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Autore: _eco    25/07/2013    6 recensioni
A wip, che mi fa sciogliere con le sue recensioni.
E a , che ama tanto Peeta.

[Post-Mockingjay] [Katniss Everdeen/Peeta Mellark]
Quando Peeta termina la sua opera, striscia indietro con la sedia, e mi lascia spazio per scrivere la consueta didascalia, ma io lo fermo, sfiorandogli la spalla.
- Voglio che tu scriva qualcosa – spiego.
Lui annuisce, e non fa domande. Cosa che io farei, subito, all’istante. È questo che mi piace di Peeta: è abile con le parole, ma ha come un sesto senso, qualcosa che gli segnala che non sempre è giusto parlare. Così ascolta, attento, vigile.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Provate voi ad ascoltare "Heart of Courage" mentre leggete Catching Fire. Specialmente la scena della parata. È sublime. Così mi è uscita fuori questa idea. Non è che sia la migliore Everlak che abbia mai scritto, ma volevo pubblicarla lo stesso.
Buona lettura, belli! (:
S.
Vi prego, ascoltate "Heart of Courage", mentre la leggete. È una canzone meravigliosa **

A wip, che mi fa sciogliere con le sue recensioni,
e sarà felice di trovare Peeta con il grembiule da panettiere.

E a , che ama tanto Peeta.

We are unforgiving.

