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Autore: Eikochan    25/07/2013    0 recensioni
Centro di riabilitazione Purple Garden Resort. Ellie, Dakota, Noah, Sebastian, Jonah, Chris. Sei ragazzi persi, problematici, ai margini, che tentano di salvarsi, da soli e tra di loro.
Perché se non hai più nessuno, allora non ti rimane che te stesso.
“In ogni caso” continuò, la voce alta per farsi sentire sopra i giri di batteria e la voce di Dakota “come mai non ti ho mai vista da queste parti? Nuova?”
“Di zecca. Arrivata giusto stamattina.”
“Allora è con immenso piacere che mi presento” E le prese la mano tra le sue “Noah Jackson, al suo servizio.” E si chinò a baciarla in un perfetto baciamano d’altri tempi.
Decisamente quel posto era pieno di scoppiati, prima quella che parla come un cartone animato e ora lo spilungone d’altri tempi con i jeans sdruciti ed una strana t-shirt. Bello.
Si dice che il buongiorno si vede dal mattino, no?
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Ciao! Tu devi essere Elliot, giusto?”
Si era persa nei suoi pensieri così tanto che non si era accorta della donna che le si era avvicinata; era ancora stupita dalla rivelazione del luogo in cui avrebbe soggiornato per i cinque mesi seguenti: un’elegante e ben tenuto edificio color giallo tenue, circondato da un immenso giardino fiorito. Di certo la sua idea iniziale –un complesso grigio, sporco e triste- era stata del tutto spazzata via.
Una volta riscossa dal suo rimuginare alzò lo sguardo verso la sua interlocutrice, una donnona di mezz’età in evidente sovrappeso e con un sorriso bonario stampato in viso. Si vedeva lontano un miglio che apparteneva alla tipologia di infermiere ‘mamma chioccia’. Annuì alla sua domanda, mentre con la coda dell’occhio vide scomparire dietro l’angolo, in uno svolazzo morbido, i capelli freschi di parrucchiera di sua zia. Non l’aveva nemmeno salutata…  ma del resto non  lo voleva nemmeno il suo addio. Incredibilmente provò un improvviso senso di libertà; non le importava di dover passare praticamente metà anno chiusa in quella casa: si era finalmente liberata di quella megera e niente valeva quella sensazione di leggerezza.
Intanto l’infermiera, che con voce dolce e una parlantina incredibile si era presentata come Mary Jane Brown,  le aveva intimato –in un ordine tramutato in consiglio-  di seguirla. Si accinse a fare quello che le era stato detto senza rimostranze. La signora Brown la condusse lungo un corridoio largo e armonioso, su cui si affacciavano svariate porte, la maggior parte delle quali chiuse -anche se riuscì comunque a vedere una stanza disseminata di sedie di plastica colorate, e in quella accanto una sala musica con vari strumenti musicali. Quel posto la stupiva sempre di più. Imboccò le scale e salì al secondo piano; li le porte erano tutte chiuse e presentavano accanto allo stipite una targhetta con dei nomi. L’infermiera le spiegò che il secondo e il terzo piano erano adibiti a stanze per i pazienti; finalmente arrivarono alla penultima porta a destra, in fondo al corridoio.  Attese, mezza nascosta dietro l’infermiera, che intanto aveva bussato alla porta; dall’interno si sentì un’avanti’ e subito la donna aprì la porta. La prima cosa che Ellie vide fu il pavimento disseminato di scarpe: tacchi di ogni genere, colore e altezza erano sparpagliati in disordine e sembrava ci fosse stata un’esplosione. Si arrischiò ad alzare lo sguardo e vide quella che sarebbe diventata la sua compagna di stanza; era seduta sulla sedia di fronte alla scrivania e aveva allungato le gambe –lunghe, magrissime e coperte da un paio di reggicalze a rete- sul piano di lavoro, indossava una maglietta di una qualche rock band e aveva il viso coperto da lunghi capelli biondi. Fece un paio di passi dentro la stanza, seguendo l’infermiera che si districava abilmente nella giungla di calzature. “Dakota! Non ti avevo forse chiesto di dare una riordinata che oggi doveva arrivare la tua nuova compagna di stanza?” le chiese Mary Jane. La ragazza, che aveva tenuto la testa china fino a quel momento, alzò lo sguardo nella loro direzione e Ellie rimase sorpresa dalla bellezza della ragazza. Quest’ultima la guardò sorpresa, sgranando gli occhi azzurro cielo e alzandosi dalla sedia e avvicinandosi scavalcando con estrema grazia il disordine nonostante il tacco dodici che portava: raggiungeva tranquillamente il metro e novanta.
Subito l’infermiera iniziò le presentazioni e Elliot scoprì così che la bionda si chiamava Dakota Smith, aveva appena compiuto sedici anni e non era incline a parlare, e a lei non poteva che andare bene. Dopo la breve introduzione la signora Brown sparì di nuovo nel corridoio lasciando le due sole. Dakota aveva preso un po’ a calci le sue scarpe in modo da creare un varco tra la porta e l’armadio e poi si era lasciata cadere sul letto, le braccia incrociate dietro la schiena e gli occhi chiusi, senza proferire parole. Ellie decise allora di sistemare le sue cose e iniziò a disfare la valigia dai vestiti;  era da circa dieci minuti che lavorava nel silenzio quando questo fu interrotta dalla voce della bionda.
“Non fare mai la modella.”
“Come scusa?” le chiese, stupita.
“Hai davvero un bel viso.” Le rispose l’altra, senza senso logico.
“Hem.. grazie?!”
“Non fare mai la modella.” Ripeté ancora la bionda, sistemandosi meglio sulla tastiera del letto.
“Sei una modella?” le chiese allora Ellie, incuriosita.
“Una volta. Quando ero ancora bella.”
La mora rimase interdetta: Dakota era davvero una delle ragazze più stupende mai viste in vita sua. Come poteva non ritenersi per lo meno bella?
“Ma sei bellissima.” Le uscì di getto.
“Sai, una volta si raccontava che a Pinocchio si allungasse il naso ogni volta che diceva bugie. Per fortuna tu non sei pinocchio, altrimenti il tuo bel viso sarebbe rovinato.”
Decise di sorvolare, ancora una volta. Parlare con quella ragazzina tutta pelle e ossa si era rivelato più difficile di quello che credeva; ma del resto era in una casa di cura e centro di riabilitazione, no? Era normale che ci trovasse gente sciroccata. Ma del resto ora anche lei era una pazza, quindi tanto valeva interagire.
“Senti, non è che dopo pranzo mi fai fare un giro della struttura? Giusto per ambientarmi?”
“Certo, fammi solo cambiare tacchi.”

