Fanfic su attori > Coppia Downey.Jr/Law
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Autore: ladyElric23    23/07/2013    6 recensioni
“Vuoi dire che mi ameresti ugualmente, anche se non fossi giovane e bello?”
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, ovviamente non fanno niente di tutto questo (ci mancherebbe anche O_o) e non sono gay, bla bla bla, solite cose, ormai lo sapete.

E sì, nel caso ve lo stiate chiedendo, il titolo è tratto dall’omonima canzone (bellissima, tra l’altro) di Lana Del Rey, nonostante questa non sia una song fic. E’ solo molto pertinente col tema trattato J

Ci leggiamo in fondo.

Forse.

Io ci spero.

Buona lettura ;)

 

 

 

 

 

 

Young and Beautiful

 

 

 

Jude David Heyworth Law aveva sempre adorato la primavera, era in assoluto la stagione che preferiva perché il pungente e gelido inverno lasciava spazio ad un tenue e piacevole venticello, lo stesso che poteva accompagnarlo in città per affari o durante le sue passeggiate nella sua residenza di campagna.

Qui, nello Yorkshire, i prati verdeggiavano accompagnando la fioritura degli alberi in modo naturale ed artistico  con i loro colori, e ancora il sole, non più schermato da nuvole cariche di pioggia, avrebbe accompagnato le sue battute di caccia e di pesca sin dal mattino.

Sì, adorava la primavera, lo faceva sentire vivo, totalmente estraneo al torpore invernale, che egli ironicamente paragonava ad un letargo dei piaceri che un uomo può godere all’aria aperta.

Ad onor del vero però c’erano anche delle cose che non apprezzava molto della primavera, dei lati negativi che anche un uomo apparentemente mite come lui riusciva a trovare:  con la primavera iniziava la stagione mondana nella contea, e questo voleva significare un susseguirsi infinito di balli e feste a cui ovviamente lui e sua moglie, colonne portanti dell’alta società, avrebbero dovuto presenziare. Con somma grazia della consorte, per giunta.

Jude ci provava. Davvero, era suo desiderio poter cambiare opinione su queste serate di festa, ma era più forte di lui: odiava più di ogni altra cosa i parolieri e la mancanza di rispetto, ed era inutile dire che in tutti quei saloni si trovavano in abbondanza sia l’uno che l’altro. Lo annoiavano le tipiche chiacchiere da sala, i pettegolezzi frivoli che puntualmente circolavano senza fondamento, tutto quel falso perbenismo.

Non trovava divertenti i balli, non era interessato a quelle cose, non lo era mai stato.

Se c’era una cosa che Jude David Heyworth Law apprezzava più di ogni altra, questa era la buona dialettica, la capacità di passare da un  argomento all’altro con naturalezza, senza mai annoiare l’interlocutore, esprimendo le proprie opinioni con animo, ma al tempo stesso con cortesia, che non doveva mai mancare. Trovava una certa grazia in questo, un talento particolare e certamente non comune, soprattutto se accompagnato anche da un corpo desiderabile.

Per sua sfortuna, sua moglie non possedeva ne l’una ne l’altra qualità ed era noto a tutte le malelingue di Londra che la migliore qualità posseduta da Mrs. Law fosse il padre Primo Ministro, nonché una dote invidiabile.

“Signore, vostre madre chiede di essere ricevuta da voi”

La voce del maggiordomo lo riscosse dai suoi pensieri , facendogli alzare la testa dalle scartoffie su cui era costretto da ore.

“Fatela entrare, grazie”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riteneva sua madre una donna di rara eleganza e bellezza, ma a queste virtù si accompagnava anche pari austerità. Sin dalla sua nascita, sua madre aveva manovrato le fila del suo futuro, procurandogli la migliore istruzione scolastica, ottimi insegnanti di musica, le migliori conoscenze in ogni ambito, insegnandogli a fidarsi più di se stesso che degli altri. Dopo la morte di suo padre la situazione peggiorò.  Gli combinò un matrimonio vantaggioso con una donna che sperava  gli avrebbe dato presto un erede maschio, che però ancora tardava ad arrivare. Aveva ventiquattro anni. Non era più stato veramente libero di essere felice.

Nonostante tutto però provava una certa ammirazione per il suo intelletto, verso di lei, rispettata in tutto il paese.

“Altro tè?” le chiese, accennando alla teiera di porcellana.

“Grazie caro, volentieri”

Prontamente la cameriera si avvicinò e le versò una nuova tazza di tè, ritirandosi subito dopo per non disturbarli oltre.

“Posso dunque sapere a cosa devo l’onore della vostra visita, madre?  Perché, per quanto amorevole da parte vostra, dubito che abbiate fatto tanta strada solo per rendermi partecipe delle come sempre buone condizioni di salute di mia sorella”.

Sua madre sorrise, portandosi poi la tazza alle labbra.

“Ho sentito che darete un ballo domani sera…”

“Si. Come ogni anno Allyson ha insistito per inaugurare la stagione” alzò gli occhi al cielo, scocciato.

“Devi essere più gentile con tua moglie, Jude, è una donna adorabile” lo rimproverò.

“Lo è davvero” rispose più per cortesia che per convinzione, sviando prontamente il discorso. “Ovviamente siete invitata, se questo vi aggrada. Abbiamo fin troppe camere vuote qui”.

“Chi vi presenzierà?”

Rimase un attimo stupito dal tono neutro con cui si era espressa.

Qualcosa non andava, lo capiva, lo percepiva. Aveva un pessimo presentimento.

“Tutta l’alta società, come sempre” rispose perplesso, non perché volesse mancarle di rispetto, ma perché la risposta era oltremodo ovvia. La prima serata mondana della stagione era un appuntamento irrinunciabile per tutta la nobiltà che, abbandonata Londra in vista del periodo estivo, si rifugiava nelle loro residenze di campagna.