Ci sono ancora una trentina di pagine bianche – anche se, forse, sarebbe meglio dire giallastre –, nel nostro libro. Le riempiamo lentamente, senza fretta. Ci prendiamo il tempo di selezionare le fotografie e i ritratti, di scegliere le giuste parole da accostare ad ognuno di essi, le giuste cornici da disegnarvi intorno. Cioè, Peeta le disegna. Peeta e le sue mani forti, solide, da fornaio, che divengono delicate, leggere, da artista nel momento stesso in cui stringe fra le dita una matita, un pennarello, un pennello con un po’ di tempera nella punta morbida e flessuosa. Peeta e la sua fronte increspata di rughe di concentrazione. Peeta e quella strana nebbiolina che gli vela lo sguardo, ogni volta che dipinge. Che lo isola, in qualche modo.
Potrei parlargli all’infinito, potrei anche insultarlo pesantemente, e lui non se ne accorgerebbe. Non quando erge intorno a lui quei sottili muri di carta, colori e carboncino, almeno.
Così mi limito a guardarlo, e, qualche volta, tanto per ricordargli della mia presenza, sfioro la sua zazzera bionda, scompigliandogliela un po’. Il massimo che ottengo da lui è un grugnito di disapprovazione.
Buffo come Peeta, amante delle parole, maestro nel farne uso, si ammutolisca completamente mentre si dedica ad un’attività marginale come il disegno. E siccome non sono mai stata brava a parlare e ho sempre lasciato che fosse lui a farlo, sto in silenzio anche io.
Distinguo perfettamente il cinguettio di qualche passero, appollaiato sui rami dell’albero, giù in giardino.
Nel frangente in cui Peeta intinge il pennello in una macchia di tempera diluita, che si estende dentro una ciotola di terracotta, vedo la fotografia che abbiamo scelto di inserire nel nostro libro, qualche sera fa.
La cornice non è ancora ultimata, ma sento di amarla già: piante rampicanti tutte intorno al rettangolo di carta lucida incollato al centro, fiori variopinti, le corolle spiegate, ai quattro angoli della fotografia; dopo una più attenta osservazione, mi accorgo che non tutti quei morbidi triangoli vellutati e colorati sono petali: alcuni sono ali, ben aperte, ancorate ad un corpicino esile, nero, poco individuabile a dire il vero. Farfalle. Ce ne saranno due o tre in tutto. Mi piacciono.
- Oh, Peeta! – riesco a mormorare, in adorazione del suo lavoro.
Avverto lo sbuffo di un sorriso far capolino sul suo volto.
La fotografia l’abbiamo trovata in una busta di carta, abbandonata sul fondo del nostro armadio. Tra carte, scartoffie e documenti vari, accumulati nel tempo senza alcun ordine, c’era questo rettangolo di carta lucida. Ancora integro, non una piega negli angoli, non una macchia. Persino i colori sono ancora quelli di allora. L’unica pecca è, forse, l’inquadratura un po’ obliqua, la lieve sfocatura delle sagome. E conosco una sola persona che sarebbe ubriaca al punto di impugnare così maldestramente una macchina fotografica: Haymitch.
La mia mente non riesce a ricordare quando l’abbiamo scattata, ma qualcosa mi suggerisce che il nostro mentore ci abbia fatto da fotografo, in quel momento.
Siamo io e Peeta, nel giardinetto di casa nostra, a pochi metri dal portico, in mezzo all’erba curata, che Peeta si preoccupa di falciare almeno una volta a settimana. E piove. Lo capisco perché l’obiettivo è trapuntato di piccole gocce di pioggia, e, soprattutto, perché entrambi appariamo fradici come pulcini. La mia giacca da caccia potrebbe essere strizzata all’infinito. La treccia mi cade disordinata sulla spalla destra, appesantita dalla pioggia. Peeta dev’essere appena tornato dalla panetteria, perché ha indosso ancora il suo grembiule bianco, lievemente sporco di carbone e fuliggine. E forse anche di farina, ma questo dettaglio è una minuzia, per essere notato all’interno della foto.
La mia faccia è sì e no a trenta centimetri da terra, e un braccio di Peeta mi cinge la vita, impedendomi di finire dritta in una pozza di acqua, fango ed erba. Il mio essere sgraziata e distratta deve avermi quasi fatto inciampare. Ne consegue che il mio viso non è inquadrato frontalmente: si vedono i capelli, sfuggiti alla treccia, appiccicati alla fronte, si scorge una protuberanza che dovrebbe essere il naso, e quello che mi sembra un sorriso immortalato di sbieco.
Ho le labbra semiaperte, i denti ben in evidenza: per quanto ne so, potrebbe essere anche la tipica espressione che assumo quando emetto i miei ridicoli e isterici gridolini di sorpresa.
Ma Peeta sorride, e di questo sono certa. La fotografia lo ritrae frontalmente, gli occhi azzurri spiccano in mezzo alle catinelle d’acqua che precipitano dal cielo. Sembra divertito. Quasi avverto il suono della sua risata fondersi allo scrosciare della pioggia.
Quando Peeta termina la sua opera, striscia indietro con la sedia, e mi lascia spazio per scrivere la consueta didascalia, ma io lo fermo, sfiorandogli la spalla.
- Voglio che tu scriva qualcosa – spiego.
Lui annuisce, e non fa domande. Cosa che io farei, subito, all’istante. È questo che mi piace di Peeta: è abile con le parole, ma ha come un sesto senso, qualcosa che gli segnala che non sempre è giusto parlare. Così ascolta, attento, vigile.
Io mi prendo il mio tempo per ragionarci su: non so ancora cosa voglia che scriva, ma so che dovrà essere perfetto.
E Peeta è molto più pratico di me, in fatto di matite e pennarelli.
Per un qualche assurdo motivo, la mia mente inizia a vagare a ritroso. I fotogrammi della mia vita si susseguono così rapidamente che, spesso, fatico a collocarli in un momento preciso. Rallentano e si bloccano di colpo.
Ed eccoci qui, Peeta ed io. Sul nostro carro fiammeggiante, trainati da cavalli color carbone, nei nostri vestiti di fuoco. Non spaventati, non incerti, non amabili. Nessun bacio per il pubblico, nessuna considerazione per coloro che ci acclamano, esaltati, che sono pronti a scommettere somme esorbitanti sulla nostra morte. Siamo fieri, imperscrutabili, decisi. C’è potenza, nei nostri sguardi. C’è forza, nelle fiamme che ci avvolgono, nei lapilli di fuoco che ci guizzano intorno senza mai sfiorarci davvero.
La fotografia che troneggia in mezzo alla pagina e l' immagine che abita la mia mente sono in netto contrasto. Questo è certo: pioggia scrosciante nell’una, fuoco impetuoso nell’altra, sorrisi nella prima, sguardi fieri nella seconda.
Freddo pungente, caldo ardente.
Ma è anche certo, e assurdo, e inspiegabile, che a quella fotografia, così diversa, così serena, collego la stessa frase che pensai quindici anni fa, in piedi su quel carro.
Lo dico a Peeta, in un sussurro, e lo vedo annuire. Gli passo un pennarello nero. Indelebile, perché Peeta non riuscirebbe a sbagliare nemmeno se ne avesse l’intenzione.
Le sue mani si muovono con grazia e leggerezza, le dita guidano con maestria i segni sul foglio.
Come previsto, Peeta non ha commesso errori. L’inchiostro non sbava neppure di un millimetro.
In quelle due parole c’è tutto ciò che siamo stati, siamo e saremo.
Siamo implacabili.


 

  
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