 

Una volta che Dakota ebbe cambiato tacchi e dopo aver mangiato il pranzo –o meglio, dopo che Ellie ebbe finito di mangiare; la bionda si era limitata a piluccare il piatto ogni volta che le infermiere guardavano nella sua direzione- iniziarono il loro tour dell’edificio. La casa era grande e Dakota le mostrò la palestra, la piscina riabilitativa, la sala relax e tutte le altre stanze dedicate alla cura e al tempo libero,ma la cosa che davvero smosse Ellie fu la biblioteca: era una stanza piuttosto piccola, stipata di libri di ogni genere, forma e  anno, disseminata di sedie e tavolini e con un bancone dietro cui stava una signora anziana dai capelli grigi e gli occhiali dalla montatura fine. In realtà non era questo granché, non sembra troppo fornita e nemmeno troppo frequentata, ma la verità era che ad Ellie bastava vedere un libro per esserne attratta e così aveva costretto la povera Dakota a rimanere li per quasi mezz’ora. Finalmente riuscì a staccarsi dagli scaffali –non prima di aver capito come funzionava il servizio di prestiti- e a seguire la bionda nell’ultima stanza del pianoterra dove fu il turno di Ellie di aspettare pazientemente l’altra ragazza. Entrarono in quella che era stata soprannominata “sala della musica”; come la libreria non era di dimensione esagerate ma aveva un vasto assortimento di strumenti musicali, amplificatori e microfoni. Fu subito chiaro alla mora che Dakota provava una passione viscerale per la musica: bastava osservare il modo in cui guardava e toccava il microfono e gli strumenti, mentre canticchiava a bassa voce una canzone mai sentita.
“Suoni?” le domandò allora la mora, giusto per fare conversazione e spezzare il silenzio che regnava sovrano. L’altra scosse la testa senza alzare lo sguardo dal foglio posto sul leggio.
“Canti?”
“Si.”  Dakota si spostò il ciuffo biondo lontano dagli occhi e si degnò di rivolgerle un’occhiata. “Scrivo e compongo. Cantautrice.”
“Davvero? Brava!”
“Ma come fai a dirlo? Non mi hai ancora sentito.” Le chiese, stiracchiando un mezzo sorriso “Comunque avrai l’onore di ascoltarmi questa sera.”
La mora la guardò dubbiosa.
“Le infermiere mi lasciano tenere dei piccoli ‘concerti’ in giardino, ogni tanto. I dottori dicono che mi fa bene!”
Ellie sorrise: era chiaro che Dakota adorava quei concerti. Lo si vedeva dagli occhi azzurri accesi di luce, per la prima volta in quel giorno.
“Allora non vedo l’ora di sentirti!”