“Anche la famiglia di tua moglie?”

“Si, è ovvio…”

“Sai Jude, mi sono giunte all’orecchio delle voci” lo interruppe, posando la tazza ormai vuota sul suo piattino, sul tavolo, cominciando poi a fissarlo con una certa insistenza.

Non gli piaceva essere guardato in quel modo. Si sentiva quasi accusato, o forse era solamente la sua coscienza sporca a farlo sentire così.

“Che tipo di voci?” domandò, e deglutire non gli era mai risultato così difficile, la bocca mai così arida.

“Sembra che alcuni tuoi atteggiamenti abbiano dato adito ai pettegolezzi su una tua infatuazione per un Downey…”

“E’ naturale, Allyson…”

“Un Downey che non è tua moglie, Jude” concluse in tono freddo, stroncando sul nascere ogni sua possibile risposta. “Il fratello, nella fattispecie. Ogni donna d Londra si chiede perché un ragazzo avvenente non abbia ancora preso moglie”.

“Calunnie e maldicenze. Il giovane Downey è appena uscito da Cambridge, seguirà le orme di suo padre in politica. Avrà tempo per un matrimonio infelice” rispose, fin troppo stizzito per essere totalmente estraneo all’argomento, non riuscendo a celare quanto avrebbe voluto il suo stato d’animo. Quando se ne accorse distolse lo sguardo, guardando verso la finestra, scrutando serio il cielo del primo pomeriggio.

“Sei piuttosto informato su tuo cognato, vedo” commentò, aggiungendo poi un “La gente parla, Jude”.

“E allora lasciate che parlino, maledizione!”

Si tradì definitivamente con questo scatto d’ira, alzando la voce, nonostante fosse sicuro che lei avesse già capito, che sapesse, che avesse sempre saputo.

Lo sapeva, ne ebbe conferma dallo sguardo che gli rivolse subito dopo.

Sembrava leggergli dentro, in ogni pensiero, ogni più recondito pensiero.

Non era la prima volta che gli succedeva, era già successo con lui. A questo pensiero le dita del panico gli strinsero lo stomaco con forza.

Per la prima volta da quando era solo un bambino si sentì vulnerabile di fronte a sua madre.

La vide alzarsi piano, con calma, per poi affiancarlo, poggiandogli una mano sulla spalla con fare premuroso.

“Questa cosa, di qualsiasi natura essa sia, finisce qui. Non darai modo a queste voci di farsi più pressanti, non ti permetterò di distruggere quello che abbiamo costruito in tutti questi anni per un tuo sollazzo”.

Detto questo se ne andò, senza salutare, lasciandolo solo ed attonito.

Il tempo di sentir chiudere la porta e diede sfogo a tutta la sua frustrazione  scattando in piedi e sbattendo le mani sul tavolo, causando l’improvviso tremore di tutto ciò che poggiava su esso. Con rabbia le spostò di lato, facendo cadere il servizio da tè, che andò  a frantumarsi in mille pezzi sul pavimento, mal celando un urlo di frustrazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo ha osservato per tutta la sera.

L’ha osservato mentre parlava con uomini di spicco, colleghi di suo padre,  mentre conversava con pittori ed artisti e ancora mentre danzava. Più volte aveva danzato con Susan, la figlia del Signor Levin, lo aveva notato subito, era la prima volta che faceva una cosa simile, stonava particolarmente con il suo solito comportamento, poco incline alla danza. Non correva buon sangue tra la sua famiglia e quella dei Levin, e adesso certamente le cose non sarebbero migliorate, almeno da parte sua.

Suo cognato indossava una giacca blu scura con bottoni dorati, così come il gilet, che soprassedeva su una camicia bianca, e dei pantaloni dello stesso colore. Gli stivali lustri, i capelli leggermente pettinati all’indietro, il solito sorriso smagliante tipico di chi sa di essere ben voluto da tutte le persone che lo circondano e di avere tutte le carte in regola per avere il mondo ai propri piedi.

Tutti consideravano Robert Downey Jr. il giovane più promettente di tutta l’alta società, con la sua spigliata e naturale dialettica e quella sottile ironia di chi non ha paura di esprimere la propria opinione. Non era raro che si prendesse gioco del suo interlocutore con una certa compiacenza, senza che questo se ne accorgesse. In questo aveva certamente imparato da suo padre, che pian piano gli stava spianando la strada politica nel suo partito.

Non aveva mai incrociato il suo sguardo quella sera, sembrava quasi che desiderasse ignorarlo. Non si erano mai trovati a meno di dieci metri di distanza, fino a quel momento.

Ma certamente Jude Law non era un uomo abituato a vedersi ignorare, no.

Lo intravide poggiato ad una delle colonne del salone, nella parte meno illuminata, solo e con il bicchiere che stava pericolosamente rischiando di rimanere vuoto, quindi decise di avvicinarsi lui stesso.

Adocchiò il cameriere più vicino, prese due bicchiere di vino dal vassoio in argento e si avvicinò all’oggetto dei suoi pensieri, svicolando in fretta da tutti quegli invitati di cui ricordava a malapena il cognome che si stavano complimentando per la bella serata. Come se gliene importasse qualcosa, poi.

“Un bicchiere vuoto non vi si addice, Signor Downey” calcò particolarmente sulle ultime due parole quando gli fu davanti, attirando il suo sguardo.

Lo vide sorridere, per poi cominciare a guardarsi intorno, come lo aveva visto fare per tutta la sera.

“Con tutto il rispetto, è colpa dei vostri camerieri. È tutta la sera che ne cerco uno, ma sembrano sparire ogni volta che alzo lo sguardo”

“Allora lasciate che rimedi personalmente a questa loro grande mancanza” lo prese in giro, porgendogli il calice col vino, scambiandolo con il suo ormai vuoto che posò sul vassoio di un cameriere che passò in quel momento. “Come vedete, non era poi così difficile”.

