso, il sangue.
Tu non sei morto Ben, tu sei solo malato e, se me lo permetti, ti farò guarire, così potremo tornare a casa e riprendere la nostra vita di sempre... ti scongiuro Ben, aiutami.”
Vedere il viso di mia moglie contratto dal dolore, osservarla ripiegata su se stessa in una posizione innaturale mentre la disperazione la consuma, mi devasta.
Mi fa più paura del pensiero di ciò che mi aspetta domani.
“Milena perchè sei ancora... viva?”
“Smettila Ben, ti scongiuro, torna in te! Sei vivo Ben! Tutti noi lo siamo!” urla disperata.
Le lacrime scorrono lungo le sue guance sempre più copiose, lacerandola.
“Milena, ti prego, questo è un madornale errore, noi ci siamo evoluti, pensaci!
Abbiamo scelto, amore.
Abbiamo scelto la vita eterna, ci siamo liberati della mortalità, della fragilità dell’essere umano! Ci siamo liberati del nostro sangue, dei fluidi che ci rendevano così vulnerabili, ed ora il nostro corpo non potrà mai più invecchiare, marcire, imputridire!
Noi abbiamo sempre deriso i putridi, ricordi?
Ci è stata offerta una possibilità di scelta, e abbiamo deciso per la vita eterna, insieme!
La scienza ci ha resi invincibili, il progresso ci ha dotati di un corpo che non può ammalarsi, decomporsi e ridevamo insieme dei sostenitori dell’esistenza di un Dio che fosse l’unico a poterci donare una vita dopo la morte, dicevamo che li avremmo seppelliti insieme alle loro idee bislacche!
Milena guardami!” urlo con tutto il fiato che ho in gola, sperando che l’immagine del mio viso scavato e pallido le faccia tornare il lume della ragione.
“Mi dispiace Ben...” sibila tra le lacrime.
La mia compagna, la mia metà, la mia ragione di vita mi sta condannando.
Estrae una siringa dalla tasca anteriore del camice ed avvicina l’ago al mio braccio.
“Questa ti aiuterà a dormire.
Domani, al tuo risveglio sarà tutto finito...”
La frase viene interrotta da un sighiozzo che rimbomba nel corridoio giallastro del manicomio, mentre io rimango inebetito a fissare il vuoto, chiedendomi il perchè di tutto questo, mentre il sonnifero si diffonde nel mio corpo regalandomi finalmente un barlume di pace.
 
“Ben... Ben...? Ben, svegliati!”
La voce armoniosa di Milena mi riporta lentamente alla realtà.
Mi guardo attorno: le pareti scrostate sono sparite, così come le cinghie che mi tenevano imprigionato in quel letto d’ospedale.
Sono nel mio letto, con mia moglie, in casa mia.
Finalmente il mio cuore inizia a rallentare la sua corsa sfrenata ed il respiro si sta calmando.
La sua gelida mano mi accarezza il viso, mentre mi scruta preoccupata con quei suoi grandi occhi blu che sporgono dalle orbite scavate.
Il mio sguardo si sposta immediatamente verso l’ampia finestra che da sul parco: gli alberi nudi e spogli danzano sotto la forza del vento che porta con se frammenti quasi impercettibili di cenere.
Non riesco a percepire alcun rumore, a parte quello del mio respiro.
Le passo una mano tra i capelli lunghissimi e radi, sugli zigomi sporgenti, sulle braccia ossute.
“C’è qualcosa che non va, amore?” mi chiede indagatoria.
“No amore, ho fatto solo un brutto sogno.”
 
 
 
 
  
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