 
**************

Aveva finito la cena, era salita in camera a cambiarsi con qualcosa di più pesante e ora era in giardino, seduta su una semplice sedia di ferro battuto vicino a quello che doveva essere il palco adibito per l’esibizione: un leggero palchetto rialzato di circa cinquanta centimetri fatto con assi di legno; non era granché ma infondo non si trovavano mica alla Royal Albert Hall. Alla fine, dopo dieci minuti che era li, Dakota fece la sua comparsa sul palco, in ritardo come le dive; la ragazza non aveva voluto che Ellie la vedesse prima dell’esibizione poiché sosteneva ‘portasse male’ così l’aveva scacciata senza tanti complimenti. La bionda, tacchi borchiati ai piedi e stile grunge, si era avvicinata al microfono e aveva tossicchiato per attirare l’attenzione, così Ellie si avvicinò al palco. Non c’era molta gente poiché i pazienti non erano tanti ma si trovo comunque vicino ad un ragazzo spilungone e a proprio agio.
“Hei, ciao a tutti!” esordì Dakota, sistemandosi meglio la chitarra intorno al collo “Per questa settimana ho preparato due canzoni, spero vi piacciano … e se non vi piacciono, bè, non capite un cazzo di musica!”
E senza aspettare oltre iniziò il primo pezzo; la musica era bella, ben suonata anche se il batterista non era niente di eccezionale. Ma poi Dakota iniziò a cantare…

 

Lay my head, under the water
Lay my head, under the sea
Excuse me sir, am I your daughter?
Won't you take me back, take me back and see?

There's not a time, for being younger
And all my friends, are enemies
And if I cried unto my mother
No she wasn't there, she wasn't there for me


Aveva una voce spettacolare, di quelle che rimangono impresse per sempre. Roca, profonda, strana e bellissima. Si costrinse ad ascoltare il testo e, a giudicare dal sentimento con cui la bionda cantava, era totalmente autobiografico.

 

Don't let the water drag you down
Don't let the water drag you down

Don't let me drown, don't let me drown in the waves, oh
I could be found, I could be what you had saved

 

Era un canto di tristezza e speranza, ed era sconvolgente. Aveva a malapena sentito una canzone e già si era resa conto che sarebbe stata una sua grandissima fan.
Dakota, nel frattempo, si era accesa una sigaretta e aveva iniziato un’altra canzone, molto più movimentata della precedente e notò che gli altri pazienti avevano iniziato a muoversi a tempo, e in particolare il ragazzo alla sua sinistra sembrava molto preso dalla musica.

 

You hurt where you sleep 
And you sleep where you lie 
Now you're in deep and 
now you're gonna cry 
You got a woman to the left 
and a boy to the right 
Start to sweat so hold me tight 

Somebody mixed my medicine 
I don't know what I'm on 
Somebody mixed my medicine 
But baby it's all gone 
Somebody mixed my medicine 
Somebody's in my head again 
Somebody mixed my medicine again, again 

Si guardò intorno un po’ confusa ma nessuno sembrava sconvolto o turbato, addirittura le infermiere guardavano Dakota con un sorriso in volto.
Non riusciva a capire.
“Stupita, eh?”
Si girò per guardare chi le aveva parlato: lo spilungone affianco a lei si era voltato e ora la guardava con un mezzo sorriso stampato in volto.
“Molto.”
“Dalla voce o dal testo?”
“Entrambi.” Sorrise “Ma è una mia impressione o sta parlando di droga?”
“Oh, ci hai azzeccato in pieno, dolcezza.” Si avvicinò un po’ di più “Ma non preoccuparti, non verrà nessun dottore ad incatenarla in una camicia di forza e rinchiuderla in una stanza piena di pareti imbottite: i dottori dicono che le fa bene cantare dei suoi problemi, è una valvola di sfogo non indifferente.”
Fece un altro grande sorriso e Ellie si chiese se avesse per caso una paralisi alla bocca, o se semplicemente era consapevole del fascino delle sue labbra.
“In ogni caso” continuò, la voce alta per farsi sentire sopra i giri di batteria e la voce di Dakota “come mai non ti ho mai vista da queste parti? Nuova?”
“Di zecca. Arrivata giusto stamattina.”
“Allora è con immenso piacere che mi presento” E le prese la mano tra le sue “Noah Jackson, al suo servizio.” E si chinò a baciarla in un perfetto baciamano d’altri tempi.
Decisamente quel posto era pieno di scoppiati, prima quella che parla come un cartone animato e ora lo spilungone d’altri tempi con i jeans sdruciti e una strana t-shirt. Bello.
Si dice che il buongiorno si vede dal mattino, no?




L’AUTRICE COMUNICA:

Bene, dopo precisamente 14 mesi e 13 giorni torno a pubblicare su EFP. Ma stavolta abbandono i fandom e mi dedico ad una originale a cui tengo con tutti il mio cuore e su cui sto lavorando da un bel po’… e nella mia testa c’è scritto tutto, addirittura l’epilogo. Nonostante questo non posso assicurare la pubblicazione precisa e veloce, sapete com’è.. .esiste una cosa chiamata UNIVERSITA’ che risucchia tutto il mio tempo, un po’ come i dissennatori con la vostra anima.
Comunque spero che questo prologo vi abbia incuriosito.
Per chi volesse ho già alcuni presta volto alla mia storia:
Dakota
Noah
Per Ellie invece non riesco a trovare qualcuna che rispecchi la mia visione personale. Appena la troverò ve lo comunicherò! :D
Le canzoni invece sono entrambe dei The Pretty Reckless (la cui cantante è Taylor Momsen, la presta volto di Dakota) e in ordine sono ‘Under the water’ e ‘My medicine’.

 Un beso a tutti quelli arrivati fin qui.

 

Eikochan

 



   
 
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