“Allora forse stavo solo aspettando che qualcuno mi offrisse da bere…” lo guardò negli occhi, portandosi il bicchiere alle labbra, facendolo sorridere compiaciuto.

“Oh, e siete dispiaciuto che sia stato proprio io?”  decise di stare al suo gioco, perché gli piaceva, lo divertiva, lo eccitava.

“Avrebbe potuto decisamente andarmi peggio” fu la risposta del più giovane, mentre reclinava la testa contro la colonna e manteneva il contatto visivo, stirando poi le labbra dischiuse in un sorrisino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ho saputo che avete avuto problemi di salute ultimamente…”

Lo osservò mentre lo diceva, notando ancora il discreto pallore della sua pelle, la solita vivacità dei suoi occhi offuscata da un velo di stanchezza.

“Mi compiace constatare che mia sorella non ha ancora imparato a tacere” ironizzò l’altro, facendolo ridere di gusto perché certamente gli affari suoi, sua moglie, non sapeva proprio farseli.

“Spero niente di grave, comunque… se non sbaglio questa è la vostra prima uscita pubblica da mesi”

“Solo una febbre particolarmente debilitante, a detta del dottore” fece una smorfia, poi continuò. “Avete forse temuto  per la mia salute, signore?”.

Con suo grande rammarico lo vide distogliere lo sguardo dal suo per stringere la mano ad un compagno di partito di suo padre, che subito cercò di farsi bello ai suoi occhi, lusingandolo con parole di miele su quanto fosse importante per loro avere l’appoggio della famiglia Law.

Tutto quel perbenismo lo aveva sempre infastidito, maggiormente se lo costringeva a distogliere l’attenzione da qualcosa di ben più interessante, ma non poteva sottrarsi, lo sapeva. Era il suo dovere.  E lo sapeva bene anche il giovane Downey, che subito si congedò elegantemente con un “A quanto sembra avete questioni importanti di cui parlare. Come ben sapete, Signor Law, il qui presente Signor Ruffalo si occupa delle questioni economiche del partito, e sono ben sicuro che sia impaziente di scambiare qualche opinione con voi. Ricordatevi solo che siamo ad una festa” che riuscì a toglierlo dall’imbarazzo del non ricordarsi il nome di quell’uomo con gli occhiali.

Lo seguì mentre si allontanava, dispensando sorrisi a tutti i presenti, lo sguardo che scese su tutto il suo corpo mentre beveva l’ultimo sorso di vino dal suo bicchiere.

Era decisamente troppo sobrio per affrontare una conversazione con un banchiere.

Sospirò.

“Posso tentarla con un buon bicchiere di brandy, Signor Ruffalo?”

“Volentieri, Signor Law”

Chiese ad uno dei camerieri di portargli due bicchieri di distillato di vino, sorridendo poi al suo interlocutore.

“Ditemi dunque, in che condizioni sono le casse del nostro partito?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aveva cercato il soggetto dei suoi pensieri per tutta la sala per molti minuti, invano, poi lo aveva visto entrare nel suo studio, nella stanza accanto. Ovviamente lo seguì nella stanza fiocamente illuminata solo dalla luce delle candele della sala da ballo adiacente, lasciando la porta socchiusa, con l’intento di prenderlo di sorpresa e giocargli uno scherzo.

Si stava avvicinando, cercando di fare il minor rumore possibile, quando…

“Vi ho mai detto quanto sia invidioso della vostra collezione di libri?” lo sente dire senza distogliere lo sguardo dalla libreria, tanto per fargli capire che sì, sapeva che era dietro di lui e sapeva che lo aveva seguito.

“Oh, riuscirò mai a farmi beffa di voi?” chiese il padrone di casa, fingendosi offeso.

“Spero proprio di no”

“Comunque, sentitevi libero di venire a leggerli quando più vi aggrada”

“Siete molto gentile, Signor Law…” accennò un sorriso, poi gli si avvicinò, in modo che solo lui potesse sentirlo. ”O forse è solo un espediente per avermi come vostro ospite?” gli sussurrò all’orecchio, e l’altro sapeva benissimo a cosa si stesse riferendo. Ci pensava continuamente.

L’ultima volta che lo aveva invitato nella sua residenza di campagna per una battuta di caccia, la primavera passata, non erano mai usciti dalle sue stanze. E lo stesso tipo di incontro, seppur in maniera molto più fugace, era avvenuto più volte durante la sua permanenza alla villa per le vacanze di Natale e durante la sua ultima visita a Londra. Sua moglie non aveva mai sospettato nulla.

“Trovo che siate decisamente troppo astuto per essere così attraente”  rispose Jude con una gran dose di ironia, vedendolo ridere di gusto.

“Trovo che il vostro sia un luogo comune privo di fondamento”

“Oh si, tu ne sei la prova, vero?”

Abbandonò quasi senza accorgersene l’etichetta che gli imponeva di dare del Voi ai suoi interlocutori, attirando lo sguardo del giovane Downey.

Avevano un patto; nonostante la loro intimità, in pubblico avrebbero continuato a darsi del voi, senza neanche mai chiamarsi per nome. Questo per non dare adito a possibili pettegolezzi, per non dare nell’occhio.

Lui stesso adesso stava infrangendo quel patto.

“Pensate di trattenervi a lungo?” si ricompose subito dopo, vedendo il ragazzo rilassarsi, emettendo un leggero colpo di tosse.

“No, ripartirò stasera stessa”

“Così presto?”

“Non posso trattenermi più del necessario”

“Posso essere così sfrontato da chiedervi il motivo di questa vostra insolitamente breve permanenza?”

“Direi che lo siete stato in ben altri modi, e in più di un’occasione”

Sorrise beffardo a questa sua battuta pungente, compiacendosi di tutta quella malizia di cui era capace, probabilmente complice la sua età.

Poi arrivò la verità, come un fulmine a ciel sereno.

“Vostra madre è venuta a casa nostra, ieri sera. L’ora era tarda, ammetto di esser stato preso alla sprovvista. Voleva…” si fermò, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi. Sembrava molto preoccupato, e turbato.

Subito dovette combattere l’istinto di rompere qualcosa.

Come aveva potuto sua madre spingersi a tanto?

“Insinuava un qualche legame tra voi e me, che ovviamente ho smentito. Non so come abbia fatto a scoprirlo” fece una pausa, esitante. Esitazione che aumentò quando Jude sfiorò la sua mano con la propria. “C-credo che mi stesse minacciando, Jude”.

“Non succederà più, te lo garantisco” sbagliò ancora, stringendogli le dita tra le proprie, proprio come aveva fatto la prima volta che lo aveva amato, usando la forma errata , perché in fondo Law aveva sempre odiato quei sotterfugi.

Che parlassero, che aumentassero i pettegolezzi, non gli importava. Non avevano prove, solo loro due sapevano la verità, e Jude David Heyworth Law nell’ultimo anno era stato più felice di quanto riuscisse a ricordare.

Era sicuro che anche per Robert fosse lo stesso, nonostante si rifiutasse di ammetterlo con la ormai ben nota ostinazione della famiglia Downey.

“Lo so. Mi sposo in autunno”.

 

Gelo.

È questo quello che sentì calare nella stanza, pesante come un blocco di ghiaccio, opprimente.

Si sposava.  Era normale, era naturale:  non capiva  come suo padre non avesse già provveduto ad un matrimonio vantaggioso per i suoi affari, donandogli invece la possibilità di terminare gli studi.

“L’annuncio verrà dato tra qualche settimana, non lo sa ancora nessuno” spiegò, per poi aggiungere in un sussurro “Volevo che lo sapeste da me”.

“Quindi ancora non è sicuro?”

“Si, lo è”

“Ma avete detto che…”

“Non importa quello che dico io, è stato deciso così. Il matrimonio si farà, non posso farci niente. Nessuno può”.

Eppure quelle parole gli suonarono molto come un grido di aiuto.

“E chi è la fortunata?” chiese  pungente, geloso, lasciando la sua mano e allontanandosi da lui, che nell’ultimo anno era stato il centro del suo mondo, arrivando vicino alla finestra.

Lo sentì sospirare.

“La figlia di Levin, Susan”

Rise.

Era inappropriato, lo sapeva, ma gli venne da ridere.

Era ironico e crudele, troppo per poter essere un caso; per la prima volta si chiese se sua madre si fosse limitata a minacciare Robert o se fosse andata per parlare con suo padre.

Li stavano dividendo.

“Mio padre crede che questo matrimonio sanerà la profonda frattura tra le vostre famiglie, visto che mia sorella è vostra mo-“ provò a dire, ma l’altro non gli permise di finire la frase.

“O più semplicemente vi allontanerà da qui. Ti allontanerà da me”

Era difficile parlare, sentiva  la gola secca e un gran senso di oppressione sul petto. “Almeno la trovate gradevole?”.

“Io… l’ho vista solo un paio di volte, per ora, ma… credo…”

“Ne siete innamorato? Credete di potervi innamorare di lei?” si voltò a guardarlo, notando lo sguardo basso, perso chissà dove, le braccia incrociate al petto, le  dita e le unghie che tormentavano il tessuto delle maniche della giacca.

Gli fece tenerezza in quel momento, era la prima volta.

Si avvicinò.

Il giovane non rispose. Era rimasto spiazzato, non sapeva come obiettare, non sapeva come rispondere.

“Pensate di poter essere felice?”  insistette.

“Voi amate mia sorella?” fu la sua flebile risposta, che a Law ancora una volta, suonò molto come una supplica, il desiderio di essere rassicurato.

“Si, la amo”

Gli arrivò di fronte, portando una mano sotto al suo mento e facendogli alzare la testa, non vedendolo in alcun modo vittima di questa repentina, ma necessaria, confidenza; sarebbe stato ipocrita da parte sua esserlo, dopo tutto quello che avevano fatto, e Robert Downey Jr. era molte cose, ma non un ipocrita.

Sapeva bene come si sentiva: sapere che tutto sarebbe andato per il meglio, che si sarebbe abituato a quella nuova situazione che era chiamato ad affrontare era avvilente, ma al tempo stesso tranquillizzante. Come un’ancora di salvezza quando la nave sta colando a picco.

Robert sentiva la gola bruciare mentre il suo amante si avvicinava al suo orecchio, baciandogli la tempia in modo dolce e gentile.

“Mai quanto amo te, però”

Fremette a questa dichiarazione di Law, sentendo la sua mano cercare la propria.

Non era la prima volta che gli diceva una cosa del genere, ma questa volta c’era qualcosa di strano, lo avvertiva, qualcosa di definitivo, di unico. Di vero.

Jude fece per avvicinarsi alle sue labbra, ma rimase deluso quando l’altro si voltò, rifiutandolo, chiudendo gli occhi e abbassando di nuovo la testa.

“Mia sorella si starà sicuramente chiedendo dove sei…” si tradì ancora il giovane, confidenziale, scosso dagli eventi.

E mentre Jude Law lasciava la stanza, ferito come mai si era sentito dalla persona a cui più teneva,  l’unica cosa che sentì fu un sospiro profondo, e subito dopo dei colpi di tosse.

Si impedì di tornare indietro.

Doveva indossare nuovamente la sua maschera di marito amorevole, l’ennesimo ballo sarebbe iniziato entro pochi minuti e sicuramente sua moglie desiderava danzare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ballò con sua moglie quella sera, non perché desiderasse farlo ma perché era quello che tutti si aspettavano che facesse, era il suo ruolo, era quello che era obbligato a fare. Non doveva lasciar spazio ai pettegolezzi.

E mentre danzava , mentre coglieva quella felicità che da tempo mancava negli occhi di sua moglie, mentre la vedeva sorridere felice, i suoi pensieri erano rivolti altrove.

Downey aveva ballato più volte  con Miss Levin, ma non c’era passione tra loro, lo vedeva. Non c’era affetto, non c’era niente. Non si guardavano neanche, non parlavano, non sorridevano.

Sarebbe stato l’ennesimo matrimonio infelice, proprio come il suo.

Non poteva farci niente, aveva dato a Robert una possibilità ma aveva scelto, lo aveva rifiutato. Doveva lasciarlo andare.

Improvvisamente un colpo di tosse, seguito da un secondo, un terzo e molti altri, ma non ci fece caso mentre continuava a danzare al ritmo di quella bella musica con sua moglie, che ancora una volta gli sorrise raggiante.

La guardò e le sorrise a sua volta.

Quella tosse che fino a quel momento fu solo un sottofondo si fece più insistente, e un brusio sempre più ronzante si alzò nella sala.

Poi un urlo.

La musica si fermò improvvisamente, il violinista, preso alla sprovvista, fece stridere l’archetto sulle corde.

Jude si voltò di scatto e lo vide: vide quella figura che tanto aveva ammirato quella sera piegata in avanti, una mano al petto, aggrappata con forza alla camicia ormai macchiata, lo sguardo spaventato fisso sul pavimento.

E il sangue.

Stava tossendo sangue e non sapeva cosa fare, non riusciva a respirare.

Lo vide crollare in ginocchio e quel lieve rumore echeggiò tra tutti i presenti adesso ammutoliti, inorriditi, ognuno al loro posto.

Emise un rantolo.

Sangue.

Ancora sangue.

“ROBERT!”

Lasciò la mano di sua moglie e corse verso di lui, inginocchiandosi sul pavimento, invocando l’aiuto di un medico che non sembrava arrivare mai.

Sua moglie piangeva disperata vedendo il suo fratellino colpito da quella terribile malattia di cui aveva sentito parlare in molti salotti di Londra, quella piaga bianca che si manifestava senza motivo  apparente e che portava sempre, inesorabilmente, ad una sola conclusione.

“Chiamate un medico! Serve un medico!”

Nessuno si fece avanti.

Ordinò a due ragazzi della servitù di correre a chiamare un dottore, poi aiutò Robert ad alzarsi, non pensando che non fosse in grado di sorreggersi sulle proprie gambe, come in realtà successe. Lo sorresse un attimo prima che crollasse nuovamente sul pavimento, passandogli un braccio dietro alla schiena  e uno dietro alle gambe, sollevandolo da terra.

E mentre sentiva la testa del ragazzo poggiarsi sul suo petto, un lieve lamento giungergli alle orecchie, mentre lo portava fuori da quella sala, al riparo da tutti quegli sguardi che erano puntati su di lui come una accusa o una condanna, sentì alzarsi un brusio. Sempre più forte.

Perfino in un momento come questo parlavano, quelle malelingue.

Come sempre non avrebbe fatto niente, avrebbe lasciato che parlassero perché si sarebbe sentito un bugiardo a negare quei pettegolezzi, un traditore.

Si immaginò lo sguardo contrariato di sua madre, e gli venne da sorridere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Portò Robert in una delle stanze adibite agli ospiti di quella serata e lo adagiò cautamente sul letto, coprendolo con una coperta.

Era pallido.

Aveva un aspetto spettrale, pensò, soffermandosi con lo sguardo macchiata di sangue ormai rappreso che deturpava il suo candore.

Gli passò una mano tra i capelli, sapendo che quando sarebbe arrivata sua moglie non avrebbe più potuto concedersi una tale libertà.

Aveva paura.

La sola idea di perderlo gli faceva mancare la terra sotto ai piedi, e nonostante questo non poteva esternare niente, non di fronte a Allyson.

Rimase al suo fianco fino all’arrivo del medico, con sua moglie che non smetteva di piangere, tenendo la mano del suo adorato fratello sotto quella coperta che aveva il solo scopo di tenerlo al caldo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dottore dopo un’attenta analisi a cui Jude si rifiutò di assistere, preferendo rimanere in corridoio, camminando ansiosamente  avanti e indietro nel vano tentativo di tranquillizzarsi, purtroppo confermò i loro sospetti, dando voce alle loro paure.

Lo capì subito, appena vide sua moglie uscire in lacrime dalla stanza, inconsolabile. Non cercò neanche il suo abbraccio, non riusciva a parlare, e fu portata nelle sue stanze da una delle domestiche per un po’ di riposo.

La sua reazione era chiara, e il totale mutismo del dottore era un fausto presagio. Gli tremavano le mani.

“Che cos’ha?” chiese in un sussurro, lo sguardo perso nel vuoto, una volta che il medico si chiuse la porta alle spalle.

“Mi dispiace tanto…”

“Le ho chiesto che cos’ha!”  sibilò quindi, fulminandolo con lo sguardo. Odiava chi usava subdoli giri di parole, lo aveva sempre fatto.

L’uomo strinse la sua borsa tra le mani, chiudendo appena gli occhi per incassare il colpo, probabilmente spaventato dal suo cambiamento. Matt Smith era da anni il medico della famiglia Law, ma mai aveva visto il Signor Law sotto quella luce, sembrava un’altra persona. Come se gli avessero strappato un pezzo d’umanità, pensò tra se e se.

“E’ la tisi. Io… io non posso fare niente…”

“No…”  scosse la testa con forza il padrone di casa, serrando le mani tremanti in uno scatto d’ira, le unghie che andarono a conficcarsi con forza nei palmi, lasciandovi i segni.

“Potete solo stargli vicino per il tempo che gli resta” lo guardò dal basso l’altro uomo.

“No. NO!”

Urlò quella volta, scaraventando a terra un piccolo mobile che si trovava accanto a lui e tutto ciò che esso conteneva, portandosi poi le mani alla testa.

“Signore, io non…”

Il dottore si sentì prendere per il colletto della camicia  e sbattere con forza contro la parete, lasciando la borsa che ancora teneva tra le mani che cadde rumorosamente a terra, probabilmente rompendo qualche boccetta di medicinale. Lo fissò negli occhi, impaurito.

“Se…” sibilò Law vicino al suo viso, ma subito si fermò, respirando a pieni polmoni. Non riusciva neanche a dirlo. Si fece forza. “Se lui muore, state pur certo che voi non lavorerete più in questa città, ne in nessun’altr-“

“Smettetela. Jude, per favore…”

La sua voce era flebile, ma perfettamente udibile, infatti appena lasciò prontamente il povero medico, che subito cercò di ricomporsi.

Osservò il giovane Downey notando l’innaturale pallore della sua pelle, l’espressione stanca, le labbra leggermente bianche.

Robert era la sua cura ad ogni male, perfino in un momento come quello riusciva ad esorcizzare i suoi demoni.

“Come ti senti?” gli chiese, prendendolo per le spalle e guardandolo preoccupato, e subito lo sentì irrigidirsi, rivolgendo un’occhiata spaventata al medico accanto a loro. Era a disagio, lo capiva, ed è per questo che ordinò all’uomo di andare a controllare lo stato di salute di sua moglie perché “Sarà sicuramente sotto shock, poverina. Temo per i suoi nervi. Vi prego di prendervi cura di lei, Dottor Smith”.

Inutile dire che l’uomo eseguì l’ordine nel minor tempo possibile, lasciandoli soli.

In quel momento Robert gli fece cenno di entrare nella stanza, chiudendo piano la porta dietro di loro, rimanendo fermo davanti ad essa, dandogli ancora le spalle.

“Robert…”

“Mi hanno appena detto che morirò, come dovrei sentirmi?”

La voce era rotta, il respiro affannoso.

Lo vide abbassare la testa.

Era la prima volta che lo vedeva piangere, si era sempre dimostrato cinico e pungente, apparentemente al di sopra di tutto e tutti, ma adesso la sua maschera di sicurezza si stava sgretolando, lasciando spazio al suo lato più fragile, piegata dalla verità delle ultime ore, da quella maledetta malattia che neanche sapeva di avere.

Il giovane Downey in quel momento si chiese se fosse la punizione per tutti i peccati che aveva commesso.

Jude lo abbracciò da dietro, cingendolo con le braccia, pensando che l’unica cosa da fare in quel momento  fosse proteggerlo, lasciarlo sfogare, dargli un punto di appoggio, un appiglio a cui aggrapparsi.

Non sarebbe servito, lo sapeva. Lo sapevano entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Robert Downey Jr. era sempre stato un giovane molto ambizioso: la posizione privilegiata di suo padre gli aveva procurato i migliori insegnanti privati ed era entrato a Cambridge con le massime aspettative, con l’intento di entrare in politica. Voleva diventare primo ministro, proprio come Downey Sr., gestire il paese, migliorarlo, far espandere l’economia, raccogliere consensi.

Non lo avrebbe mai fatto.

“Quanto mi resta?” gli chiese.

Law scosse la testa. Nessuno lo sapeva: a volte la malattia faceva il suo corso velocemente, altre logorava la persona fin nel profondo.

Inspirò a fondo, probabilmente cercando di darsi coraggio, annuendo appena.

“Devo tornare a casa”

“Non se ne parla, hai sentito il dottore, devi riposare. Ho già fatto inviare  una missiva a Londra”

“Non capisci…”

“Così è deciso.” Concluse perentorio, ponendo fine a quell’inutile diverbio. Non era in grado di affrontare il viaggio per Londra, era un giorno a cavallo,non gli avrebbe permesso di partire.

Voleva essere sicuro che avesse tutte le migliori cure possibili, avrebbe chiamato i migliori medici d’Europa se necessario. Desiderava averlo accanto, per quel poco tempo che ancora rimaneva loro.

Il giovane lo capì, interpretando però le sue parole nel peggiore dei modi, credendole cariche di possessività ed egoismo.

“Sei davvero egoista nel volermi privare della mia famiglia in un momento come questo” insinuò, guardandolo freddamente con i suoi begli occhi adesso ancora arrossati.

“Io non…” sospirò forte, poi riprese. “Sono preoccupato per te. Non voglio lasciarti andare”.

Non sapeva neanche lui se il suo discorso fosse riferito all’allontanamento dalla sua casa, da lui e da tutto quello che avevano condiviso, o alla conclusione inevitabile della malattia. Non si guarisce dalla tisi, non c’è una cura, è tutto inutile.

Gli strinse maggiormente la mano, mentre con l’altra gli spostava una ciocca di capelli dalla fronte.

“Quella volta, in campagna…” lo sentì sussurrare, la voce nuovamente incrinata dal pianto, le lacrime che ancora gli rigavano il bel viso.

Lo lasciò fare. Lasciò che si interrompesse, gli diede il tempo necessario per metabolizzare. Non gli avrebbe mentito, non gli avrebbe detto che tutto sarebbe andato bene, che si sarebbe risolto, che era un brutto sogno. No.

Si sedette accanto a lui, poggiando la schiena al suo stesso cuscino, cingendogli le spalle con un braccio, attirandolo più vicino.

“Hai-hai detto che mi avresti amato per sempre”

“Si, lo ricordo bene” gli baciò la fronte, sentendola leggermente calda sotto alle labbra, cercando di farlo calmare, il corpo ancora scosso dai singhiozzi.

“Lo farai davvero?” lo guardò negli occhi, e per Jude la risposta fu oltremodo naturale.

“Si” sussurrò, perché era l’unica cosa che riusciva a pensare mentre gli passava una mano tra i capelli, mentre lo vedeva chiudere gli occhi, un’ultima lacrima che gli rigava la guancia mentre si abbandonava alla sua carezza. “Te lo prometto”.

Robert gli posò la testa sulla spalla e lui lo strinse maggiormente.

Sentiva lui stesso gli occhi bruciare adesso, non sapeva per quanto avrebbe continuato ad essere così calmo, sapeva solo che lo stava facendo per lui; non era pronto per questo, aveva sopportato a malapena l’idea di vederlo sposarsi, come poteva tollerare anche solo l’idea di vederlo morire?

“Ho paura”

“Lo so”

“Non voglio. I-Io devo… devo fare tante cose, voglio cambiare il paese, io… non sono pronto per questo” Downey scosse la testa, chiudendo gli occhi e respirando forte, lamentandosi. “Perché a me?”.

Non resistette più, vederlo così gli faceva troppo male. Gli prese il viso tra le mani, cercando il suo sguardo.

“Ti prego. Ti prego, non fare così, è già abbastanza difficile, non…”

“Ieri sera ero così spaventato da tua madre, Jude… Ironico, vero? Il suo desiderio di separarci verrà esaudito molto presto”. Trovava una certa, macabra, ironia in questo. L’essere obbligati a separarsi per sempre contro la loro volontà. Forse era destino che andasse così.

“Non dire così…” gli passò una mano tra i capelli, cercando di rassicurarlo, di rassicurarsi.  Adorava i suoi capelli, adorava tutto di lui.

Mantennero il silenzio per molto tempo, abbracciati, probabilmente per l’ultima volta, poi fu Robert a parlare per primo, schiarendosi la voce.

“Anch’io, sai?”

“Cosa?”

Si voltò verso di lui, sorridendogli teneramente.

“Ti amo anch’io, Jude”

Ed era la prima volta che glielo diceva.

La prima volta che lo confessava a qualcuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo guardò rivestirsi lentamente, vicino alla finestra, infilandosi i  pantaloni e infilandosi la camicia, stringendo appena i lacci sul petto. Dal letto aveva davvero una bella prospettiva e godeva dell’ottima visione del suo profilo, che considerava praticamente perfetto.

Si girò sul fianco Law, ancora avvolto dal lenzuolo, reggendosi la testa con un braccio per continuare ad osservarlo.

“Sei bellissimo” si lasciò sfuggire, e incuriosito osservò la reazione dell’altro.

A dispetto di quanto avesse immaginato, non si scompose affatto. Probabilmente non era una novità per lui ricevere dei complimenti, e questo lo fece ingelosire un poco.

“Mi sembra il minimo che tu possa dirmi” ironizzò, ridacchiando sommessamente, dandogli ancora le spalle “Dopo quello che abbiamo fatto”.

“Tua madre avrebbe dovuto chiamarti Narciso, non Robert…”

“…Intendi tua suocera?”  chiese quindi, facendolo ridere di gusto.

Ci aveva provato a resistere, lo aveva fatto davvero, per riguardo e rispetto nei confronti di sua moglie, ma Robert occupava ogni suo più recondito pensiero da molto, troppo tempo.  Annebbiava il suo buon senso, in sua presenza diventava impulsivo, irrazionale, geloso, e l’amarsi in maniera così intima e passionale era stata solo la conclusione naturale del loro corteggiarsi ad ogni evento a cui entrambi partecipavano.

“Credo di amarti”

Lo aveva detto così, con naturalezza, in quel modo così stranamente distante da lui e dal rapporto che aveva con sua moglie, quasi fosse una liberazione, e il più giovane si voltò subito, guardandolo negli occhi. Gli sorrise teneramente.

“E’ solo perché mi trovi attraente”

“Non è vero”

“Lo hai detto tu, però, solo pochi attimi fa” si fece più vicino, poggiando un ginocchio sul letto, arrivando a pochi centimetri dal suo viso. Lo stava stuzzicando, lo faceva sempre, lo divertiva vederlo capitolare con facilità, soprattutto di fronte ad altre persone ignare dei loro discorsi.

“Hai totalmente frainteso le mie parole, lo sai. Non burlarti di me” lo ammonì, sorridendo scherzosamente.

“Vuoi dire che mi ameresti ugualmente, anche se non fossi giovane e bello?”

Questa volta sembrava davvero preso dalla sua domanda, non c’era traccia di ironia o di scherzo nella sua voce. Robert Downey Jr. in quel momento voleva più di ogni altra cosa conoscere la verità su quello strano sentimento che l’altro uomo gli aveva dimostrato per così tanto tempo. Non gli era mai capitato di sentirsi così, era la prima volta. Come anche la prima volta che si concedeva  a qualcuno in quel modo, così intimamente e con complicità.

“Si. Ogni giorno della mia vita.”

Rimase un attimo stranito da quella risposta, forse quasi spaventato.

L’eternità gli sembrava una cosa molto grande da affrontare  e l’unico modo per non essere travolto da questo pensiero,  gli sembrò smorzare la tensione con una battuta, quindi prese un bel respiro e sorrise, forse in maniera troppo dolce.  E si tradì ulteriormente abbassando la testa, il petto colmo di un nuovo calore mai provato, che sembrava far scalpitare il suo cuore.

“Non sei credibile” lo punzecchiò, puntandogli un dito sul petto nudo.

“Mi metta alla prova, Signor Downey” fu la risposta del biondo che si avvicinò a lui, centimetro dopo centimetro, non trovando alcuna resistenza. Indugiò sulla sua bocca, sfiorandola appena, lasciando entrambi in bilico tra la ragione ed il cuore per un tempo che parve loro infinito, tanto che Robert non si sarebbe stupito se suo padre fosse entrato dalla porta di quel loro rifugio segreto per riportarlo a Cambridge con urgenza.

Si avvicinò ancora, e finalmente lo baciò. E quel bacio Robert Downey Jr., si ripromise, lo avrebbe ricordato per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perfino cacciare adesso non aveva più alcuna attrattiva per lui. Tutto aveva perso interesse, il mondo sembrava aver perso i suoi colori e tutto ciò che aveva di bello. L’estate stava arrivando, ma nel suo cuore tutto era freddo, non riusciva a capacitarsi di questo suo stato d’animo, di questa sua più totale apatia; erano passati due mesi da quella sera, da quel dannato ballo di inizio primavera che aveva segnato l’inizio della fine e da Robert non aveva più avuto notizie.

I suoi genitori erano venuti a prenderlo il giorno seguente e lo avevano riportato a Londra.

Non lo aveva più visto.

Glielo avevano proibito, loro sapevano, tutti sapevano, non era il benvenuto in quella casa.

Aveva provato a scrivergli un paio di lettere, ma non aveva mai ricevuto risposta. Aveva il dubbio che fossero state bruciate prima che potesse leggerle.

Perfino sua moglie sapeva, glielo aveva fatto ben capire in più di un’occasione, ma questo non gli provocava nessuna reazione, nessuna vergogna. Voleva soltanto poter rivedere Robert, il resto non gli importava.

Quella mattina era uscito a caccia per cercare di svagarsi, come ogni mattina, ma come sempre era tornato alla residenza a mani vuote e la testa colma di pensieri, non sapeva cosa fare. Per la prima volta in tutta la sua vita, i suoi soldi e la sua posizione sociale erano totalmente inutili, aveva le mani legate.

Appena rientrò in casa capì che c’era qualcosa che non andava: era deserta, non vi era nessun rumore udibile, nessuno dei domestici stava svolgendo il proprio lavoro.

Li trovò tutti riuniti fuori dalla porta del suo studio, in silenzio, tutti ad ascoltare qualcosa che ancora dalla sua posizione non riusciva ad udire.

“Che cosa succede?” chiese, e sembrò riscuoterli dal loro torpore. Frettolosamente si dispersero tutti, affrettandosi alle loro mansioni, rimase solo il suo maggiordomo, colui che era sempre stato al servizio della sua famiglia e lo aveva visto crescere.

“E’ vostra moglie, Signore. E’ inconsolabile.”

Ebbe una fitta al cuore.

Le fredde dita del panico lo attanagliarono e aveva le mani che tremavano mentre abbassò la maniglia della porta ed entrò nella stanza.

Trovò sua moglie seduta al suo scrittoio, il volto rigato dalle lacrime, gli occhi ormai arrossati e gonfi. Non riusciva neanche a parlare. Teneva tra le mani una lettera.

“C-Che cos’è?” chiese con voce tremante, gli occhi spalancati dalla paura, tutti i sensi tesi mentre si avvicinava a lei. Ancora e ancora, passo dopo passo, inesorabile.

Riconobbe la calligrafia minuta e fitta  di Robert Downey Sr. sulla missiva, la lettera era stata scritta di suo pugno.

Il respiro si fece più affannoso.

Doveva sapere cosa stava succedendo.

Non riusciva a respirare.

“E’ morto…” sua moglie non riuscì a trattenere altre lacrime, addolorata dalla perdita del fratello.

Panico.

Ebbe un giramento di testa.

Poi il buio.

Vuoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[NdA]: Allora, ditemi: Da 1 a 10, dove 1 è “amorevole” e 10 è “Dammi una cazzo di lametta che mi devo tagliare le vene per obliquo!”, quanto mi odiate?

In effetti il mio intento era scrivere una cosa angst ma PROPRIO PROPRIO ANGST… spero di esserci riuscita. *ognuno ha le proprie aspirazioni, son cose xDDD*

Se è tragica anche solo la metà di come volevo che fosse, adesso mi aspetterei di essere esiliata dal fandom RDJude fino a quando non farò ammenda (cioè mai) xDDDD

Scherzi a parte, non mi sono divertita a scriverla ma ce l’avevo in testa da un po’, e si sa… i pensieri tragici stanno meglio su carta che vorticanti nel mio cervello. Ho fatto un po’ di spazio anche per i pensieri felici, diciamo LOL

Adesso qualche chiarimento, perché la situazione è un po’ complicata. Partiamo dai riferimenti storici: La tisi, o tubercolosi, o TBC, o “quello che aveva lei del Moulin Rouge”, insomma, come volete chiamarla. Nel  XVIII  secolo  (epoca in cui  ho immaginato fosse ambientata la storia) la tubercolosi era praticamente la principale causa di morte, e una volta contratta veniva considerato inevitabile morire per la malattia. E sì, non me lo sono inventato (avrei scelto un nome più carino! Tsk, babbani! u.u), veniva davvero chiamata la Piaga Bianca.

 

Per quanto riguarda il mio ritorno alla terza persona, e soprattutto al tempo passato: STRANO. Buon Loki, è stato stranissimo, ormai sono abituata alla prima persona, ad entrare completamente nella testa di un personaggio. Spero di non aver fatto un casino, ammetto che a volte avevo una faccia tipo -à O_o  ahaha non molto adorabile, sapete ahahaah

 

 

Detto questo vi auguro davvero una buona serata, i love you so much, me lo dimostrate sempre in ogni modo possibile e mi sento in colpa perché l’unica cosa che posso fare è ringraziarvi qui in fondo, o con le risposte alle recensioni.

Grazie mille a tutti, vi voglio bene anche se non conosco la maggior parte di voi (anche se dopo questa storia mi farete bannare dal sito ahahahah). Davvero, grazie.

Convivenza Forzata è ancora work in progress, se qualcuno se lo stava chiedendo.

E adesso basta, che queste note d’autrice stanno diventando più lunghe della fic stessa, il che non è una bazzecola LOL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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